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CONGREGAZIONE PER
LA DOTTRINA DELLA FEDE
ISTRUZIONE
DONUM VERITATIS
SULLA VOCAZIONE ECCLESIALE DEL TEOLOGO INTRODUZIONE
1. La verità che rende liberi è un dono di Gesù Cristo (cf. Gv 8, 32). La
ricerca della verità è insita nella natura dell’uomo, mentre l’ignoranza lo
mantiene in una condizione di schiavitù. L’uomo infatti non può essere veramente
libero se non riceve luce sulle questioni centrali della sua esistenza, ed in
particolare su quella di sapere da dove venga e dove vada. Egli diventa libero
quando Dio si dona a lui come un Amico, secondo la parola del Signore: «Non vi
chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho
chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a
voi» (Gv 15, 15). La liberazione dall’alienazione del peccato e della
morte si realizza per l’uomo quando il Cristo, che è la Verità, diventa per lui
la «via» (cf. Gv 14, 6). Nella fede cristiana conoscenza e vita,
verità ed esistenza sono intrinsecamente connesse. La verità donata nella
rivelazione di Dio sorpassa evidentemente le capacità di conoscenza dell’uomo,
ma non si oppone alla ragione umana. Essa piuttosto la penetra, la eleva e fa
appello alla responsabilità di ciascuno (cf. 1 Pt 3, 15). Per questo, fin
dall’inizio della Chiesa la «regola della dottrina» (Rm 6, 17) è stata
legata, con il battesimo, all’ingresso nel mistero di Cristo. Il servizio alla
dottrina, che implica la ricerca credente dell’intelligenza della fede e cioè la
teologia, è pertanto un’esigenza alla quale la Chiesa non può rinunciare.
In ogni epoca la teologia è importante perché la Chiesa possa rispondere al
disegno di Dio, il quale vuole «che tutti gli uomini siano salvati e arrivino
alla conoscenza della verità» (1 Tim 2, 4). In tempi di grandi mutamenti
spirituali e culturali essa è ancora più importante, ma è anche esposta a
rischi, dovendosi sforzare di «rimanere» nella verità (cf. Gv 8, 31) e
tener conto nel medesimo tempo dei nuovi problemi che si pongono allo spirito
umano. Nel nostro secolo, in particolare durante la preparazione e la
realizzazione del Concilio Vaticano II, la teologia ha contribuito molto ad una
più profonda «comprensione delle realtà e delle parole trasmesse»[1],
ma ha anche conosciuto e conosce ancora dei momenti di crisi e di tensione.
La Congregazione per la Dottrina della Fede ritiene pertanto opportuno rivolgere
ai Vescovi della Chiesa cattolica, e tramite loro ai teologi, la presente
Istruzione che si propone di illuminare la missione della teologia nella Chiesa.
Dopo aver preso in considerazione la verità come dono di Dio al suo popolo (I),
essa descriverà la funzione dei teologi (II), si soffermerà quindi sulla
missione particolare dei Pastori (III), e proporrà infine alcune indicazioni sul
giusto rapporto fra gli uni e gli altri (IV). Essa intende così servire la
crescita nella conoscenza della verità (cf. Col 1, 10), che ci introduce
in quella libertà per conquistarci la quale Cristo è morto e risuscitato (cf.
Gal 5, 1). I
LA VERITÀ, DONO DI DIO AL SUO POPOLO 2. Mosso da un amore senza
misura, Dio ha voluto farsi vicino all’uomo che ricerca la propria identità e
camminare con lui (cf. Lc 24, 15). Egli lo ha anche liberato dalle
insidie del «padre della menzogna» (cf. Gv 8, 44) e gli ha dato accesso
alla sua intimità perché vi trovi, in sovrabbondanza, la verità piena e la vera
libertà. Questo disegno d’amore concepito dal «Padre della luce» (Gc 1,
17; cf. 1 Pt 2, 9; 1 Gv 1, 5), realizzato dal Figlio vincitore
della morte (cf. Gv 8, 36) è reso continuamente attuale dallo Spirito che
guida «alla verità tutta intera» (Gv 16, 13). 3. La verità ha in
sé una forza unificante: libera gli uomini dall’isolamento e dalle opposizioni
nelle quali sono rinchiusi dall’ignoranza della verità e aprendo loro la via
verso Dio, li unisce gli uni agli altri. Il Cristo ha distrutto il muro di
separazione che aveva reso gli uomini estranei alla promessa di Dio e alla
comunione dell’alleanza (cf. Ef 2, 12-14). Egli invia nel cuore dei
credenti il suo Spirito, per mezzo del quale noi tutti in Lui siamo «uno solo»
(cf. Ro 5, 5; Gal 3, 28). Così, grazie alla nuova nascita ed
all’unzione dello Spirito Santo (cf. Gv 3, 5; 1 Gv 2, 20. 27),
diventiamo l'unico e nuovo Popolo di Dio che, con vocazioni e carismi diversi,
ha la missione di conservare e trasmettere il dono della verità. Infatti la
Chiesa tutta, come «sale della terra» e «luce del mondo» (cf. Mt 5,
13s.), deve rendere testimonianza alla verità di Cristo che rende liberi.
4. A questa chiamata il Popolo di Dio risponde «soprattutto per mezzo di una
vita di fede e di carità, e offrendo a Dio un sacrificio di lode». Per quello
che riguarda più specificamente la «vita di fede», il Concilio Vaticano II
precisa che «la totalità dei fedeli che hanno ricevuto l’unzione dello Spirito
Santo (cf. 1 Gv 2, 20. 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta
questa proprietà peculiare mediante il senso soprannaturale della fede di tutto
il popolo, quando ‘dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici’, esprime
l’universale suo consenso in materia di fede e di costumi»[2].
5. Per esercitare la sua funzione profetica nel mondo, il Popolo di Dio deve
continuamente risvegliare o «ravvivare» la propria vita di fede (cf. 2 Tm
1, 6), in particolare per mezzo di una riflessione sempre più approfondita,
guidata dallo Spirito Santo, sul contenuto della fede stessa e tramite l'impegno
di dimostrarne la ragionevolezza a coloro che gliene chiedono i motivi (cf. 1
Pt 3, 15). In vista di questa missione lo Spirito di verità dispensa, fra i
fedeli di ogni ordine, grazie speciali date «per l'utilità comune» (1 Cor
12, 7-11). II
LA VOCAZIONE DEL TEOLOGO 6. Fra le vocazioni suscitate dallo Spirito
nella Chiesa si distingue quella del teologo, che in modo particolare ha la
funzione di acquisire, in comunione con il Magistero, un’intelligenza sempre più
profonda della Parola di Dio contenuta nella Scrittura ispirata e trasmessa
dalla Tradizione viva della Chiesa. Di sua natura la fede fa appello
all’intelligenza, perché svela all’uomo la verità sul suo destino e la via per
raggiungerlo. Anche se la verità rivelata è superiore ad ogni nostro dire ed i
nostri concetti sono imperfetti di fronte alla sua grandezza ultimamente
insondabile (cf. Ef 3, 19), essa invita tuttavia la ragione - dono di Dio
fatto per cogliere la verità - ad entrare nella sua luce, diventando così capace
di comprendere in una certa misura quanto ha creduto. La scienza teologica, che,
rispondendo all’invito della voce della verità cerca l'intelligenza della fede,
aiuta il Popolo di Dio, secondo il comandamento dell'apostolo (cf. 1 Pt
3, 15), a rendere conto della sua speranza a coloro che lo richiedono. 7.
Il lavoro del teologo risponde così al dinamismo insito nella fede stessa: di
sua natura la Verità vuole comunicarsi, perché l'uomo è stato creato per
percepire la verità, e desidera nel più profondo di se stesso conoscerla per
ritrovarsi in essa e per trovarvi la sua salvezza (cf. 1 Tm 2, 4). Per
questo il Signore ha inviato i suoi apostoli perché facciano «discepole» tutte
le nazioni e le ammaestrino (cf. Mt 28, 19s.). La teologia, che ricerca
la «ragione della fede» ed a coloro che cercano offre questa ragione come una
risposta, costituisce parte integrante dell’obbedienza a questo comandamento,
perché gli uomini non possono diventare discepoli se la verità contenuta nella
parola della fede non viene loro presentata (cf. Rm 10, 14s). La
teologia offre dunque il suo contributo perché la fede divenga comunicabile, e
l'intelligenza di coloro che non conoscono ancora il Cristo possa ricercarla e
trovarla. La teologia, che obbedisce all’impulso della verità che tende a
comunicarsi, nasce anche dall’amore e dal suo dinamismo: nell’atto di fede,
l’uomo conosce la bontà di Dio e comincia ad amarlo, ma l’amore desidera
conoscere sempre meglio colui che ama[3].
Da questa duplice origine della teologia, iscritta nella vita interna del Popolo
di Dio e nella sua vocazione missionaria, consegue il modo con cui essa deve
essere elaborata per soddisfare alle esigenze della sua natura. 8.
Poiché oggetto della teologia è la Verità, il Dio vivo ed il suo disegno di
salvezza rivelato in Gesù Cristo, il teologo è chiamato ad intensificare la sua
vita di fede e ad unire sempre ricerca scientifica e preghiera[4].
Sarà così più aperto al «senso soprannaturale della fede» da cui dipende e che
gli apparirà come una sicura regola per guidare la sua riflessione e misurare la
correttezza delle sue conclusioni. 9. Nel corso dei secoli la teologia
si è progressivamente costituita in vero e proprio sapere scientifico. È quindi
necessario che il teologo sia attento alle esigenze epistemologiche della sua
disciplina, alle esigenze di rigore critico, e quindi al controllo razionale di
ogni tappa della sua ricerca. Ma l’esigenza critica non va identificata con lo
spirito critico, che nasce piuttosto da motivazioni di carattere affettivo o da
pregiudizio. Il teologo deve discernere in se stesso l’origine e le motivazioni
del suo atteggiamento critico e lasciare che il suo sguardo sia purificato dalla
fede. L’impegno teologico esige uno sforzo spirituale di rettitudine e di
santificazione. 10. Pur trascendendo la ragione umana, la verità
rivelata è in profonda armonia con essa. Ciò suppone che la ragione sia per sua
natura ordinata alla verità in modo che, illuminata dalla fede, essa possa
penetrare il significato della Rivelazione. Contrariamente alle affermazioni di
molte correnti filosofiche, ma conformemente ad un retto modo di pensare che
trova conferma nella Scrittura, si deve riconoscere la capacità della ragione
umana di raggiungere la verità, così come la sua capacità metafisica di
conoscere Dio a partire dal creato[5].
Il compito proprio alla teologia di comprendere il senso della Rivelazione esige
pertanto l’utilizzo di acquisizioni filosofiche che forniscano «una solida ed
armonica conoscenza dell’uomo, del mondo e di Dio»[6],
e possano essere assunte nella riflessione sulla dottrina rivelata. Le scienze
storiche sono egualmente necessarie agli studi del teologo, a motivo
innanzitutto del carattere storico della Rivelazione stessa, che ci è stata
comunicata in una «storia di salvezza». Si deve infine fare ricorso anche alle
«scienze umane», per meglio comprendere la verità rivelata sull’uomo e sulle
norme morali del suo agire, mettendo in rapporto con essa i risultati validi di
queste scienze. In questa prospettiva è compito del teologo assumere
dalla cultura del suo ambiente elementi che gli permettano di mettere meglio in
luce l’uno o l’altro aspetto dei misteri della fede. Un tale compito è
certamente arduo e comporta dei rischi, ma è in se stesso legittimo e deve
essere incoraggiato. A questo proposito è importante sottolineare che
l’utilizzazione da parte della teologia di elementi e strumenti concettuali
provenienti dalla filosofia o da altre discipline esige un discernimento che ha
il suo principio normativo ultimo nella dottrina rivelata. È essa che deve
fornire i criteri per il discernimento di questi elementi e strumenti
concettuali e non viceversa. 11. Il teologo, non dimenticando mai di
essere anch’egli membro del Popolo di Dio, deve nutrire rispetto nei suoi
confronti e impegnarsi nel dispensargli un insegnamento che non leda in alcun
modo la dottrina della fede. La libertà propria alla ricerca teologica
si esercita all’interno della fede della Chiesa. L’audacia pertanto che si
impone spesso alla coscienza del teologo non può portare frutti ed «edificare»
se non si accompagna alla pazienza della maturazione. Le nuove proposte avanzate
dall’intelligenza della fede «non sono che un’offerta fatta a tutta la Chiesa.
Occorrono molte correzioni e ampliamenti di prospettiva in un dialogo fraterno,
prima di giungere al momento in cui tutta la Chiesa possa accettarle». Di
conseguenza la teologia, in quanto «servizio molto disinteressato alla comunità
dei credenti, comporta essenzialmente un dibattito oggettivo, un dialogo
fraterno, un’apertura ed una disponibilità a modificare le proprie opinioni»[7].
12. La libertà di ricerca, che giustamente sta a cuore alla comunità degli
uomini di scienza come uno dei suoi beni più preziosi, significa disponibilità
ad accogliere la verità così come essa si presenta al termine di una ricerca,
nella quale non sia intervenuto alcun elemento estraneo alle esigenze di un
metodo che corrisponda all’oggetto studiato. In teologia questa libertà
di ricerca si iscrive all’interno di un sapere razionale il cui oggetto è dato
dalla Rivelazione, trasmessa ed interpretata nella Chiesa sotto l’autorità del
Magistero, ed accolta dalla fede. Trascurare questi dati, che hanno un valore di
principio, equivarrebbe a smettere di fare teologia. Per ben precisare le
modalità di questo rapporto con il Magistero, è ora opportuno riflettere sul
ruolo di quest’ultimo nella Chiesa. III
IL MAGISTERO DEI PASTORI 13. «Dio, con somma benignità, dispose che
quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti, rimanesse sempre
integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni»[8].
Egli ha dato alla sua Chiesa, mediante il dono dello Spirito Santo, una
partecipazione alla propria infallibilità[9].
Il Popolo di Dio, grazie al «senso soprannaturale della fede», gode di questa
prerogativa, sotto la guida del Magistero vivo della Chiesa, che, per l’autorità
esercitata nel nome di Cristo, è il solo interprete autentico della Parola di
Dio, scritta o trasmessa[10].
14. Come successori degli Apostoli, i Pastori della Chiesa «ricevono dal
Signore... la missione di insegnare a tutte le genti e di predicare il vangelo
ad ogni creatura, affinché tutti gli uomini... ottengano la salvezza»[11].
Ad essi è quindi affidato il compito di conservare, esporre e diffondere la
Parola di Dio, della quale sono servitori[12].
La missione del Magistero è quella di affermare, coerentemente con la natura
«escatologica» propria dell’evento di Gesù Cristo, il carattere definitivo
dell’Alleanza instaurata da Dio per mezzo di Cristo con il suo popolo, tutelando
quest’ultimo da deviazioni e smarrimenti, e garantendogli la possibilità
obiettiva di professare senza errori la fede autentica, in ogni tempo e nelle
diverse situazioni. Ne consegue che il significato del Magistero ed il suo
valore sono comprensibili solo in relazione alla verità della dottrina cristiana
ed alla predicazione della Parola vera. La funzione del Magistero non è quindi
qualcosa di estrinseco alla verità cristiana né di sovrapposto alla fede; essa
emerge direttamente dall’economia della fede stessa, in quanto il Magistero è,
nel suo servizio alla Parola di Dio, un’istituzione voluta positivamente da
Cristo come elemento costitutivo della Chiesa. Il servizio alla verità cristiana
reso dal Magistero è perciò a favore di tutto il Popolo di Dio, chiamato ad
entrare in quella libertà della verità che Dio ha rivelato in Cristo.
15. Perché possano adempiere pienamente il compito loro affidato di insegnare il
Vangelo e di interpretare autenticamente la Rivelazione, Gesù Cristo ha promesso
ai Pastori della Chiesa l’assistenza dello Spirito Santo. Egli li ha dotati in
particolare del carisma di infallibilità per quanto concerne materie di fede e
di costumi. L’esercizio di questo carisma può avere diverse modalità. Si
esercita in particolare quando i vescovi, in unione con il loro capo visibile,
mediante un atto collegiale, come nel caso dei concili ecumenici, proclamano una
dottrina, o quando il Pontefice romano, esercitando la sua missione di Pastore e
Dottore supremo di tutti i cristiani, proclama una dottrina «ex cathedra»[13].
16. Il compito di custodire santamente e di esporre fedelmente il deposito della
divina Rivelazione implica, di sua natura, che il Magistero possa proporre «in
modo definitivo»[14] enunciati
che, anche se non sono contenuti nelle verità di fede, sono ad esse tuttavia
intimamente connessi, così che il carattere definitivo di tali affermazioni
deriva, in ultima analisi, dalla Rivelazione stessa[15].
Ciò che concerne la morale può essere oggetto di magistero autentico, perché il
Vangelo, che è Parola di vita, ispira e dirige tutto l’ambito dell’agire umano.
Il Magistero ha dunque il compito di discernere, mediante giudizi normativi per
la coscienza dei fedeli, gli atti che sono in se stessi conformi alle esigenze
della fede e ne promuovono l’espressione nella vita, e quelli che al contrario,
per la loro malizia intrinseca, sono incompatibili con queste esigenze. A motivo
del legame che esiste fra l’ordine della creazione e l’ordine della redenzione,
e a motivo della necessità di conoscere e di osservare tutta la legge morale in
vista della salvezza, la competenza del Magistero si estende anche a ciò che
riguarda la legge naturale[16].
D’altra parte la Rivelazione contiene insegnamenti morali che di per se
potrebbero essere conosciuti dalla ragione naturale, ma a cui la condizione
dell’uomo peccatore rende difficile l’accesso. È dottrina di fede che queste
norme morali possono essere infallibilmente insegnate dal Magistero[17].
17. L’assistenza divina è data inoltre ai successori degli Apostoli, che
insegnano in comunione con il successore di Pietro, e, in una maniera
particolare, al Romano Pontefice, Pastore di tutta la Chiesa, quando, senza
giungere ad una definizione infallibile e senza pronunciarsi in un «modo
definitivo», nell’esercizio del loro magistero ordinario propongono un
insegnamento, che conduce ad una migliore comprensione della Rivelazione in
materia di fede e di costumi, e direttive morali derivanti da questo
insegnamento. Si deve dunque tener conto del carattere proprio di
ciascuno degli interventi del Magistero e della misura in cui la sua autorità è
coinvolta, ma anche del fatto che essi derivano tutti dalla stessa fonte e cioè
da Cristo che vuole che il suo Popolo cammini nella verità tutta intera. Per lo
stesso motivo le decisioni magisteriali in materia di disciplina, anche se non
sono garantite dal carisma dell’infallibilità, non sono sprovviste
dell’assistenza divina, e richiedono l’adesione dei fedeli. 18. Il
Pontefice Romano adempie la sua missione universale con l’aiuto degli organismi
della Curia Romana ed in particolare della Congregazione per la Dottrina della
Fede per ciò che riguarda la dottrina sulla fede e sulla morale. Ne consegue che
i documenti di questa Congregazione approvati espressamente dal Papa partecipano
al magistero ordinario del successore di Pietro[18].
19. Nelle Chiese particolari spetta al vescovo custodire ed interpretare la
Parola di Dio e giudicare con autorità ciò che le è conforme o meno.
L’insegnamento di ogni vescovo, preso singolarmente, si esercita in comunione
con quello del Pontefice romano, Pastore della Chiesa universale, e con gli
altri vescovi dispersi per il mondo o riuniti in Concilio ecumenico. Questa
comunione è condizione della sua autenticità. Membro del collegio
episcopale in forza della sua ordinazione sacramentale e della comunione
gerarchica, il vescovo rappresenta la sua Chiesa, così come tutti i vescovi in
unione con il Papa, rappresentano la Chiesa universale nel vincolo della pace,
dell’amore, dell'unità e della verità. Convergendo nell'unità, le Chiese locali,
con il loro proprio patrimonio, manifestano la cattolicità della Chiesa. Da
parte loro, le Conferenze episcopali contribuiscono alla realizzazione concreta
dello spirito («affectus») collegiale[19].
20. Il compito pastorale del Magistero, che ha lo scopo di vigilare perché il
Popolo di Dio rimanga nella verità che libera, è dunque una realtà complessa e
diversificata. Il teologo, nel suo impegno al servizio della verità, dovrà, per
restare fedele alla sua funzione, tener conto della missione propria al
Magistero e collaborare con esso. Come si deve intendere questa collaborazione?
Come si realizza concretamente e quali ostacoli può incontrare? È ciò che
occorre adesso esaminare più da vicino. IV
MAGISTERO E TEOLOGIA A. I rapporti di collaborazione
21. Il Magistero vivo della Chiesa e la teologia, pur avendo doni e funzioni
diverse, hanno ultimamente il medesimo fine: conservare il Popolo di Dio nella
verità che libera e farne così la «luce delle nazioni». Questo servizio alla
comunità ecclesiale mette in relazione reciproca il teologo con il Magistero.
Quest’ultimo insegna autenticamente la dottrina degli Apostoli e, traendo
vantaggio dal lavoro teologico, respinge le obiezioni e le deformazioni della
fede, proponendo inoltre con l’autorità ricevuta da Gesù Cristo nuovi
approfondimenti, esplicitazioni e applicazioni della dottrina rivelata. La
teologia invece acquisisce, in modo riflesso, un’intelligenza sempre più
profonda della Parola di Dio, contenuta nella Scrittura e trasmessa fedelmente
dalla Tradizione viva della Chiesa sotto la guida del Magistero, cerca di
chiarire l’insegnamento della Rivelazione di fronte alle istanze della ragione,
ed infine gli dà una forma organica e sistematica[20].
22. La collaborazione fra il teologo ed il Magistero si realizza in modo
speciale quando il teologo riceve la missione canonica o il mandato di
insegnare. Essa diventa allora, in un certo senso, una partecipazione all’opera
del Magistero al quale la collega un vincolo giuridico. Le regole di deontologia
che derivano per se stesse e con evidenza dal servizio alla Parola di Dio
vengono corroborate dall’impegno assunto dal teologo accettando il suo ufficio
ed emettendo la Professione di fede ed il Giuramento di fedeltà[21].
Da quel momento egli è investito ufficialmente del compito di presentare ed
illustrare, con tutta esattezza e nella sua integralità, la dottrina della fede.
23. Quando il Magistero della Chiesa si pronuncia infallibilmente dichiarando
solennemente che una dottrina è contenuta nella Rivelazione, l’adesione
richiesta è quella della fede teologale. Questa adesione si estende
all’insegnamento del Magistero ordinario ed universale quando propone una
dottrina di fede come divinamente rivelata. Quando esso propone «in modo
definitivo» delle verità riguardanti la fede ed i costumi, che, anche se non
divinamente rivelate, sono tuttavia strettamente e intimamente connesse con la
Rivelazione, queste devono essere fermamente accettate e ritenute[22].
Quando il Magistero, anche senza l’intenzione di porre un atto «definitivo»,
insegna una dottrina per aiutare ad un’intelligenza più profonda della
Rivelazione e di ciò che ne esplicita il contenuto, ovvero per richiamare la
conformità di una dottrina con le verità di fede, o infine per metter in guardia
contro concezioni incompatibili con queste stesse verità, è richiesto un
religioso ossequio della volontà e dell’intelligenza[23].
Questo non può essere puramente esteriore e disciplinare, ma deve collocarsi
nella logica e sotto la spinta dell’obbedienza della fede. 24. Infine il
Magistero, allo scopo di servire nel miglior modo possibile il Popolo di Dio, e
in particolare per metterlo in guardia nei confronti di opinioni pericolose che
possono portare all’errore, può intervenire su questioni dibattute nelle quali
sono implicati, insieme ai principi fermi, elementi congetturali e contingenti.
E spesso è solo a distanza di un certo tempo che diviene possibile operare una
distinzione fra ciò che è necessario e ciò che è contingente. La volontà
di ossequio leale a questo insegnamento del Magistero in materia per sé non
irreformabile deve essere la regola. Può tuttavia accadere che il teologo si
ponga degli interrogativi concernenti, a secondo dei casi, l’opportunità, la
forma o anche il contenuto di un intervento. Il che lo spingerà innanzitutto a
verificare accuratamente quale è l’autorevolezza di questi interventi, così come
essa risulta dalla natura dei documenti, dall’insistenza nel riproporre una
dottrina e dal modo stesso di esprimersi[24].
