INTRODUZIONE
I diritti
e i valori inerenti alla persona umana occupano un posto importante nella
problematica contemporanea. Al riguardo, il Concilio Ecumenico Vaticano II ha
solennemente riaffermato l'eccellente dignità della persona umana e in modo
particolare il suo diritto alla vita. Ha perciò denunciato i crimini contro la
vita “come ogni specie di omicidio, il genocidio, l'aborto, l'eutanasia e lo
stesso suicidio volontario” (Gaudium
et Spes, 27).
La Sacra Congregazione per la
Dottrina della Fede, che di recente ha richiamato la dottrina cattolica circa
l'aborto procurato, (Declaratio de abortu procurato, die 18 nov. 1974:
AAS 66 [1974] 730-747.) ritiene ora opportuno proporre l'insegnamento della
Chiesa sul problema dell'eutanasia.
In effetti, per quanto
restino sempre validi i principii affermati in questo campo dai recenti
Pontefici, (Pio XII, Allocutio ad Delegatos Unionis Internationalis
Sodalitatum mulierum catholicarum, die 11 sept. 1947: AAS 39 [1947]
483; Allocutio ad membra Unionis Catholicae Italicae inter obstetrices,
die 29 oct. 1951: AAS 43 [1951] 835-854; Allocutio ad membra Consilii
Internationalis inquisitionis de medicina exercenda inter milites, die 19
oct. 1953: AAS 45 [1953] 744-754; Allocutio ad participantes XI
Congressum Societatis Italicae de anaesthesiologia, die 24 febr. 1957:
AAS 49 [1957] 146; cf. etiam Allocutio circa queestionem de
“reanimatione”, die 24 nov. 1957: AAS 49 [1957] 1027-1033; Paolo VI,
Allocutio ad membra Consilii Specialis Nationum Unitarum versantis in quaestione
“Apartheid”, die 22 maii 1974: AAS 66 [1974] 346; Giovanni Paolo II,
Allocutio ad Episcopos Statuum Foederatorum Americae Septentrionalis, die 5
oct 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2 [1979] 629ss) i
progressi della medicina hanno messo in luce negli anni più recenti nuovi
aspetti del problema dell'eutanasia, che richiedono ulteriori precisazioni sul
piano etico.
Nella società odierna, nella quale non di rado
sono posti in causa gli stessi valori fondamentali della vita umana, la
modificazione della cultura influisce sul modo di considerare la sofferenza e la
morte; la medicina ha accresciuto la sua capacità di guarire e di prolungare la
vita in determinate condizioni, che talvolta sollevano alcuni problemi di
carattere morale. Di conseguenza, gli uomini che vivono in un tale clima si
interrogano con angoscia sul significato dell'estrema vecchiaia e della morte,
chiedendosi conseguentemente se abbiano il diritto di procurare a se stessi o ai
loro simili la “morte dolce”, che abbrevierebbe il dolore e sarebbe, ai loro
occhi, più conforme alla dignità umana.
Diverse Conferenze
Episcopali hanno posto, in merito, dei quesiti a questa S. Congregazione per la
Dottrina della Fede, la quale, dopo aver chiesto il parere di competenti sui
vari aspetti dell'eutanasia, intende con questa Dichiarazione rispondere alle
richieste dei Vescovi per aiutarli ad orientare rettamente i fedeli e per
offrire loro elementi di riflessione da far presenti alle Autorità civili a
proposito di questo gravissimo problema.
La materia
proposta in questo Documento riguarda, innanzi tutto, coloro che ripongono la
loro fede e la loro speranza in Cristo, il quale, mediante la sua vita, la sua
morte e la sua risurrezione, ha dato un nuovo significato all'esistenza e
soprattutto alla morte del cristiano, secondo le parole di San Paolo: “Sia
che viviamo, viviamo per il Signore; sia che moriamo, moriamo per il Signore.
Quindi, sia che viviamo, sia che moriamo siamo del Signore” (Rm 14,8; cf. Fil
1,20).
Quanto a coloro che professano altre religioni,
molti ammetteranno con noi che la fede in un Dio creatore, provvido e padrone
della vita - se la condividono - attribuisce una dignità eminente a ogni persona
umana e ne garantisce il rispetto.
