COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE
FEDE E INCULTURAZIONE* (1989)
Introduzione 1. La Commissione Teologica Internazionale ha in più occasioni riflettuto sui rapporti tra la fede e la cultura. Nel 1984 ha affrontato direttamente il tema dell’inculturazione della fede nello studio sul mistero della Chiesa, elaborato in vista del Sinodo Straordinario del 1985 [1]. Da parte sua, la Pontificia Commissione Biblica ha tenuto la propria sessione plenaria del 1979 sul tema L’inculturazione della fede alla luce della Scrittura [2]. 2. Oggi la Commissione Teologica Internazionale intende compiere in maniera più approfondita e più sistematica tale riflessione, a motivo dell’importanza che ha assunto il tema dell’inculturazione della fede dappertutto nel mondo cristiano e a motivo dell’insistenza con cui il magistero della Chiesa ha affrontato tale tema dopo il Concilio Vaticano II. 3. La base viene fornita dai documenti conciliari e dai testi dei Sinodi che ne sono come il prolungamento. Così, nella costituzione Gaudium et spes, il Concilio ha mostrato quali lezioni e quali consegne la Chiesa ha tratto dalle sue prime esperienze d’inculturazione nel mondo greco-romano [3]. Quindi ha consacrato un capitolo intero di questo documento alla promozione della cultura (de culturae progressu rite promovendo) [4]. Dopo aver descritto la cultura come uno sforzo verso una maggiore umanità e un migliore ordinamento dell’universo, il Concilio ha a lungo considerato i rapporti tra la cultura e il messaggio della salvezza. Ha quindi enunciato alcuni dei compiti più urgenti dei cristiani in rapporto alla cultura: difesa del diritto di tutti alla cultura, promozione di una cultura integrale, armonizzazione dei rapporti tra cultura e cristianesimo. Il Decreto sull’attività missionaria della Chiesa e la Dichiarazione sulle religioni non cristiane riprendono alcuni di tali orientamenti. Due Sinodi ordinari hanno trattato espressamente dell’evangelizzazione delle culture, quello del 1974, consacrato all’evangelizzazione [5], e quello del 1976, sulla formazione catechetica [6]. Il Sinodo del 1985, che celebrava il ventesimo anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II, ha parlato dell’inculturazione come dell’«intima trasformazione degli autentici valori culturali mediante l’integrazione nel cristianesimo, e il radicamento del cristianesimo nelle varie culture umane» [7]. 4. Il papa Giovanni Paolo II, dal canto suo, ha preso a cuore in maniera particolare l’evangelizzazione delle culture: il dialogo della Chiesa e delle culture riveste, secondo lui, un’importanza vitale per l’avvenire della Chiesa e del mondo. Il Santo Padre ha creato, per aiutarla in questa grande opera, uno speciale organismo della Curia: il Pontificio Consiglio per la Cultura [8]. Del resto è con tale dicastero che la Commissione Teologica Internazionale si compiace di poter riflettere oggi sull’inculturazione della fede. 5. Fondandosi sulla convinzione che «l’Incarnazione del Verbo è stata anche un’incarnazione culturale», il Papa afferma che le culture, analogicamente paragonabili all’umanità del Cristo in ciò che hanno di buono, possono svolgere un ruolo positivo di mediazione per l’espressione e la diffusione della fede cristiana [9]. 6. Due temi essenziali sono legati a queste considerazioni. Anzitutto quello della trascendenza della Rivelazione in rapporto alle culture nelle quali essa si manifesta. La Parola di Dio non potrebbe, infatti, identificarsi o legarsi in maniera esclusiva agli elementi di cultura che la veicolano. Il Vangelo anzi impone spesso una conversione delle mentalità e una riforma dei costumi là dove esso s’impianta: le culture, esse pure, devono essere purificate e restaurate nel Cristo. 7. Il secondo tema essenziale dell’insegnamento di Giovanni Paolo II verte sull’urgenza dell’evangelizzazione delle culture. Tale compito suppone che si comprendano e si penetrino con una simpatia critica le identità culturali particolari e che, in una sollecitudine di universalità conforme alla realtà propriamente umana di tutte le culture, si favoriscano gli scambi reciproci. Il Santo Padre fonda così l’evangelizzazione delle culture su una concezione antropologica fortemente radicata nel pensiero cristiano dall’epoca dei Padri della Chiesa. Poiché la cultura, quando è retta, rivela e fortifica la natura dell’uomo, l’assimilazione (imprégnation) cristiana della cultura suppone il superamento di ogni storicismo e di ogni relativismo nella concezione dell’umano. L’evangelizzazione delle culture deve dunque ispirarsi all’amore dell’uomo in se stesso e per se stesso, specie in quegli aspetti del suo essere e della sua cultura che sono attaccati o minacciati [10]. 8. Alla luce di tale insegnamento, come anche della riflessione che il tema dell’inculturazione della fede ha suscitato nella Chiesa, proporremo anzitutto un’antropologia cristiana che situa, l’una in rapporto all’altra, la natura, la cultura e la grazia. Vedremo in seguito il processo d’inculturazione in atto nella storia della salvezza: antico Israele, vita e opera di Gesù, Chiesa delle origini. Un’ultima sezione tratterà di problemi posti oggi alla fede dall’incontro con la pietà popolare, con le religioni non cristiane, con la tradizione culturale nelle giovani Chiese, infine con i vari elementi della modernità. 1. NATURA, CULTURA E GRAZIA 1. Gli antropologi ricorrono volentieri, per descrivere o definire la cultura, alla distinzione, talora divenuta opposizione, tra natura e cultura. Il significato del termine natura varia del resto secondo le diverse concezioni delle scienze dell’osservazione, della filosofia e della teologia. Il Magistero lo intende in un senso ben preciso: la natura di un essere è ciò che lo costituisce come tale, con il dinamismo delle sue tendenze verso le sue finalità proprie. E da Dio che le nature derivano ciò che sono, come i loro fini propri. Esse sono quindi pregne di un significato in cui l’uomo, in quanto immagine di Dio, è capace di leggere «l’intenzione creatrice di Dio» [11]. 2. Le inclinazioni fondamentali della natura umana, espresse dalla legge naturale, appaiono dunque come un’espressione della volontà del Creatore. Questa legge naturale manifesta le esigenze specifiche della natura umana, le quali sono indicative del disegno di Dio sulla sua creatura razionale e libera. Così viene eliminato ogni malinteso che, percependo la natura in un senso univoco, ridurrebbe l’uomo alla natura materiale. 