Luis F. Card. Ladaria, S.I. Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede FONDAMENTI E IMPLICAZIONI TEOLOGICHE DEL SACRAMENTO DELLA RICONCILIAZIONE Mercoledì, 4 dicembre 2019 «Anche noi dunque, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12,1-2a). L’autore della lettera agli Ebrei, così come san Paolo,[1] utilizza l’immagine della corsa per indicare la vita cristiana, una corsa che ha ben chiara la meta e che tiene fisso lo sguardo su Gesù. L’immagine della corsa, rispetto a quella del cammino, è più efficace, perché la corsa non ammette pigrizie, va condotta con entusiasmo, ha sotto gli occhi la direzione da imboccare. Soprattutto chiede di essere leggeri, di lasciare ciò che è di peso, ciò che rallenta, ciò che frena entusiasmo e slancio. Sempre l’autore della lettera agli Ebrei associa il peso che rallenta al peccato «che ci assedia». Il peccato, come resistenza a Dio, non solo frena la corsa, ma impedisce di partire, costituisce una gabbia che ci imprigiona, che ci circonda come assedianti che attendono la nostra resa, alimentando l’illusione che rimanendo chiusi nel castello del nostro egoismo e di una presunta autosufficienza possiamo essere al sicuro. La vittoria invece sta nel rompere l’assedio, nello spezzare le catene, nell’aprire la gabbia e uscire da noi stessi per andare verso Dio, che come Padre ricco di misericordia scruta l’orizzonte e ci viene incontro con il suo abbraccio di amore. La medicina della misericordia Lo slancio della corsa, frenato dal peccato, è liberato dalla misericordia di Dio, che la Chiesa celebra nel sacramento della Riconciliazione. I papi della seconda metà del XX secolo hanno invitato a mettere al centro della predicazione e della prassi ecclesiale la questione della misericordia. Basterebbe solo fare riferimento a Giovanni XXIII che, nel Giornale dell’anima, considerava la misericordia come l’appellativo più bello che possiamo assegnare a Dio.[2] Egli però non si limitò a considerazioni di carattere spirituale a livello personale, tradusse questa verità in metodo per il Concilio che si apprestava ad aprire. