LÂAnno del Padre - Testimonianza Paternità ed appartenenza: unÂesperienza personale Luigi Giussani
ÂSei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre. Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio, sono stupende le Tue opere. Tu mi conosci fino in fondo. Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra. Ancora informe mi hanno visto i Tuoi occhi e tutto era scritto nel Tuo libro; i miei giorni erano fissati quando ancora non ne esisteva uno (Sal 139,13-16). LÂuomo dipende, non solo in qualche aspetto dellÂesistenza, ma in tutto: chiunque osserva la propria esperienza può scoprire lÂevidenza di una dipendenza totale da un Altro che ci ha fatti, ci fa e continuamente ci conserva nellÂessere. La Bibbia descrive con parole mirabili lÂappartenenza radicale dellÂuomo al suo Creatore. La dignità della creatura è radicata dal salmo 8:ÂChe cosa è lÂuomo perché te ne ricordi, il figlio dellÂuomo perché te ne curi? Eppure lÂhai fatto poco meno di Te, di gloria e di onore lo hai coronato (Sal 8, 5s). E nellÂuomo che si manifesta la paternità di Dio per tutto il cosmo, paternità verso lÂuomo come vertice cosciente e libero del creato. LÂuomo non cÂera ed ora cÂè, domani non sarà più: dunque dipende. O dipende dal flusso dei suoi antecedenti biologici e storici, ed allora sarà schiavo del potere; o dipende da Ciò che sta allÂorigine del dinamismo di tutto il reale, cioè da Dio. La cultura moderna, che ha estromesso la tradizione dal proprio orizzonte di pensiero e di azione, ha operato la distruzione del valore di unÂappartenenza, sostituendo ad essa una libertà come non adesione al Padre, divenendo così sorgente di menzogna. Se cÂè lÂappartenenza a Dio, allora è impossibile che non si senta ciò che Dio ha fatto prima di noi: il Padre che è nei cieli ed il padre e la madre storici che ci hanno dato la vita. La prima appartenenza, fisiologicamente e socialmente parlando, è quella del genitore. Dio ci è dato attraverso padre e madre. Gesù di Nazareth, Figlio del Padre, in ogni pagina del Vangelo, mostra la paternità infinita di Dio come la radice profonda del suo stesso operare nel mondo. Come, per esempio, quel giorno in cui andava lungo i campi della Palestina con i suoi discepoli; passando per Nain si imbattè in un funerale: una madre vedova accompagnava alla sepoltura il figlio morto. Gesù si avvicinò a lei e disse parole che nessun uomo avrebbe potuto concepire in quella circostanza:ÂDonna, non piangere!Â, quasi abbracciandola con tenerezza sconfinata. E subito dopo le restituì il figlio vivo (cfr. Lc 7,11-15). Che cosa possono desiderare un padre ed una madre se non di potere guardare e trattare i propri figli con questo sguardo sullÂumano, ad imitazione di Cristo? E, di conseguenza, che cosa implica il fatto che una donna ed un uomo vogliano che la loro unione sia Âbenedetta da Cristo e diventi perciò Sacramento? Implica che lÂunità delle loro persone sia intesa e vissuta in funzione del Regno di Dio, e quindi della gloria umana di Cristo. La vita stessa ci è stata data per questo. LÂespressione Âgloria umana di Cristo indica il Mistero che in qualche modo si rende visibile, sensibile, tangibile, sperimentabile a causa di una realtà diversa che in suo nome si crea. La famiglia è il luogo dellÂeducazione allÂappartenenza, allÂesperienza della paternità e, quindi, della maternità. Nella famiglia è evidente che lÂelemento fondamentale di sviluppo della persona sta nellÂappartenenza reciproca, coniugata, di due fattori: lÂuomo e la donna. Ed è nella famiglia che la vera appartenenza si rivela come libertà: lÂappartenenza vera è libertà. La libertà, infatti, è quella esplicita di aderire  fino allÂimmedesimazione ed alla assimilazione  a ciò che ci fa essere, al nostro Destino, che è resa possibile dal legame con esso. Il primo aspetto della libertà è affermare un legame, altrimenti uno non cresce, perché non assimila più. Se noi usassimo la nostra coscienza fino in fondo, se riflettessimo su noi stessi, non più bambini ma adulti, quale sarebbe lÂevidenza più impressionante? Che in quel dato momento, nellÂistante, io non mi sto facendo da me. Per cui io sono Âqualcosa dÂaltro che mi faÂ, sono come fiotto di sorgente. Perciò dire Âio con consapevolezza è dire ÂtuÂ, la parola più dignitosa è più umana del vocabolario, in questo istante io sono Âtu che mi faiÂ. Per educare a questo senso dellÂappartenenza che definisce la persona umana, occorre quasi un processo di osmosi o, per usare unÂaltra metafora, un Âriflesso esemplareÂ. Vale a dire;: lÂeducazione allÂappartenenza accade se la coscienza di appartenere ad un altro è trasparente nei genitori. Quando cÂè nei genitori, questa coscienza passa ai figli. Non attraverso dei discorsi: senza quella pressione osmotica, senza Âriflesso esemplare i discorsi stabiliscono nella coscienza dellÂuditore, del figlio, solo degli ostacoli. Quale atteggiamento occorre avere, dunque, verso il figlio? La parola dominante, assolutamente non astratta, è ÂgratuitàÂ. Si tratta innanzitutto di una gratitudine per la generazione, cioè lÂaccettazione completa che quel figlio appartenga a sé. In secondo luogo, della riconsegna del figlio allÂAltro, a Ciò di cui il figlio è costituito ed a Cui appartiene in modo totale, sì che questa appartenenza ne costituisca la personalità. Insomma è lÂatteggiamento di adesione da parte dei genitori a ciò che costituisce la persona del figlio: rapporto con lÂEssere, con Dio. Ricordo sempre unÂesperienza dei primi anni di sacerdozio. Ogni settimana veniva a confessarsi una signora, ma un giorno non venne più. Quando ritornò dopo un certo tempo mi disse: ÂSa, non sono venuta perché mi è nata la seconda figlia .E, prima ancora che io potessi congratularmi con lei, aggiunse: ÂSapesse che impressione ho avuto appena mi sono accorta che si staccava; non ho pensato:ÂE un maschio o ÂE una femminaÂ, ma ÂEcco, incomincia ad andarseneÂ. Dire che il figlio se ne va equivale a dire che il figlio cresce, tanto appartiene ad un Altro. In questo processo, lÂatteggiamento originale di gratuità può vivere la separazione come occasione di riconoscimento del proprio figlio come qualcosa di diverso (sempre diverso da come uno se lo immaginava). Se, invece, viene meno la gratuità, subentra il rancore: a mano a mano che il figlio se ne va il rancore aumenta la solitudine. Per cui lÂappartenenza del figlio al genitore è da questi pretesa con un atteggiamento di recriminazione, imbrigliata in uno schema. Purtroppo oggi quasi tutti hanno un concetto di famiglia che non implica la totalità dei fattori secondo il disegno di Dio come ce li ha fatti conoscere il Signore attraverso Gesù. Chi non ha mai sentito parlare di Gesù non può pensare ad unÂimmagine della famiglia alternativa a quella mondana. Si possono generare figli senzÂalcuna coscienza del loro destino, come una bestia mette al mondo i suoi cuccioli. Non si è padri e madri perché si fanno figli, ma perché, avendoli generati, li si educa: li si aiuta, cioè, a camminare verso il loro Destino. Senza questa responsabilità vissuta non cÂè né paternità, né maternità. Quale è il metodo che esprime tutto il processo educativo come paternità? Quello dellÂesperienza: che il figlio realizzi lÂesperienza del vivere, del proprio io. E solo lÂesperienza personale vissuta che salva lÂappartenenza ad un altro dallÂessere alienazione, ed assicura perciò lÂidentità, così che lÂappartenenza allÂaltro è la propria identità. Questa traiettoria educativa, che si chiama esperienza, ha un dinamismo. a) La proposta, cioè lÂassimilazione della tradizione propria dei genitori. b) Il condurre per mano, cioè lÂintroduzione in una realtà concreta che il figlio possa assimilare. Questo punto è il più delicato. c) LÂipotesi di lavoro. Si tratta di un lavoro umano, perciò qui ci si riferisce ad unÂipotesi di significato. E la tradizione assimilata nelle sue ragioni. d) Il rischio, che è destinato ad aumentare col tempo, proprio perché lÂappartenenza è legame e responsabilità. Per cui la proposta, il condurre per mano e lÂipotesi di lavoro come significato, tutto questo deve essere offerto ed attuato con discrezione verso la libertà e la responsabilità del figlio che evolvono. e) Una compagnia stabile, che significa fedeltà. Dio è fedele. S. Paolo osserva che anche se noi siamo infedeli, Dio rimane fedele, perché non può negare sé stesso (cfr 2Tm 2,13). LÂesperienza della paternità nella famiglia si realizza come compagnia sicura coi figli, come fedeltà discreta, sempre pronta ad intervenire, vigilante, nei loro confronti. Compagnia fedele, dunque, fino al perdono, allÂinfinito, ciò che impariamo continuamente dalla paternità smisurata del Dio con noi. E quanto afferma ne ÂLÂannuncio a Maria il vecchio padre Anna Vercors rivolto alla figlia Violaine: ÂLÂamore del Padre non chiede compenso ed il figlio non occorre che lo conquisti o che lo meriti. Come era con lui prima del principio, così resta: suo bene e sua eredità, suo rifugio, suo onore, sua giustificazioneÂ. |