3. Giova allo stesso tempo considerare la natura umana secondo il suo sviluppo concreto nel tempo della storia: ciò che l’uomo, dotato di una libertà fallibile, spesso schiava delle passioni, ha fatto della propria umanità. Questa eredità trasmessa alle nuove generazioni comporta insieme tesori immensi di saggezza, di arte e di generosità e una parte considerevole di deviazioni e di perversioni. L’attenzione si concentra allora contemporaneamente sulla natura umana e sulla condizione umana, espressione che integra certi dati esistenziali, alcuni dei quali — il peccato e la grazia — riguardano la storia della salvezza. Se quindi adoperiamo il termine cultura in un senso anzitutto positivo — come sinonimo di sviluppo, ad esempio —, come hanno fatto il Concilio Vaticano II e gli ultimi papi, non dimentichiamo che le culture possono perpetuare e favorire le scelte dell’orgoglio e dell’egoismo. 4. La cultura si comprende nel prolungamento delle esigenze della natura umana, quale compimento delle sue finalità, come insegna specialmente la costituzione Gaudium et spes: «E proprio della persona umana il non poter raggiungere un livello di vita veramente e pienamente umano se non mediante la cultura, coltivando cioè i beni e i valori della natura. [...] Con il termine generico di "cultura" si vogliono indicare tutti quei mezzi con i quali l’uomo affina ed esplica le molteplici sue doti di anima e di corpo» [12]. Numerosi sono così i campi della cultura: con la conoscenza e il lavoro l’uomo procura di ridurre in suo potere il cosmo; rende più umana la vita sociale mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine esprime, comunica e conserva nelle sue opere, nel corso del tempo, le grandi esperienze spirituali e le aspirazioni maggiori dell’uomo, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano. 5. II soggetto principale della cultura è la persona umana, considerata secondo tutte le dimensioni del suo essere. L’uomo si coltiva — questa è la prima finalità della cultura —, ma lo fa grazie a opere di cultura e grazie a una memoria culturale. Di conseguenza la cultura indica pure l’ambiente nel quale e grazie al quale le persone possono crescere. 6. La persona umana è un essere di comunione, essa si sviluppa donando e ricevendo. È quindi nella solidarietà con gli altri e attraverso i vincoli sociali attivi che la persona progredisce. Perciò realtà come nazione, popolo, società, con il loro patrimonio culturale, costituiscono per lo sviluppo delle persone un «ambiente storicamente definito, in cui ogni uomo, di qualsiasi stirpe ed epoca, s’inserisce e da cui attinge i beni che gli consentono di promuovere la civiltà» [13]. 7. La cultura, che è sempre una cultura concreta e particolare, è aperta ai valori superiori comuni a tutti gli uomini. L’originalità di una cultura significa quindi non ripiegamento su se stessa, ma contributo a una ricchezza che è bene per tutti gli uomini. Il pluralismo culturale non potrebbe perciò interpretarsi come la giustapposizione di universi chiusi, ma come la partecipazione al concreto di realtà orientate tutte verso i valori universali dell’umanità. I fenomeni di reciproca compenetrazione delle culture, frequenti nella storia, illustrano quest’apertura fondamentale delle culture particolari ai valori comuni a tutti gli uomini e, quindi, la loro apertura le une alle altre. 8. L’uomo è un essere naturalmente religioso. L’orientamento verso l’Assoluto è insito nel profondo del suo essere. La religione, in senso lato, è parte integrante della cultura, nella quale essa si radica e che sviluppa. Del resto tutte le grandi culture comportano, come chiave di volta dell’edificio che costituiscono, la dimensione religiosa, ispiratrice delle grandi realizzazioni che hanno segnato la storia millenaria delle civiltà. 9. Alla radice delle grandi religioni vi è il movimento ascendente dell’uomo alla ricerca di Dio. Purificato dalle proprie deviazioni e dalle sue pesantezze, questo movimento dev’essere oggetto di un sincero rispetto, poiché su di esso viene a innestarsi il dono della fede cristiana. Infatti ciò che distingue la fede cristiana è l’essere libera adesione alla proposta dell’amore gratuito di Dio che si è rivelato a noi, che ci ha dato il suo Figlio unico per liberarci dal peccato e ha effuso il suo Spirito nei nostri cuori. In questo dono che Dio fa di se stesso all’umanità consiste, di fronte a tutte le aspirazioni, richieste, conquiste e acquisizioni della natura, la radicale originalità cristiana. 10. Allora, poiché trascende tutto l’ordine della natura e della cultura, la fede cristiana, da un lato è compatibile con tutte le culture, in ciò che hanno di conforme alla retta ragione e alla buona volontà, e dall’altro è essa stessa, in un grado eminente, un fatto dinamizzante di cultura. Un principio illumina l’insieme dei rapporti della fede e della cultura: la grazia rispetta la natura, la guarisce dalle ferite del peccato, la corrobora e la eleva. La sopraelevazione alla vita divina è la finalità specifica della grazia, ma essa non può realizzarsi senza che la natura sia guarita e senza che l’elevazione all’ordine soprannaturale conduca la natura, nella sua linea propria, a una pienezza di perfezione. 11. Il processo d’inculturazione può definirsi come lo sforzo della Chiesa per far penetrare il messaggio di Cristo in un determinato ambiente socioculturale, invitandolo a credere secondo tutti i suoi valori propri, dato che questi sono conciliabili con il Vangelo. Il termine inculturazione include l’idea di crescita, di reciproco arricchimento delle persone e dei gruppi, in virtù dell’incontro del Vangelo con un ambiente sociale. «L’inculturazione è l’incarnazione del Vangelo nelle culture autoctone e insieme l’introduzione di esse nella vita della Chiesa» [14]. 2. L’INCULTURAZIONE NELLA STORIA DELLA SALVEZZA Jahvè e il popolo dell’Alleanza 1. Consideriamo i rapporti della natura, della cultura e della grazia nella storia concreta dell’Alleanza di Dio con l’umanità. Iniziata con un popolo particolare, culminata in un figlio di questo popolo che è anche Figlio di Dio, estesasi a partire da lui a tutte le nazioni della terra, questa storia mostra «l’ammirabile "condiscendenza" della eterna Sapienza» [15]. 1. Israele, popolo dell’Alleanza 2. Israele si è compreso come formato in maniera immediata da Dio. Del resto l’Antico Testamento, la Bibbia dell’antico Israele, è il testimone permanente della rivelazione del Dio vivente ai membri di un popolo eletto. Nella sua forma scritta, questa rivelazione reca pure la traccia delle esperienze culturali e sociali del millennio in cui questo popolo e le civiltà confinanti si sono incontrate nella storia. L’antico Israele è nato in un mondo che aveva già dato origine a grandi culture ed è cresciuto a contatto con esse. 3. Le più antiche istituzioni d’Israele (ad esempio, la circoncisione, il sacrificio di primavera, il riposo del sabato) non gli sono peculiari, ma le ha mutuate dai popoli vicini. Gran parte della cultura d’Israele ha un’origine analoga. Tuttavia, il popolo della Bibbia ha fatto subire a tali elementi mutuati profondi cambiamenti, quando li ha incorporati nella propria fede e nella propria prassi religiosa. Li ha passati al vaglio della fede nel Dio personale di Abramo (creatore libero e sapiente ordinatore dell’universo, nel quale il peccato e la morte non potrebbero trovare la loro origine). E l’incontro con questo Dio, vissuto nell’Alleanza, che permise di comprendere l’uomo e la donna come esseri personali e di respingere di conseguenza i comportamenti disumani inerenti alle altre culture. 4. Gli autori biblici hanno utilizzato e insieme trasformato le culture del loro tempo per narrare, attraverso la storia di un popolo, l’azione salvifica che Dio farà culminare in Gesù Cristo, e per unire i popoli di ogni cultura, chiamati a formare un solo corpo, di cui Cristo è il capo. 5. Nell’Antico Testamento, alcune culture, fuse e trasformate, vengono messe al servizio della rivelazione del Dio di Abramo, vissuta nell’Alleanza e consegnata nella Scrittura. È stata una preparazione unica, sul piano culturale e religioso, per la venuta di Gesù Cristo. Nel Nuovo Testamento, il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe, più profondamente rivelato e manifestato nella pienezza dello Spirito, invita tutte le culture a lasciarsi trasformare dalla vita, dall’insegnamento, dalla morte e risurrezione di Gesù Cristo. 6. Se i pagani sono «innestati su Israele» [16], il piano originale di Dio, dobbiamo sottolinearlo, verte su tutta la creazione [17]. Un’alleanza infatti è conclusa, tramite Noè, con tutti i popoli della terra che sono pronti a vivere nella giustizia [18]. Quest’alleanza è anteriore a quelle strette con Abramo e con Mosè. Infine Israele è chiamato a comunicare le benedizioni che ha ricevuto a tutte le famiglie della terra, a partire da Abramo [19]. 7. Segnaliamo, d’altro canto, che non tutti i diversi aspetti della cultura d’Israele intrattengono gli stessi rapporti con la rivelazione divina. Alcuni attestano la resistenza alla Parola di Dio, mentre altri ne esprimono l’accettazione. Tra questi ultimi occorre distinguere ancora il provvisorio (prescrizioni rituali e giudiziarie) e il permanente, di portata universale. Certi elementi (in «La Legge di Mosè, i Profeti e i Salmi» [20]), hanno precisamente come significato di essere la preistoria di Gesù. 2. Gesù Cristo, Signore e Salvatore del mondo 1. La trascendenza di Gesù in rapporto a ogni cultura 8. Una convinzione domina la predicazione di Gesù: in lui, Gesù, nella sua parola e nella sua persona, Dio completa, superandoli, i doni che ha già fatto a Israele e all’insieme delle nazioni [21]. Gesù è la luce sovrana e la vera saggezza per tutte le nazioni e per tutte le culture [22]. Egli mostra, nella sua stessa attività, che il Dio di Àbramo, già riconosciuto da Israele come creatore e Signore [23], si appresta a regnare su tutti coloro che crederanno al Vangelo; anzi, con Gesù, Dio regna già [24]. 9. L’insegnamento di Gesù, specialmente nelle parabole, non teme di correggere e, all’occorrenza, di contestare non poche idee che la storia, la religione nella sua pratica effettiva e la cultura avevano ispirate ai suoi contemporanei sulla natura di Dio e sul suo agire [25]. 10. L’intimità tutta filiale di Gesù con Dio e l’obbedienza amorevole che gli fa offrire al Padre la propria vita e morte [26] attestano che in lui il disegno originale di Dio sulla creazione, viziato dal peccato, è stato restaurato [27]. Ci troviamo di fronte a una nuova creazione, quella del nuovo Adamo [28]. Perciò i rapporti con Dio sono per molti aspetti profondamente cambiati [29]. La novità è tale che la maledizione che colpisce il Messia crocifisso diventa benedizione per tutti i popoli [30] e che la fede in Gesù salvatore si sostituisce al regime della Legge [31]. 11. La morte e la risurrezione di Gesù, grazie alle quali lo Spirito è stato effuso nei cuori, hanno mostrato le insufficienze delle sapienze e delle morali meramente umane, e anche della Legge peraltro data da Dio a Mosè, tutte istituzioni capaci di dare la conoscenza del bene, ma non la forza di compierlo, la conoscenza del peccato, ma non il potere di sottrarsi [32]. 2. La presenza del Cristo netta cultura e nelle culture 1. La particolarità del Cristo, Signore e Salvatore universale 12. Poiché è stata integrale e concreta, l’incarnazione del Figlio di Dio è stata un’incarnazione culturale: «Cristo steso, attraverso la sua incarnazione, si legò a determinate condizioni sociali e culturali degli uomini con cui visse» [33]. 13. Il Figlio di Dio ha voluto essere un ebreo di Nazareth di Galilea, che parlava aramaico, che era sottomesso a pii genitori d’Israele, che li ha accompagnati al Tempio di Gerusalemme, dove lo ritrovano «seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava» [34]. Gesù cresce in mezzo agli usi e alle istituzioni della Palestina del primo secolo, imparandovi mestieri del suo tempo, osservando il comportamento dei pescatori, dei contadini e dei commercianti del suo ambiente. Le scene e i paesaggi di cui si nutre l’immaginazione del futuro rabbi sono di un Paese e di un’epoca ben determinati. 14. Nutrito dalla pietà d’Israele, formato dall’insegnamento della Legge e dei Profeti, al quale un’esperienza del tutto singolare di Dio come Padre permette di dare una profondità inaudita, Gesù si situa in una tradizione spirituale ben determinata, quella del profetismo ebraico. Come i profeti di un tempo, egli è la bocca di Dio e invita alla conversione. Il modo è ugualmente caratteristico: il vocabolario, i generi letterari, i procedimenti stilistici, tutto ricorda la stirpe di Elia e di Eliseo: il parallelismo biblico, i proverbi, i paradossi, le ammonizioni, le beatitudini e persino le azioni simboliche. 15. Gesù è talmente legato alla vita d’Israele che il popolo e la tradizione religiosa ove prende posto hanno, per ciò stesso, qualcosa di singolare nella storia della salvezza degli uomini; questo popolo eletto e la tradizione religiosa che ha lasciato hanno un significato permanente per l’umanità. 16. No, l’Incarnazione non ha nulla di una improvvisazione. Il Verbo di Dio entra in una storia che lo prepara, che lo annuncia e lo prefigura. Il Cristo in anticipo fa corpo, possiamo dire, con il popolo che Dio si è formato in vista del dono che farà del proprio Figlio. Tutte le parole che i profeti hanno proferito preludono alla Parola sussistente che è il Figlio di Dio. 17. Perciò, la storia dell’alleanza conclusa con Abramo e, mediante Mosè, con il popolo d’Israele, come i libri che narrano e illuminano quella storia, tutto ciò conserva, per i fedeli di Gesù, la funzione di un’indispensabile e insostituibile pedagogia. Del resto, l’elezione di questo popolo da cui è sorto Gesù non è mai stata revocata. «I miei consanguinei secondo la carne», scrive san Paolo, «sono israeliti», «possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen» [35]. L’ulivo buono non ha perduto i propri privilegi a vantaggio dell’oleastro, che è stato innestato su di lui [36]. 2. La cattolicità dell’Unico 18. Per quanto sia particolare la condizione del Verbo fatto carne — e dunque la cultura che lo accoglie, lo forma e lo continua —, non è anzitutto a tale particolarità che il Figlio di Dio si è unito. Poiché si è fatto uomo, Dio ha anche assunto, in un certo modo, una razza, un Paese e un’epoca. «Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, con ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime. Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo» [37]. 19. La trascendenza del Cristo non lo isola dunque al di sopra della famiglia umana, ma lo rende presente a ogni uomo, al di là di ogni particolarismo. «A nessuno e in nessun luogo egli può apparire estraneo» [38]. «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» [39]. Il Cristo ci raggiunge quindi nell’unità che formiamo, come nella molteplicità e nella diversità degli individui in cui si realizza la nostra comune natura. 20. Il Cristo non ci raggiungerebbe però nella verità della nostra umanità concreta, se non ci cogliesse nella diversità e nella complementarità delle nostre culture. Le culture infatti — lingua, storia, atteggiamento generale di fronte alla vita, istituzioni varie — nel bene e nel male ci accolgono nella vita, ci formano, ci accompagnano e ci prolungano nel tempo. Se il cosmo intero è misteriosamente il luogo della grazia e del peccato, come non lo sarebbero anche le nostre culture, che sono i frutti e i germi dell’attività propriamente umana? 21. Nel Corpo del Cristo, le culture, nella misura in cui sono animate e rinnovate dalla grazia e dalla fede, sono del resto complementari. Esse permettono di vedere la multiforme fecondità di cui sono capaci gli insegnamenti e le energie dello stesso Vangelo, gli stessi principi di verità, di giustizia, di amore e di libertà, quando sono pervasi dallo Spirito di Cristo. 22. Dobbiamo infine ricordare che non è per strategia interessata che la Chiesa, sposa del Verbo incarnato, si preoccupa della sorte delle varie culture dell’umanità. Essa vuole animare dall’interno, proteggere, liberare dall’errore e dal peccato, con cui noi le abbiamo corrotte, quelle risorse di verità e di amore che Dio ha disposto, come semina Verbi, nella sua creazione. Il Verbo di Dio non viene in una creazione che gli sarebbe estranea. «Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui» [40]. 3. La Chiesa degli Apostoli e lo Spirito Santo 1. Da Gerusalemme alle nazioni: gli inizi tipici dell’inculturazione della fede 23. Il giorno di Pentecoste, la discesa dello Spirito Santo inaugura il rapporto della fede cristiana e delle culture come un evento di compimento e di pienezza: la promessa della salvezza, adempiuta dal Cristo risorto, riempie il cuore dei credenti con l’effusione dello Spirito Santo stesso. «Le meraviglie di Dio» verranno ormai rese «pubbliche» a tutti gli uomini di ogni lingua, di ogni cultura [41]. Mentre l’umanità vive sotto il segno della divisione di Babele, il dono dello Spirito Santo le è offerto come la grazia, trascendente e quanto umana, della sinfonia dei cuori. La comunione divina (koinonia) [42] ricrea una nuova comunità tra gli uomini, penetrando, senza distruggerlo, nel segno della loro divisione: le lingue. 24. Lo Spirito Santo non instaura una supercultura, ma è il principio personale e vitale che vivificherà la nuova comunità in sinergia con i suoi membri. Il dono dello Spirito Santo non è dell’ordine delle strutture, ma la Chiesa di Gerusalemme che esso plasma è koinonia di fede e di agape, che si comunica nella pluralità senza dividersi; essa è il Corpo del Cristo i cui membri sono uniti senza uniformità. La prima prova della cattolicità appare quando le differenze connesse con la cultura (screzi tra ellenisti ed ebrei) minacciano la comunione [43]. Gli Apostoli non sopprimono le differenze, ma svolgeranno una funzione essenziale del corpo ecclesiale: la diaconia al servizio della koinonia. 25. Affinché la Buona Notizia sia annunciata alle nazioni, lo Spirito Santo suscita un nuovo discernimento in san Pietro e nella Comunità di Gerusalemme [44]: la fede in Cristo non esige dai nuovi credenti che abbandonino la loro cultura per adottare quella della Legge del popolo ebreo: tutti i popoli sono chiamati ad essere beneficiari della Promessa e a condividere l’eredità affidata per loro al Popolo dell’Alleanza [45]. Dunque nessun altro obbligo «al di fuori delle cose necessarie», secondo la decisione dell’assemblea apostolica [46]. 26. Ma, scandalo per gli ebrei, il mistero della Croce è follia per i pagani. Qui l’inculturazione della fede si scontra con il peccato radicale che «soffoca» [47] la verità di una cultura che non è assunta dal Cristo: l’idolatria. Finché l’uomo è «privo della Gloria di Dio» [48], tutto ciò che egli «coltiva» è immagine opaca di lui stesso. Il kerygma paolino parte allora dalla creazione e dalla vocazione all’Alleanza, denuncia le perversioni morali dell’umanità accecata e annuncia la salvezza nel Cristo crocifisso e risorto. 27. Dopo la prova della cattolicità tra comunità cristiane culturalmente diverse, dopo le resistenze del legalismo ebraico e quelle dell’idolatria, la fede s’infeuda nella cultura, nello gnosticismo. Il fenomeno sorge all’epoca delle ultime lettere di Paolo e di Giovanni: alimenterà la maggior parte delle crisi dottrinali dei secoli seguenti. Qui la ragione umana, nella sua condizione ferita, rifiuta la follia dell’Incarnazione del Figlio di Dio e tenta di ricuperare il Mistero adattandolo alla cultura regnante. Ora, «la fede non si fonda sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» [49]. 2. La Tradizione Apostolica: inculturazione della fede e salvezza della cultura 28. Negli «ultimi tempi» inaugurati dalla Pentecoste, il Cristo risorto, Alfa e Omèga, entra nella storia dei popoli: da allora il senso della storia, e dunque della cultura, è «dissigillato» [50] e lo Spirito Santo lo rivela attualizzandolo e comunicandolo a tutti. Di questa rivelazione e comunione la Chiesa è il sacramento. Essa riequilibra ogni cultura in cui il Cristo viene accolto, collocandola nell’asse del «mondo che viene», e restaura la comunione infranta dal «principe di questo mondo». La cultura è così in situazione escatologica: tende verso il proprio compimento nel Cristo, ma non può essere salvata se non associandosi al ripudio del male. 29. Ogni Chiesa locale o particolare ha la vocazione di essere, nello Spirito Santo, il sacramento che manifesta il Cristo, crocifisso e risorto, nella carne di una cultura particolare: a) La cultura di una Chiesa locale — giovane o antica — partecipa al dinamismo delle culture e alle loro vicissitudini. Anche se è in situazione escatologica, essa rimane sottoposta alle prove e alle tentazioni [51]. b) La «novità cristiana» genera nelle Chiese locali espressioni particolari culturalmente caratterizzate (modalità delle formulazioni dottrinali, simbolismi liturgici, tipi di santità, direttive canoniche ecc.). Ma la comunione tra le Chiese esige costantemente che la «carne» culturale di ognuna non faccia velo al mutuo riconoscimento nella fede apostolica e alla solidarietà nell’amore. c) Ogni Chiesa inviata alle nazioni testimonia il proprio Signore solo se, tenuto conto dei propri vincoli culturali, si conforma a Lui nella prima kenosis della sua Incarnazione e nell’umiliazione ultima della sua Passione vivificante. L’inculturazione della fede è una delle espressioni della Tradizione apostolica di cui Paolo sottolinea a più riprese il carattere drammatico [52]. 30. Gli scritti apostolici e le testimonianze patristiche non limitano la loro visione della cultura al servizio dell’evangelizzazione, ma la integrano nella totalità del Mistero del Cristo. Per loro, la creazione è il riflesso della Gloria di Dio, l’uomo ne è l’icona vivente e nel Cristo viene data la rassomiglianza con Dio. La cultura è il luogo in cui l’uomo e il mondo sono chiamati a ritrovarsi nella Gloria di Dio. L’incontro non ha luogo o viene offuscato nella misura in cui l’uomo è peccatore. All’interno della creazione prigioniera si vive la gestazione di «tutte le cose nuove» [53]: la Chiesa è «nelle doglie» [54]. In essa e con essa le creature di questo mondo possono vivere la loro redenzione e la loro trasfigurazione. 3. PROBLEMI ATTUALI D'INCULTURAZIONE La religiosità popolare 1. L’inculturazione della fede, che abbiamo considerato soprattutto da un punto di vista filosofico (natura, cultura e grazia), in primo luogo, quindi dal punto di vista della storia e del dogma (l’inculturazione nella storia della salvezza), pone ancora notevoli problemi alla riflessione teologica e all’azione pastorale. Così gli interrogativi che la scoperta di nuovi mondi ha fatto sorgere, nel secolo XVI, continuano a preoccuparci. Come armonizzare con la fede le espressioni spontanee della religiosità dei popoli? Quale atteggiamento assumere di fronte alle religioni non cristiane, a quelle, in particolare, che sono «legate al progresso della cultura»? [55] Problemi nuovi sono sorti ai nostri giorni. Come le «giovani Chiese», nate nel nostro secolo dall’indigenizzazione di comunità cristiane preesistenti, devono considerare sia il loro passato cristiano sia la storia culturale dei loro rispettivi popoli? Come infine il Vangelo deve animare, purificare e fortificare il nuovo mondo in cui ci hanno fatto entrare l’industrializzazione e l’urbanizzazione? Questi quattro interrogativi ci sembrano imporsi a chi riflette sulle condizioni presenti dell’inculturazione della fede. 1. La religiosità popolare 2. In genere per religiosità popolare s’intende, nei Paesi raggiunti dal Vangelo, l’unione della fede e della pietà cristiane, da un lato con la cultura profonda e dall’altro con forme della precedente religione delle popolazioni. Si tratta di quelle numerose devozioni con cui alcuni cristiani esprimono il loro sentimento religioso nel linguaggio semplice, tra l’altro, della festa e del pellegrinaggio, della danza e del canto. Si è potuto parlare di sintesi vitale a proposito di tale religiosità, poiché unisce «il corpo e lo spirito, la comunione ecclesiale e l’istituzione, l’individuo e la comunità, la fede cristiana e l’amore della patria, l’intelligenza e l’affettività» [56]. La qualità della sintesi dipende, ovviamente, dall’antichità e dalla profondità dell’evangelizzazione, come dalla compatibilità degli antecedenti religiosi e culturali con la fede cristiana. 3. Nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, Paolo VI ha confermato e incoraggiato una valutazione nuova della religiosità popolare. «Per lungo tempo considerate meno pure, talvolta disprezzate, queste espressioni [particolari della ricerca di Dio e della fede] formano oggi un po’ dappertutto l’oggetto di una riscoperta» [57]. 4. «Ma se è bene orientata, soprattutto mediante una pedagogia di evangelizzazione — continuava Paolo VI — [la pietà popolare] è ricca di valori. Essa manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere; rende capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede; comporta un senso acuto degli attributi profondi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante; genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione» [58]. 5. Del resto, la forza e la profondità delle radici della religiosità popolare si sono chiaramente manifestate in quel lungo periodo di discredito di cui parlava Paolo VI. Le espressioni della religiosità popolare sono sopravvissute alle numerose predizioni di scomparsa che la modernità e i progressi del secolarismo sembravano dare per certa. Hanno conservato e anzi accresciuto, in molte regioni del globo, l’attrattiva che esercitavano sulle folle. 