In questo ambito degli interventi di ordine prudenziale, è accaduto che dei
documenti magisteriali non fossero privi di carenze. I Pastori non hanno sempre
colto subito tutti gli aspetti o tutta la complessità di una questione. Ma
sarebbe contrario alla verità se, a partire da alcuni determinati casi, si
concludesse che il Magistero della Chiesa possa ingannarsi abitualmente nei suoi
giudizi prudenziali, o non goda dell’assistenza divina nell’esercizio integrale
della sua missione. Di fatto il teologo, che non può esercitare bene la sua
disciplina senza una certa competenza storica, è cosciente della decantazione
che si opera con il tempo. Ciò non deve essere inteso nel senso di una
relativizzazione degli enunciati della fede. Egli sa che alcuni giudizi del
Magistero potevano essere giustificati al tempo in cui furono pronunciati,
perché le affermazioni prese in considerazione contenevano in modo inestricabile
asserzioni vere e altre che non erano sicure. Soltanto il tempo ha permesso di
compiere un discernimento e, a seguito di studi approfonditi, di giungere ad un
vero progresso dottrinale. 25. Anche quando la collaborazione si svolge
nelle condizioni migliori, non è escluso che nascano tra il teologo ed il
Magistero delle tensioni. Il significato che a queste si conferisce e lo spirito
con il quale le si affronta non sono indifferenti: se le tensioni non nascono da
un sentimento di ostilità e di opposizione, possono rappresentare un fattore di
dinamismo ed uno stimolo che sospinge il Magistero ed i teologi ad adempiere le
loro rispettive funzioni praticando il dialogo. 26. Nel dialogo deve
dominare una duplice regola: là ove la comunione di fede è in causa vale il
principio dell’«unitas veritatis»; là ove rimangono delle divergenze che non
mettono in causa questa comunione, si salvaguarderà l’«unitas caritatis».
27. Anche se la dottrina della fede non è in causa, il teologo non presenterà le
sue opinioni o le sue ipotesi divergenti come se si trattasse di conclusioni
indiscutibili. Questa discrezione è esigita dal rispetto della verità così come
dal rispetto per il Popolo di Dio (cf. Rm 14, 1-15; 1 Cor 8; 10,
23-33). Per gli stessi motivi egli rinuncerà ad una loro espressione pubblica
intempestiva. 28. Ciò che precede ha un’applicazione particolare nel
caso del teologo che trovasse serie difficoltà, per ragioni che gli paiono
fondate, ad accogliere un insegnamento magisteriale non irreformabile.
Un tale disaccordo non potrebbe essere giustificato se si fondasse solamente sul
fatto che la validità dell’insegnamento dato non è evidente o sull’opinione che
la posizione contraria sia più probabile. Così pure non sarebbe sufficiente il
giudizio della coscienza soggettiva del teologo, perché questa non costituisce
un’istanza autonoma ed esclusiva per giudicare della verità di una dottrina.
29. In ogni caso non potrà mai venir meno un atteggiamento di fondo di
disponibilità ad accogliere lealmente l’insegnamento del Magistero, come si
conviene ad ogni credente nel nome dell’obbedienza della fede. Il teologo si
sforzerà pertanto di comprendere questo insegnamento nel suo contenuto, nelle
sue ragioni e nei suoi motivi. A ciò egli consacrerà una riflessione
approfondita e paziente, pronto a rivedere le sue proprie opinioni ed a
esaminare le obiezioni che gli fossero fatte dai suoi colleghi. 30. Se,
malgrado un leale sforzo, le difficoltà persistono, è dovere del teologo far
conoscere alle autorità magisteriali i problemi suscitati dall’insegnamento in
se stesso, nelle giustificazioni che ne sono proposte o ancora nella maniera con
cui è presentato. Egli lo farà in uno spirito evangelico, con il profondo
desiderio di risolvere le difficoltà. Le sue obiezioni potranno allora
contribuire ad un reale progresso, stimolando il Magistero a proporre
l’insegnamento della Chiesa in modo più approfondito e meglio argomentato.
In questi casi il teologo eviterà di ricorrere ai «mass-media» invece di
rivolgersi all’autorità responsabile, perché non è esercitando in tal modo una
pressione sull’opinione pubblica che si può contribuire alla chiarificazione dei
problemi dottrinali e servire la verità. 31. Può anche accadere che al
termine di un esame dell’insegnamento del Magistero serio e condotto con volontà
di ascolto senza reticenze, la difficoltà rimanga, perché gli argomenti in senso
opposto sembrano al teologo prevalere. Davanti ad un’affermazione, alla quale
non sente di poter dare la sua adesione intellettuale, il suo dovere è di
restare disponibile per un esame più approfondito della questione. Per
uno spirito leale ed animato dall’amore per la Chiesa, una tale situazione può
certamente rappresentare una prova difficile. Può essere un invito a soffrire
nel silenzio e nella preghiera, con la certezza che se la verità è veramente in
causa, essa finirà necessariamente per imporsi. B. Il problema del
dissenso. 32. A più riprese il Magistero ha attirato l’attenzione
sui gravi inconvenienti arrecati alla comunione della Chiesa da quegli
atteggiamenti di opposizione sistematica, che giungono perfino a costituirsi in
gruppi organizzati[25].
Nell'Esortazione apostolica
Paterna cum benevolentia Paolo VI ha proposto
una diagnosi che conserva ancora tutta la sua pertinenza. In particolare qui si
intende parlare di quell’atteggiamento pubblico di opposizione al magistero
della Chiesa, chiamato anche «dissenso», e che occorre ben distinguere dalla
situazione di difficoltà personale, di cui si è trattato più sopra. Il fenomeno
del dissenso può avere diverse forme, e le sue cause remote o prossime sono
molteplici. Tra i fattori che possono esercitare la loro influenza in
maniera remota o indiretta, occorre ricordare l’ideologia del liberalismo
filosofico che impregna anche la mentalità della nostra epoca. Di qui proviene
la tendenza a considerare che un giudizio ha tanto più valore quanto più procede
dall’individuo che si appoggia sulle sue proprie forze. Così si oppone la
libertà di pensiero all’autorità della tradizione, considerata causa di
schiavitù. Una dottrina trasmessa e generalmente recepita è a priori sospetta e
il suo valore veritativo contestato. Al limite, la libertà di giudizio così
intesa è più importante della verità stessa. Si tratta quindi di tutt’altro che
dell’esigenza legittima della libertà, nel senso di assenza di costrizione, come
condizione richiesta per la ricerca leale della verità. In virtù di questa
esigenza la Chiesa ha sempre sostenuto che «nessuno può essere costretto ad
abbracciare la fede contro la sua volontà»[26].