Si spera, ad ogni modo,
che questa Dichiarazione incontri il consenso di tanti uomini di buona volontà,
che, al di là delle differenze filosofiche o ideologiche, hanno tuttavia una
viva coscienza dei diritti della persona umana. Tali diritti, d'altronde, sono
stati spesso proclamati nel corso degli ultimi anni da dichiarazioni di
Congressi Internazionali; (Attendatur peculiari modo ad Admonitionem 779 [1976]
de iuribus aegrotorum et morientium, quae acceptata fuit a Coetu Deputatorum
Consilii Europae, in XXVII sessione ordinaria. cf. SIPECA, n. 1, mense
martio 1977, pp. 14-15.) è poiché si tratta qui dei diritti fondamentali di ogni
persona umana, è evidente che non si può ricorrere ad argomenti desunti dal
pluralismo politico o dalla libertà religiosa, per negarne il valore universale.
I.
VALORE DELLA VITA UMANA
La vita umana
è il fondamento di tutti i beni, la sorgente e la condizione necessaria di ogni
attività umana e di ogni convivenza sociale. Se la maggior parte degli uomini
ritiene che la vita abbia un carattere sacro e che nessuno ne possa disporre a
piacimento, i credenti vedono in essa anche un dono dell'amore di Dio, che sono
chiamati a conservare e a far fruttificare. Da quest'ultima considerazione
derivano alcune conseguenze:
1. Nessuno può attentare alla
vita di un uomo innocente senza opporsi all'amore di Dio per lui, senza violare
un diritto fondamentale, inammissibile e inalienabile, senza commettere, perciò,
un crimine di estrema gravità. (Hic omnino praetermittuntur quaestiones de poena
mortis et de bello, quae postulant ut aliae fiant peculiares considerationes,
quae huius Declarationis argomento extraneae sunt.)
2. Ogni
uomo ha il dovere di conformare la sua vita al disegno di Dio. Essa gli è
affidata come un bene che deve portare i suoi frutti già qui in terra, ma trova
la sua piena perfezione soltanto nella vita eterna.
3. La
morte volontaria ossia il suicidio è, pertanto, inaccettabile al pari
dell'omicidio: un simile atto costituisce, infatti, da parte dell'uomo, il
rifiuto della sovranità di Dio e del suo disegno di amore. Il suicidio, inoltre,
è spesso anche rifiuto dell'amore verso se stessi, negazione della naturale
aspirazione alla vita, rinuncia di fronte ai doveri di giustizia e di carità
verso il prossimo, verso le varie comunità e verso la società intera, benché
talvolta intervengano- come si sa- dei fattori psicologici che possono attenuare
o, addirittura, togliere la responsabilità.
Si dovrà,
tuttavia, tenere ben distinto dal suicidio quel sacrificio con il quale per una
causa superiore - quali la gloria di Dio, la salvezza delle anime, o il servizio
dei fratelli - si offre o si pone in pericolo la propria vita (cf. Gv 15,14).
II.
L'EUTANASIA
Per trattare in maniera
adeguata il problema dell'eutanasia, conviene, innanzi tutto, precisare il
vocabolario.
Etimologicamente la parola eutanasia
significava, nell'antichità, una morte dolce senza sofferenze atroci. Oggi non
ci si riferisce più al significato originario del termine, ma piuttosto
all'intervento della medicina diretto ad attenuare i dolori della malattia e
dell'agonia, talvolta anche con il rischio di sopprimere prematuramente la vita.
Inoltre, il termine viene usato, in senso più stretto, con il significato di
“procurare la morte per pietà”, allo scopo di eliminare radicalmente le
ultime sofferenze o di evitare a bambini anormali, ai malati mentali o agli
incurabili il prolungarsi di una vita infelice, forse per molti anni, che
potrebbe imporre degli oneri troppo pesanti alle famiglie o alla società.
È quindi necessario dire chiaramente in quale senso venga preso il termine in
questo Documento.
Per eutanasia s'intende un'azione o
un'omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo
di eliminare ogni dolore. L'eutanasia si situa, dunque, al livello delle
intenzioni e dei metodi usati.
Ora, è necessario ribadire
con tutta fermezza che niente e nessuno può autorizzare l'uccisione di un essere
umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato
incurabile o agonizzante. Nessuno, inoltre, può richiedere questo gesto omicida
per se stesso o per un altro affidato alla sua responsabilità, né può
acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può
legittimamente imporlo né permetterlo. Si tratta, infatti, di una violazione
della legge divina, di una offesa alla dignità della persona umana, di un
crimine contro la vita, di un attentato contro l'umanità.