6. Non poche volte sono stati denunciati i limiti della religiosità popolare. Essi hanno origine da un certo semplicismo, fonte di varie deformazioni della religione, anzi di superstizioni. Si rimane al livello di manifestazioni culturali, senza che siano impegnate una vera adesione di fede e l’espressione di tale fede nel servizio del prossimo. Male orientata, la religiosità popolare può anche condurre alla formazione di sètte e mettere così in pericolo la vera comunità ecclesiale. Essa rischia ancora di essere manipolata sia da poteri politici sia da forze religiose estranee alla fede cristiana. 7. La considerazione di tali pericoli invita a praticare una catechesi intelligente, che trae vantaggio dai meriti di una religiosità popolare autentica e, allo stesso tempo, capace di discernimento. Una liturgia viva e adeguata è chiamata ugualmente a svolgere un grande ruolo nell’integrazione di una fede molto pura e delle forme tradizionali della vita religiosa dei popoli. Indubbiamente la pietà popolare può arrecare un contributo insostituibile a un’antropologia culturale cristiana che permetterebbe di ridurre il divario, talora tragico, tra la fede dei cristiani e certe istituzioni socioeconomiche di orientamento ben diverso che guidano la loro vita quotidiana. 2. Inculturazione della fede e religioni non cristiane 8. Le religioni non cristiane. Sin dalle origini la Chiesa ha incontrato, a molti livelli, il problema della pluralità delle religioni. I cristiani non costituiscono ancora oggi che un terzo circa della popolazione mondiale; del resto dovranno vivere in un mondo che prova una crescente simpatia per il pluralismo in materia religiosa. 9. Data la posizione rilevante della religione nella cultura, una Chiesa locale o particolare impiantata in un ambiente socioculturale non cristiano deve tenere conto molto seriamente degli elementi religiosi di quell’ambiente. Una simile preoccupazione sarà del resto a misura della profondità e della vitalità di questi dati religiosi. 10. Se è lecito prendere ad esempio un continente, parleremo dell’Asia, che ha visto nascere parecchie delle grandi correnti religiose del mondo. L’induismo, il buddismo, l’islam, il confucianesimo, il taoismo e lo scintoismo, ognuno di questi sistemi religiosi, ovviamente in parti distinte del continente, sono profondamente radicati nei popoli e mostrano molta vitalità. La vita personale come l’attività sociale e comunitaria sono state segnate in maniera determinante da queste tradizioni religiose e spirituali. Perciò le Chiese dell’Asia considerano il problema delle religioni non cristiane come uno dei più importanti e più urgenti. Ne fanno anzi l’oggetto di quella forma privilegiata di rapporto che è il dialogo. 11. Il dialogo delle religioni. Il dialogo con le altre religioni fa parte integrante della vita dei cristiani: attraverso lo scambio, lo studio e il lavoro in comune, questo dialogo contribuisce a una migliore intelligenza della religione dell’altro e alla crescita nella pietà. 12. Per la fede cristiana, l’unità di tutti nella loro origine e nel loro destino, vale a dire nella creazione e nella comunione con Dio in Gesù Cristo, si accompagna alla presenza e all’azione universali dello Spirito Santo. La Chiesa in dialogo ascolta e impara: «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini» [59]. 13. Un simile dialogo ha qualcosa di originale, poiché, come conferma la storia delle religioni, la pluralità delle religioni ha spesso ingenerato discriminazione e gelosia, fanatismo e dispotismo, tutte cose che hanno valso alla religione l’accusa di essere fonte di divisione nella famiglia umana. La Chiesa, «sacramento universale della salvezza», vale a dire «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» [60], è chiamata da Dio ad essere ministro e strumento dell’unità in Gesù Cristo per tutti gli uomini e per tutti i popoli. 14. La trascendenza del Vangelo in rapporto alla cultura. Non possiamo tuttavia dimenticare la trascendenza del Vangelo in rapporto a tutte le culture umane nelle quali la fede cristiana è chiamata a radicarsi e a svilupparsi secondo tutte le proprie virtualità. Per quanto grande infatti debba essere il rispetto per ciò che è vero e santo nell’eredità culturale di un popolo, un tale atteggiamento non richiede però di attribuire un carattere assoluto a quell’eredità culturale. Nessuno può dimenticare che, sin dalle origini, il Vangelo è stato «scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani» [61]. L’inculturazione che prende a prestito la voce del dialogo tra le religioni non potrebbe in nessun modo dare garanzie al sincretismo. 3. Le giovani Chiese e il loro passato cristiano 15. La Chiesa prolunga e attualizza il mistero del Servo di Jahvè, al quale è stato promesso che sarà «luce delle nazioni, perché porti la salvezza fino all’estremità della terra» [62] e che sarà «l’Alleanza per il popolo» [63]. Questa profezia si realizza nell’Ultima Cena, quando, la vigilia della sua passione, il Cristo, attorniato dai Dodici, dona ai suoi il suo corpo e il suo sangue come cibo e bevanda della Nuova Alleanza, assimilandoli così al proprio corpo. Nasceva la Chiesa, popolo della Nuova Alleanza. Essa riceverà alla Pentecoste lo Spirito del Cristo, lo Spirito dell’Agnello immolato sin dall’origine e che già lavorava per esaudire questo voto così profondamente radicato negli esseri umani: l’unione più radicale nel più radicale rispetto della diversità. 16. In virtù della comunione cattolica, che unisce tutte le Chiese particolari in una medesima storia, le giovani Chiese considerano il passato delle Chiese che hanno dato loro la nascita come una parte della propria storia. Tuttavia l’atto principale d’interpretazione che segna la loro maturità spirituale consiste nel riconoscere quest’anteriorità come originaria, e non solo come storica. Ciò significa che, accogliendo nella fede il Vangelo che le sorelle maggiori hanno loro annunciato, le giovani Chiese hanno accolto «l’autore e il perfezionatore della fede» [64] e l’intera Tradizione nella quale la fede si è attestata, come anche la capacità di generare forme originali in cui si esprimerà la fede unica e comune. Uguali in dignità, vivendo lo stesso mistero, autentiche Chiese sorelle, le giovani Chiese manifestano, in accordo con le sorelle maggiori, la pienezza del mistero del Cristo. 