Il peso di un’opinione pubblica artificiosamente orientata e dei suoi
conformismi esercita anche la sua influenza. Sovente i modelli sociali diffusi
dai «mass-media» tendono ad assumere un valore normativo; si diffonde in
particolare il convincimento che la Chiesa non dovrebbe pronunciarsi che sui
problemi ritenuti importanti dall’opinione pubblica e nel senso che a questa
conviene. Il Magistero, per esempio, potrebbe intervenire nelle questioni
economiche e sociali, ma dovrebbe lasciare al giudizio individuale quelle che
riguardano la morale coniugale e familiare. Infine anche la pluralità
delle culture e delle lingue, che è in se stessa una ricchezza, può
indirettamente portare a dei malintesi, motivo di successivi disaccordi.
In questo contesto un discernimento critico ben ponderato ed una vera padronanza
dei problemi sono richiesti dal teologo, se vuole adempiere la sua missione
ecclesiale e non perdere, conformandosi al mondo presente (cf. Rm 12, 2;
Ef 4, 23), l’indipendenza del giudizio che deve essere quella dei discepoli
di Cristo. 33. Il dissenso può rivestire diversi aspetti. Nella sua
forma più radicale, esso ha di mira il cambiamento della Chiesa secondo un
modello di contestazione ispirato da ciò che si fa nella società politica. Più
frequentemente si ritiene che il teologo sarebbe obbligato ad aderire
all’insegnamento infallibile del Magistero, mentre invece, adottando la
prospettiva di una specie di positivismo teologico, le dottrine proposte senza
che intervenga il carisma dell’infallibilità non avrebbero nessun carattere
obbligatorio, lasciando al singolo piena libertà di aderirvi o meno. Il teologo
sarebbe quindi totalmente libero di mettere in dubbio o di rifiutare
l’insegnamento non infallibile del Magistero, in particolare in materia di norme
morali particolari. Anzi con questa opposizione critica egli contribuirebbe al
progresso della dottrina. 34. La giustificazione del dissenso si
appoggia in generale su diversi argomenti, due dei quali hanno un carattere più
fondamentale. Il primo è di ordine ermeneutico: i documenti del Magistero non
sarebbero niente altro che il riflesso di una teologia opinabile. Il secondo
invoca il pluralismo teologico, spinto talora fino ad un relativismo che mette
in causa l'integrità della fede: gli interventi magisteriali avrebbero la loro
origine in una teologia fra molte altre, mentre nessuna teologia particolare può
pretendere di imporsi universalmente. In opposizione ed in concorrenza con il
magistero autentico sorge così una specie di «magistero parallelo» dei teologi[27].
Uno dei compiti del teologo è certamente quello di interpretare correttamente i
testi del Magistero, e allo scopo egli dispone di regole ermeneutiche, tra le
quali figura il principio secondo cui l’insegnamento del Magistero - grazie
all’assistenza divina - vale al di là dell’argomentazione, talvolta desunta da
una teologia particolare, di cui esso si serve. Quanto al pluralismo teologico,
esso non è legittimo se non nella misura in cui è salvaguardata l’unità della
fede nel suo significato obiettivo[28].
I diversi livelli che sono l’unità della fede, l’unità-pluralità delle
espressioni della fede e la pluralità delle teologie sono infatti essenzialmente
legati fra di loro. La ragione ultima della pluralità è l’insondabile mistero di
Cristo che trascende ogni sistematizzazione oggettiva. Ciò non può significare
che siano accettabili conclusioni che gli siano contrarie, e ciò non mette
assolutamente in causa la verità di asserzioni per mezzo delle quali il
Magistero si è pronunciato[29].
Quanto al «magistero parallelo», esso può causare grandi mali spirituali
opponendosi a quello dei Pastori. Quando infatti il dissenso riesce ad estendere
la sua influenza fino ad ispirare una opinione comune, tende a diventare regola
di azione, e ciò non può non turbare gravemente il Popolo di Dio e condurre ad
una disistima della vera autorità[30].
35. Il dissenso fa appello anche talvolta ad una argomentazione sociologica,
secondo la quale l’opinione di un gran numero di cristiani sarebbe
un’espressione diretta ed adeguata del «senso soprannaturale della fede».
In realtà le opinioni dei fedeli non possono essere puramente e semplicemente
identificate con il «sensus fidei»[31].
Quest’ultimo è una proprietà della fede teologale la quale, essendo un dono di
Dio che fa aderire personalmente alla Verità, non può ingannarsi. Questa fede
personale è anche fede della Chiesa, poiché Dio ha affidato alla Chiesa la
custodia della Parola e, di conseguenza, ciò che il fedele crede è ciò che crede
la Chiesa. Il «sensus fidei» implica pertanto, di sua natura, l'accordo profondo
dello spirito e del cuore con la Chiesa, il «sentire cum Ecclesia». Se
quindi la fede teologale in quanto tale non può ingannarsi, il credente può
invece avere delle opinioni erronee, perché tutti i suoi pensieri non procedono
dalla fede[32]. Le idee che
circolano nel Popolo di Dio non sono tutte in coerenza con la fede, tanto più
che possono facilmente subire l’influenza di una opinione pubblica veicolata da
moderni mezzi di comunicazione. Non è senza motivo che il Concilio Vaticano II
sottolinei il rapporto indissolubile fra il «sensus fidei» e la guida del Popolo
di Dio da parte del magistero dei Pastori: le due realtà non possono essere
separate l’una dall'altra[33].
Gli interventi del Magistero servono a garantire l’unità della Chiesa nella
verità del Signore. Essi aiutano a «dimorare nella verità» di fronte al
carattere arbitrario delle opinioni mutevoli, e sono l’espressione
dell’obbedienza alla Parola di Dio[34].
Anche quando può sembrare che essi limitino la libertà dei teologi, essi
instaurano, per mezzo della fedeltà alla fede che è stata trasmessa, una libertà
più profonda che non può venire se non dall’unità nella verità. 36. La
libertà dell’atto di fede non può giustificare il diritto al dissenso. In realtà
essa non significa affatto la libertà nei confronti della verità, ma il libero
auto-determinarsi della persona in conformità con il suo obbligo morale di
accogliere la verità. L’atto di fede è un atto volontario, perché l'uomo,
riscattato dal Cristo Redentore e chiamato da lui all’adozione filiale (cf.