Potrebbe anche verificarsi che il dolore prolungato e insopportabile, ragioni di
ordine affettivo o diversi altri motivi inducano qualcuno a ritenere di poter
legittimamente chiedere la morte o procurarla ad altri. Benché in casi del
genere la responsabilità personale possa esser diminuita o perfino non
sussistere, tuttavia l'errore di giudizio della coscienza - forse pure in buona
fede - non modifica la natura dell'atto omicida, che in sé rimane sempre
inammissibile. Le suppliche dei malati molto gravi, che talvolta invocano la
morte, non devono essere intese come espressione di una vera volontà di
eutanasia; esse infatti sono quasi sempre richieste angosciate di aiuto e di
affetto. Oltre le cure mediche, ciò di cui l'ammalato ha bisogno, è l'amore, il
calore umano e soprannaturale, col quale possono e debbono circondarlo tutti
coloro che gli sono vicini, genitori e figli, medici e infermieri.
III.
IL CRISTIANO DI FRONTE
ALLA SOFFERENZA E ALL'USO DI ANALGESICI
La morte non avviene sempre in condizioni drammatiche, al termine di sofferenze
insopportabili. Né si deve sempre pensare unicamente ai casi estremi. Numerose
testimonianze concordi lasciano pensare che la natura stessa ha provveduto a
rendere più leggeri al momento della morte quei distacchi, che sarebbero
terribilmente dolorosi per un uomo in piena salute. Perciò una malattia
prolungata, una vecchiaia avanzata, una situazione di solitudine e di abbandono,
possono stabilire delle condizioni psicologiche tali da facilitare
l'accettazione della morte.
Tuttavia, si deve riconoscere
che la morte, preceduta o accompagnata spesso da sofferenze atroci e prolungate,
rimane un avvenimento, che naturalmente angoscia il cuore dell'uomo.
Il dolore fisico è certamente un elemento inevitabile della condizione umana;
sul piano biologico, costituisce un avvertimento la cui utilità è
incontestabile; ma poiché tocca la vita psicologica dell'uomo, spesso supera la
sua utilità biologica e pertanto può assumere una dimensione tale da suscitare
il desiderio di eliminarlo a qualunque costo.
Secondo la
dottrina cristiana, però, il dolore, soprattutto quello degli ultimi momenti di
vita, assume un significato particolare nel piano salvifico di Dio; è infatti
una partecipazione alla Passione di Cristo ed è unione al sacrificio redentore,
che Egli ha offerto in ossequio alla volontà del Padre. Non deve dunque
meravigliare se alcuni cristiani desiderano moderare l'uso degli analgesici, per
accettare volontariamente almeno una parte delle loro sofferenze e associarsi
così in maniera cosciente alle sofferenze di Cristo crocifisso (cf. Mt 27,34).
Non sarebbe, tuttavia, prudente imporre come norma generale un determinato
comportamento eroico. Al contrario, la prudenza umana e cristiana suggerisce per
la maggior parte degli ammalati l'uso dei medicinali che siano atti a lenire o a
sopprimere il dolore, anche se ne possano derivare come effetti secondari
torpore o minore lucidità. Quanto a coloro che non sono in grado di esprimersi,
si potrà ragionevolmente presumere che desiderino prendere tali calmanti e
somministrarli loro secondo i consigli del medico.
Ma l'uso
intensivo di analgesici non è esente da difficoltà, poiché il fenomeno
dell'assuefazione di solito obbliga ad aumentare le dosi per mantenerne
l'efficacia. Conviene ricordare una dichiarazione di Pio XII, la quale conserva
ancora tutta la sua validità. Ad un gruppo di medici che gli avevano posto la
seguente domanda: “La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei
narcotici... è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente
(anche all'avvicinarsi della morte e se si prevede che l'uso dei narcotici
abbrevierà la vita)?”, il Papa rispose: “Se non esistono altri mezzi e se, nelle
date circostanze, ciò non impedisce l'adempimento di altri doveri religiosi e
morali: Sì” (Pio XII, Allocutio, die 24 febr. 1957: AAS 49 [1957] 147).
In questo caso, infatti, è chiaro che la morte non è voluta o ricercata in alcun
modo, benché se ne corra il rischio per una ragionevole causa: si intende
semplicemente lenire il dolore in maniera efficace, usando allo scopo quegli
analgesici di cui la medicina dispone.
Gli analgesici che
producono negli ammalati la perdita della coscienza, meritano invece una
particolare considerazione. È molto importante, infatti, che gli uomini non solo
possano soddisfare ai loro doveri morali e alle loro obbligazioni familiari, ma
anche e soprattutto che possano prepararsi con piena coscienza all'incontro con
il Cristo. Perciò Pio XII ammonisce che “non è lecito privare il moribondo della
coscienza di sé senza grave motivo” (Pio XII, Allocutio, die 24 febr.
1957: AAS 49 [1957] 145; cf. Pio XII, Allocutio, die 9 sept. 1958: AAS 50
[1958] 694).