17. Popolo della Nuova Alleanza, la Chiesa, in quanto ricorda il mistero pasquale e annuncia continuamente il ritorno del Signore, può dirsi escatologia iniziata delle tradizioni culturali dei popoli, a condizione, naturalmente, che queste tradizioni siano state sottoposte alla legge purificatrice della morte e della risurrezione in Gesù Cristo. 18. Come san Paolo all’areopago di Atene, la giovane Chiesa opera una lettura nuova e creatrice della cultura ancestrale. Quando tale cultura passa al Cristo, «il velo viene tolto» [65]. Durante il periodo d’incubazione della fede, quella Chiesa aveva scoperto il Cristo come «esegeta ed esegesi» del Padre nello Spirito [66]; non cessa del resto di contemplarlo come tale. Ora, lo scopre «esegeta ed esegesi» dell’uomo, sorgente e destinatario della cultura. Al Dio ignoto, rivelato sulla Croce, corrisponde l’uomo ignoto che la giovane Chiesa annuncia, nella sua qualità di mistero pasquale vivente, inaugurato mediante la grazia nell’antica cultura. 19. Nella salvezza che rende presente, la giovane Chiesa si sforza di reperire tutte le tracce della sollecitudine di Dio per un gruppo umano particolare, i semina Verbi. Ciò che il prologo della Lettera agli Ebrei dice dei Padri e dei profeti può, in rapporto con Gesù Cristo, venire ripreso e vale, in una certa maniera analogicamente, per ogni cultura umana, in quello che essa ha di giusto e di vero e che essa porta di saggezza. 4. La fede cristiana e la modernità 20. I cambiamenti tecnici, che hanno provocato la rivoluzione industriale e quindi la rivoluzione urbana, hanno colpito nell’intimo l’animo delle popolazioni, beneficiarie e anche molto spesso vittime di quei cambiamenti. Perciò s’impone ai credenti, come compito urgente e difficile, di comprendere la cultura moderna nei suoi elementi caratteristici, come nelle sue attese e nei suoi bisogni in rapporto alla salvezza arrecata da Gesù Cristo. 21. La rivoluzione industriale fu anche una rivoluzione culturale. Valori sino allora sicuri furono messi in discussione, come il senso del lavoro personale e comunitario, il rapporto diretto dell’uomo con la natura, l’appartenenza a una famiglia di sostegno, nella coabitazione come nel lavoro, il radicamento in comunità locali e religiose a dimensione umana, la partecipazione a tradizioni, riti, cerimonie e celebrazioni che danno un senso ai grandi momenti dell’esistenza. L’industrializzazione, provocando un ammasso disordinato delle popolazioni, mina gravemente questi valori secolari, senza suscitare comunità capaci d’integrare nuove culture. Nel momento in cui i popoli più sprovveduti sono alla ricerca di un modello di sviluppo adeguato, i vantaggi come pure i rischi e i costi umani dell’industrializzazione vengono meglio percepiti. 22. Grandi progressi sono stati conseguiti in molti settori della vita: alimentazione, sanità, istruzione, trasporti, accesso ai beni di consumo di ogni specie. Tuttavia profonde inquietudini sorgono nell’inconscio collettivo. In non pochi Paesi, l’idea di progresso, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, ha lasciato il posto alla disillusione. La razionalità in materia di produzione e di amministrazione, quando dimentica il bene delle persone, lavora contro la ragione. L’emancipazione dalle comunità di appartenenza ha sepolto l’uomo nella folla solitaria. I nuovi mezzi di comunicazione distruggono gli equilibri strutturali come anche possono unire. La scienza, con le creazioni tecniche che ne sono il frutto, appare insieme creatrice e omicida. Perciò certuni disperano della modernità e parlano di una nuova barbarie. Nonostante tanti insuccessi ed errori, bisogna sperare in una rinascita morale di tutte le nazioni, ricche e povere. Se il Vangelo è predicato e ascoltato, una conversione culturale e spirituale è possibile: essa chiama alla solidarietà, alla sollecitudine per il bene integrale della persona, alla promozione della giustizia e della pace, all’adorazione del Padre, dal quale tutto procede. 23. L’inculturazione del Vangelo nelle società moderne esigerà uno sforzo metodico di ricerca e di azione concertate. Tale sforzo supporrà nei responsabili dell’evangelizzazione: 1) un atteggiamento di accoglienza e di discernimento critico, 2) la capacità di percepire le attese spirituali e le aspirazioni umane delle nuove culture, 3) la capacità di analisi culturale in vista di un incontro effettivo con il mondo moderno. 24. Un atteggiamento di accoglienza è richiesto, infatti, in chi vuole comprendere ed evangelizzare il mondo di oggi. La modernità si accompagna a progressi innegabili in molti campi materiali e culturali: benessere, mobilità umana, scienza, ricerca, istruzione, nuovo senso della solidarietà. Inoltre, la Chiesa del Vaticano II ha preso viva coscienza delle condizioni nuove nelle quali essa deve esercitare la propria missione ed è nelle culture della modernità che si costruirà la Chiesa di domani. A proposito del discernimento si applica la tradizionale consegna ripresa da Pio XII: «Occorre comprendere più profondamente la civiltà e le istituzioni dei vari popoli e coltivare le loro qualità e i loro doni migliori. [...] Tutto ciò che in tali usi e costumi non è indissolubilmente legato con superstizioni o con errori troverà sempre benevolo esame e, quando riesce possibile, verrà tutelato e promosso» [67]. 25. Il Vangelo suscita domande fondamentali in chi riflette sul comportamento dell’uomo moderno. Come far comprendere a quest’uomo la radicalità del messaggio del Cristo: la carità incondizionata, la povertà evangelica, l’adorazione del Padre e l’adesione costante alla sua volontà? Come educare al senso cristiano della sofferenza e della morte? Come suscitare la fede e la speranza nell’opera della risurrezione compiuta da Gesù Cristo? 26. Dobbiamo sviluppare una capacità di analizzare le culture e di percepirne le incidenze morali e spirituali. Una mobilitazione di tutta la Chiesa s’impone perché sia affrontato con successo il compito estremamente complesso dell’inculturazione del Vangelo nel mondo moderno. Dobbiamo far nostra, in proposito, la preoccupazione di Giovanni Paolo II: «Fin dall’inizio del mio pontificato, ho ritenuto che il dialogo della Chiesa con le culture del nostro tempo fosse un campo vitale, nel quale è in gioco il destino del mondo in questo scorcio del XX secolo» [68]. Conclusione 1. Dopo aver detto che era importante «raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti d’interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza», Paolo VI domandava di «evangelizzare — non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici — la cultura e le culture dell’uomo, nel senso ricco ed esteso che questi termini hanno nella Gaudium et spes [...]. Il Regno, che il Vangelo annunzia, è vissuto da uomini profondamente legati a una cultura, e la costruzione del Regno non può non avvalersi degli elementi della cultura e delle culture umane» [69]. 2. «In questo scorcio del XX secolo» — diceva dal canto suo Giovanni Paolo II — «la Chiesa deve farsi tutta a tutti, raggiungendo con simpatia le culture di oggi. Esistono ancora ambienti e mentalità, come Paesi e regioni intere da evangelizzare, il che suppone un lungo e coraggioso processo d’inculturazione, affinché il Vangelo penetri l’anima delle culture viventi, rispondendo alle loro attese più elevate e facendole crescere alla dimensione stessa della fede, della speranza e della carità cristiane [...]. Talora le culture non sono state ancora toccate se non superficialmente e, in ogni modo, trasformandosi esse continuamente, richiedono un approccio rinnovato. [...] Inoltre, nuovi settori di cultura nascono, con obiettivi, metodi e linguaggi diversi» [70]. Allegato Per guidare il lettore nell’eventuale pubblicazione delle varie relazioni preparatorie, ne offriamo la lista. Infatti, partendo da tali studi (che rimangono proprietà dei loro Autori, i quali scrivono sotto la propria responsabilità), il P. Gilles Langevin SI, presidente della sottocommissione e redattore principale, ha operato la sintesi che la Commissione Teologica Internazionale ha approvato in tre successive votazioni, le prime due delle quali sono state accompagnate da importanti emendamenti. Ecco l’insieme degli argomenti trattati: I. Differenti aspetti della riflessione e dell’azione della Chiesa sul problema dell’inculturazione 1. Situazione del problema concernente il Magistero 1.1 Il Concilio Vaticano II e i Sinodi (prof. Philippe Delhaye) 2. La teologia e l’azione pastorale 2.1 In Asia (prof. Peter Miyakawa) II. Sacra Scrittura e Teologia 1. Il Padre: Antico Testamento ed Ebraismo (dr. Hans Urs von Balthasar) 2. Gesù Cristo 2.1 L’assunzione della natura umana (prof. Gilles Langevin) 3. Lo Spirito Santo e la Chiesa (prof. Jean Corbon) III. Antropologia La natura creata, decaduta e redenta (prof. Georges Cottier) IV. Ecclesiologia: la comunità cristiana e le comunità umane 1. Le religioni non cristiane (prof. Felix Wilfred) 2. I rapporti delle giovani Chiese con le tradizioni ecclesiastiche antiche (prof. Barthelémy Adoukonou) Documento in forma di conclusione pastorale: la modernità (prof. Hervé Carrier) * Documento preparato dalla Commissione Teologica Internazionale nella sessione plenaria del dicembre 1987, approvato «in forma specifica» nella sessione plenaria dell’ottobre 1988 e pubblicata con il placet di S. Em. il Card. Joseph Ratzinger, presidente della Commissione. La Nota annessa riporta i nomi dei membri che hanno maggiormente contribuito all’elaborazione del testo. [1] Cfr Temi scelti d’ecclesiologia in occasione del XX anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II (1984). [2] Pontificia Commissione Biblica, Fede e cultura alla luce della bibbia. Atti della Sessione plenaria 1979 della Pontificia Commissione Biblica, LDC, Leumann 1981. [3] GS, 44. [4] GS, 53-62. [5] PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, Esortazione apostolica sull’evangelizzazione nel mondo contemporaneo (8 dicembre 1975), 18-20. [6] GIOVANNI PAOLO II, Catechesi tradendae, Esortazione apostolica sulla catechesi nel nostro tempo (16 ottobre 1979), 145 s. [7] Sinodo straordinario per il XX anniversario della conclusione del CONCILIO VATICANO II, «Relazione finale votata dai Padri (7 dicembre 1985)», OR, 10 dicembre 1985,7. [8] GIOVANNI PAOLO II, «Lettera autografa di fondazione del Pontificio Consiglio per la Cultura (20 maggio 1982)», AAS 74 (1982) 683-688. [9] GIOVANNI PAOLO II, É para mim, Discorso all’Università di Coimbra (15 maggio 1982), 5; Today during, Discorso ai vescovi del Kenya (7 maggio 1980), 6. [10] GIOVANNI PAOLO II, C’est avec une joie, Discorso ai membri del Pontificio Consiglio per la Cultura (18 gennaio 1983), 7-8. [11] PAOLO VI, Humanae vitae, Lettera enciclica sulla regolamentazione delle nascite (25 luglio 1968), 10. [12] GS, 53. [13] GS, 53. [14] GIOVANNI PAOLO II, Slavorum Apostoli, Lettera enciclica per l’11° centenario dell’opera evangelizzatrice dei santi Cirillo e Metodio (2 giugno 1985), 21. [15] DV, 13. [16] Cf. Rm 11,11-24. [17] Gn l,l-2,4a. [18] Cf. Gn 9,1-17; Sir 44,17-18. [19] Gn 12,1-5; Ger 4,2; Sir 44,21. [20] Lc 24,27.44. [21] Mc 13,10; Mt 12,21; Lc 2,32. [22] Mt 11,19; Lc 7,35. [23] Sal 93,1-4; Is 6,1. [24] Mc 1,15; Mt 12,28, Lc 11,20; 17,21. [25] Mt 20,1-16; Lc 15,11-32; 18,9-14. [26] Mc 14,36. [27] Mc 1,44-45; 10,2-9; Mt 5,21-48. [28] Rm 5,12-19; 1 Cor 15,20-22. [29] Mc 8,27-33; 1 Cor 1,18-25. [30] Gal 3,13; Dt 21,22-23. [31] Gal 3,12-14. [32] Rm 7,16 ss.; 3,20; 7,7; lTm 1,8. [33] AG, 10. [34] Lc 2,46. [35] Rm 9,3-5. [36] Rm 11,24. [37] GS, 22. [38] AG, 8. [39] Gal 3,28. [40] Col 1,16-17. [41] At 2,11. [42] At 2,42. [43] At 6,1 ss. [44] At 10 e 11. [45] Ef 2,14-15. [46] At 15,28. [47] Rm 1,18. [48] Rm 3,23. [49] 1Cor 2,4 ss. [50] Ap 5,1-5. [51] Cf. Ap 2 e 3. [52] 1 e 2Cor passim. [53] Ap 21,5. [54] Cf. Rm 8,18-25. [55] NA, 2. [56] III Conferenza generale dei vescovi latinoamericani (Puebla 1979), L’evangelizzazione nel presente e nell’avvenire dell’America Latina, Conclusioni, 448. [57] PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, 48. [58] PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, 48. [59] NA, 2. [60] LG, 1. [61] 1Cor 1,23. [62] Is 49,6. [63] Is 49,8. [64] Eb 12,2. [65] 2Cor 3,16. [66] H. DE Lubac, Esegesi medievale, I, Jaca Book, Milano 1986, 348-351. [67] Pio XII, Summi pontificatus, Lettera enciclica sull’unità della società umana (20 ottobre 1939). [68] GIOVANNI PAOLO II, «Lettera di fondazione del Pontificio Consiglio della Cultura» (20 maggio 1982). [69] PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, 19-20. [70] Giovanni Paolo II, C’est avec une joie, 4.
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