Rm 8, 15; Gal 4, 5; Ef 1, 5; Gv 1, 12), non può aderire
a Dio se non a condizione che, «attirato dal Padre» (Gv 6, 44), egli
faccia a Dio l’omaggio ragionevole della sua fede (cf. Rm 12, 1). Come ha
ricordato la Dichiarazione
Dignitatis Humanae[35],
nessuna autorità umana ha il diritto di intervenire, con costrizioni o
pressioni, in questa scelta che supera i limiti delle sue competenze. Il
rispetto del diritto alla libertà religiosa è il fondamento del rispetto
dell’insieme dei diritti dell’uomo. Non si può pertanto fare appello a
questi diritti dell’uomo per opporsi agli interventi del Magistero. Un tale
comportamento misconosce la natura e la missione della Chiesa, che ha ricevuto
dal suo Signore il compito di annunciare a tutti gli uomini la verità della
salvezza, e lo realizza camminando sulle tracce del Cristo, sapendo che «la
verità non si impone che in forza della stessa verità, la quale penetra nelle
menti soavemente e insieme con vigore»[36].
37. In forza del mandato divino che gli è stato dato nella Chiesa, il Magistero
ha per missione di proporre l’insegnamento del Vangelo, di vegliare sulla sua
integrità e di proteggere così la fede del Popolo di Dio. Per realizzare questo
talvolta può essere condotto a prendere delle misure onerose, come per esempio
quando ritira ad un teologo che si discosta dalla dottrina della fede la
missione canonica o il mandato dell’insegnamento che gli aveva affidato, ovvero
dichiara che degli scritti non sono conformi a questa dottrina. Agendo così esso
intende essere fedele alla sua missione, perché difende il diritto del Popolo di
Dio a ricevere il messaggio della Chiesa nella sua purezza e nella sua
integralità, e quindi a non essere turbato da un’opinione particolare
pericolosa. Il giudizio espresso dal Magistero in tali circostanze, al
termine di un esame approfondito, condotto in conformità con procedure
stabilite, e dopo che all’interessato è stata concessa la possibilità di
dissipare eventuali malintesi sul suo pensiero, non tocca la persona del
teologo, ma le sue posizioni intellettuali pubblicamente espresse. Il fatto che
queste procedure possano essere perfezionate non significa che esse siano
contrarie alla giustizia ed al diritto. Parlare in questo caso di violazione dei
diritti dell’uomo è fuori luogo, perché si misconoscerebbe l’esatta gerarchia di
questi diritti, come anche la natura della comunità ecclesiale e del suo bene
comune. Peraltro il teologo, che non è in sintonia con il «sentire cum
Ecclesia», si mette in contraddizione con l’impegno da lui assunto liberamente e
consapevolmente di insegnare in nome della Chiesa[37].
38. Infine l’argomentazione che si rifà al dovere di seguire la propria
coscienza non può legittimare il dissenso. Innanzitutto perché questo dovere si
esercita quando la coscienza illumina il giudizio pratico in vista di una
decisione da prendere, mentre qui si tratta della verità di un enunciato
dottrinale. Inoltre perché se il teologo deve, come ogni credente, seguire la
sua coscienza, egli è anche tenuto a formarla. La coscienza non è una facoltà
indipendente ed infallibile, essa è un atto di giudizio morale che riguarda una
scelta responsabile. La coscienza retta è una coscienza debitamente illuminata
dalla fede e dalla legge morale oggettiva, e suppone anche la rettitudine della
volontà nel perseguimento del vero bene. La coscienza retta del teologo
cattolico suppone pertanto la fede nella Parola di Dio di cui deve penetrare le
ricchezze, ma anche l’amore alla Chiesa da cui egli riceve la sua missione ed il
rispetto del Magistero divinamente assistito. Opporre al magistero della Chiesa
un magistero supremo della coscienza è ammettere il principio del libero esame,
incompatibile con l’economia della Rivelazione e della sua trasmissione nella
Chiesa, così come con una concezione corretta della teologia e della funzione
del teologo. Gli enunciati della fede non risultano da una ricerca puramente
individuale e da una libera critica della Parola di Dio, ma costituiscono
un’eredità ecclesiale. Se ci si separa dai Pastori che vegliano per mantenere
viva la tradizione apostolica, è il legame con Cristo che si trova
irreparabilmente compromesso[38].
39. La Chiesa, traendo la sua origine dall’unità del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo[39], è un mistero
di comunione, organizzata, secondo la volontà del suo fondatore, intorno ad una
gerarchia stabilita per il servizio del Vangelo e del Popolo di Dio che ne vive.
Ad immagine dei membri della prima comunità, tutti i battezzati, con i carismi
che sono loro propri, devono tendere con cuore sincero verso un’unità armoniosa
di dottrina, di vita e di culto (cf. At 2, 42). È questa una regola che
scaturisce dall’essere stesso della Chiesa. Non si possono pertanto applicare a
quest’ultima, puramente e semplicemente, dei criteri di condotta che hanno la
loro ragione d’essere nella società civile o nelle regole di funzionamento di
una democrazia. Ancor meno, nei rapporti all’interno della Chiesa, ci si può
ispirare alla mentalità del mondo circostante (cf. Rm 12, 2). Chiedere
all’opinione maggioritaria ciò che conviene pensare e fare, ricorrere contro il
Magistero a pressioni esercitate dall’opinione pubblica, addurre a pretesto un
«consenso» dei teologi, sostenere che il teologo sia il portaparola profetico di
una «base» o comunità autonoma che sarebbe così l’unica fonte della verità,
tutto questo denota una grave perdita del senso della verità e del senso della
Chiesa. 40. La Chiesa è «come il sacramento, cioè il segno e lo
strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano»[40].