IV.
L'USO PROPORZIONATO DEI MEZZI TERAPEUTICI
È molto importante oggi proteggere, nel momento della morte, la dignità della
persona umana e la concezione cristiana della vita contro un tecnicismo che
rischia di divenire abusivo. Di fatto, alcuni parlano di “diritto alla morte”,
espressione che non designa il diritto di procurarsi o farsi procurare la morte
come si vuole, ma il diritto di morire in tutta serenità, con dignità umana e
cristiana. Da questo punto di vista, l'uso dei mezzi terapeutici talvolta può
sollevare dei problemi.
In molti casi la complessità delle
situazioni può essere tale da far sorgere dei dubbi sul modo di applicare i
principii della morale. Prendere delle decisioni spetterà in ultima analisi alla
coscienza del malato o delle persone qualificate per parlare a nome suo, oppure
anche dei medici, alla luce degli obblighi morali e dei diversi aspetti del
caso.
Ciascuno ha il dovere di curarsi e di farsi curare.
Coloro che hanno in cura gli ammalati devono prestare la loro opera con ogni
diligenza e somministrare quei rimedi che riterranno necessari o utili.
Si dovrà però, in tutte le circostanze, ricorrere ad ogni rimedio possibile?
Finora i moralisti rispondevano che non si è mai obbligati all'uso dei mezzi
“straordinari”. Oggi però tale risposta, sempre valida in linea di principio,
può forse sembrare meno chiara, sia per l'imprecisione del termine che per i
rapidi progressi della terapia. Perciò alcuni preferiscono parlare di mezzi
“proporzionati” e “sproporzionati”. In ogni caso, si potranno valutare bene i
mezzi mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e di
rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con
il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni
dell'ammalato e delle sue forze fisiche e morali.
Per
facilitare l'applicazione di questi principii generali si possono aggiungere le
seguenti precisazioni:
- In mancanza di altri rimedi, è
lecito ricorrere, con il consenso dell'ammalato, ai mezzi messi a disposizione
dalla medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio sperimentale e non
sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l'ammalato potrà anche dare
esempio di generosità per il bene dell'umanità.
- È anche
lecito interrompere l'applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le
speranze riposte in essi. Ma nel prendere una decisione del genere, si dovrà
tener conto del giusto desiderio dell'ammalato e dei suoi familiari, nonché del
parere di medici veramente competenti; costoro potranno senza dubbio giudicare
meglio di ogni altro se l'investimento di strumenti e di personale è
sproporzionato ai risultati prevedibili e se le tecniche messe in opera
impongono al paziente sofferenze e disagi maggiori dei benefici che se ne
possono trarre.
- È sempre lecito accontentarsi dei mezzi
normali che la medicina può offrire. Non si può, quindi, imporre a nessuno
l'obbligo di ricorrere ad un tipo di cura che, per quanto già in uso, tuttavia
non è ancora esente da pericoli o è troppo oneroso. Il suo rifiuto non equivale
al suicidio: significa piuttosto o semplice accettazione della condizione umana,
o desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato
ai risultati che si potrebbero sperare, oppure volontà di non imporre oneri
troppo gravi alla famiglia o alla collettività.
-
Nell'imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in
coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero
soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia
interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi. Perciò il
medico non ha motivo di angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza ad
una persona in pericolo.
CONCLUSIONE
Le norme contenute nella presente
Dichiarazione sono ispirate dal profondo desiderio di servire l'uomo secondo il
disegno del Creatore. Se da una parte la vita è un dono di Dio, dall'altra la
morte è ineluttabile; è necessario, quindi, che noi, senza prevenire in alcun
modo l'ora della morte, sappiamo accettarla con piena coscienza della nostra
responsabilità e con tutta dignità. È vero, infatti, che la morte pone fine alla
nostra esistenza terrena, ma allo stesso tempo apre la via alla vita immortale.
Perciò tutti gli uomini devono prepararsi a questo evento alla luce dei valori
umani, e i cristiani ancor più alla luce della loro fede.
Coloro che si dedicano alla cura della salute pubblica non tralascino niente per
mettere al servizio degli ammalati e dei moribondi tutta la loro competenza; ma
si ricordino anche di prestare loro il conforto ancor più necessario di una
bontà immensa e di una carità ardente. Un tale servizio prestato agli uomini è
anche un servizio prestato al Signore stesso, il quale ha detto: “Ogni volta che
avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete
fatto a me” (Mt 25,40).
Roma,
dalla sede della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, il 5 maggio
1980.
Franjo Cardinale Seper
Prefetto