Di conseguenza ricercare la concordia e la comunione è aumentare la forza della
sua testimonianza e la sua credibilità; cedere invece alla tentazione del
dissenso, è lasciare che si sviluppino «fermenti di infedeltà allo Spirito
Santo»[41]. Pur essendo
la teologia ed il Magistero di natura diversa e pur avendo missioni diverse che
non possono essere confuse, si tratta tuttavia di due funzioni vitali nella
Chiesa, che devono compenetrarsi ed arricchirsi reciprocamente per il servizio
del Popolo di Dio. Spetta ai Pastori, in forza dell’autorità che deriva
loro da Cristo stesso, vigilare su questa unità e impedire che le tensioni che
nascono dalla vita degenerino in divisioni. La loro autorità, andando al di là
delle posizioni particolari e delle opposizioni, deve unificarle tutte
nell’integrità del Vangelo, che è «la parola della riconciliazione» (cf. 2
Cor 5, 18-20). Quanto ai teologi, in forza del loro proprio carisma,
spetta anche ad essi partecipare all’edificazione del Corpo di Cristo nell’unità
e nella verità, ed il loro contributo è più che mai richiesto per
un’evangelizzazione a scala mondiale, che esige gli sforzi di tutto quanto il
Popolo di Dio[42]. Se può ad
essi accadere di incontrare delle difficoltà a causa del carattere della loro
ricerca, essi devono cercarne la soluzione in un dialogo fiducioso con i
Pastori, nello spirito di verità e di carità che è quello della comunione della
Chiesa. 41. Gli uni e gli altri avranno sempre presente che il Cristo è
la Parola definitiva del Padre (cf. Eb 1, 2) nel quale, come osserva San
Giovanni della Croce, «Dio ci ha detto tutto insieme ed in una sola volta»[43],
e che, come tale, egli è la Verità che libera (cf. Gv 8, 36; 14, 6). Gli
atti di adesione e di ossequio alla Parola affidata alla Chiesa sotto la guida
del Magistero si riferiscono in definitiva a Lui ed introducono nello spazio
della vera libertà. CONCLUSIONE
43. Madre e perfetta Icona della Chiesa, la Vergine Maria è stata fin dagli
inizi del Nuovo Testamento proclamata beata, a motivo della sua adesione di fede
immediata e senza incertezze alla Parola di Dio (cf. Lc 1, 38. 45), che
continuamente conservava e meditava nel suo cuore (cf. Lc 2, 19. 51).
Ella è così diventata, per tutto il Popolo di Dio affidato alla sua materna
sollecitudine, un modello ed un sostegno. Ella mostra ad esso la via
dell’accoglienza e del servizio della Parola, ed insieme il fine ultimo da non
perdere mai di vista: l’annuncio a tutti gli uomini e la realizzazione della
salvezza portata al mondo dal suo Figlio Gesù Cristo. Concludendo questa
Istruzione, la Congregazione per la Dottrina della Fede invita caldamente i
Vescovi a mantenere e a sviluppare con i teologi relazioni fiduciose, nella
condivisione di uno spirito di accoglienza e di servizio della Parola, e in una
comunione di carità, nel cui contesto si potranno più facilmente superare alcuni
ostacoli inerenti alla condizione umana sulla terra. In tal modo tutti potranno
essere sempre di più servitori della Parola e servitori del Popolo di Dio,
perché questo, perseverando nella dottrina di verità e di libertà udita fin
dall’inizio, rimanga anche nel Figlio e nel Padre, e ottenga la vita eterna,
realizzazione della Promessa (cf. 1 Gv 2, 24-25). Il Sommo
Pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell'Udienza concessa al sottoscritto
Cardinale Prefetto, ha approvato la presente Istruzione, decisa nella riunione
ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.
Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 24 maggio
1990, nella solennità dell’Ascensione del Signore.
+ Joseph Card. RATZINGER Prefetto
+ Alberto BOVONE Arcivescovo tit. di Cesarea di Numidia
Segretario
[3] Cf.
S. BONAVENTURA, Prooem.in I Sent., q. 2, ad 6: «quando
fides non assentit propter rationem, sed propter amorem eius cui
assentit, desiderat habere rationes».
[5] Cf.
Conc. Vaticano I, Costit. dogm. De fide catholica, De revelatione,
can.1: DS 3026.
[14] Cf.
Professio Fidei et Iusiurandum fidelitatis: AAS 81 (1989) 104s:
«omnia et singula quae circa doctrinam de fide vel moribus ab eadem
definitive proponuntur».
[15] Cf.
Costit. dogm.
Lumen Gentium, n.25; CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA
DELLA FEDE, Dich.
Mysterium Ecclesiae, nn.3-5: AAS 65 (1973)
400-404; Professio fidei et Iusiurandum fidelitatis: AAS 81
(1989) 104s.
[19] Cf.
Costit. dogm.
Lumen Gentium, n. 22-23. Come è noto, a seguito
della seconda Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei Vescovi,
il Santo Padre ha affidato alla Congregazione dei Vescovi l’incarico di
approfondire lo «Status teologico-giuridico delle Conferenze
Episcopali».
[21] Cf.
C.I.C. can.833; Professio fidei et Iusiurandum fidelitatis: AAS
81 (1989) 104s.
[22] Il
testo della nuova Professione di fede (cf. nota 15) precisa l’adesione a
questi insegnamenti in questi termini: «Firmiter etiam amplector et
retineo...»
[27]
L'idea di un «magistero parallelo» dei teologi in opposizione e in
concorrenza con il magistero dei Pastori si appoggia talvolta su alcuni
testi in cui San Tomaso d’Aquino distingue fra «magisterium cathedrae
pastoralis» e «magisterium cathedrae magisterialis» (Contra
impugnantes, c.2; Quodlib. III, q.4, a.1 (9); In IV Sent.
19, 2, 2, q.3 sol.2 ad 4). In realtà questi testi non offrono alcun
fondamento a questa posizione, perché San Tomaso è assolutamente certo
che il diritto di giudicare in materia di dottrina spetta solo
all’«officium praelationis».
[30] Cf.
GIOVANNI PAOLO II, Encicl.
Redemptor Hominis, n.19: AAS 71 (1979)
308; Discorso ai fedeli di Managua, 4 marzo 1983, n.7: AAS 75
(1983) 723; Discorso ai religiosi a Guatemala, 8 marzo 1983, n.3:
AAS 75 (1983) 746; Discorso ai Vescovi a Lima, 2 febbraio 1985,
n.5: AAS 77 (1985) 874; Discorso alla Conferenza dei Vescovi belgi a
Malines, 18 maggio 1985, n.5: Insegnamenti di Giovanni Paolo II,
VIII, 1 (1985) 1481; Discorso ad alcuni Vescovi americani in visita
ad limina, 15 ottobre 1988, n.6: L’Osservatore Romano, 16
ottobre 1988, p.4.
[32] Cf.
la formula del Concilio di Trento, sess. VI, cap. 9: fides «cui non
potest subesse falsum»: DS 1534; cf. SAN TOMASO D’AQUINO, Summa
Theologiae, II-II, q.1, a.3, ad 3: «Possibile est enim hominem
fidelem ex coniectura humana falsum aliquid aestimare. Sed quod ex fide
falsum aestimet, hoc est impossibile».
[37] Cf.
GIOVANNI PAOLO II, Costit. Apost.
Sapientia Christiana, 15 aprile
1979, n.27,1: AAS 71 (1979) 483; C.I.C can.812.
[43] SAN
GIOVANNI DELLA CROCE, Salita al Monte Carmelo, II 22,3.
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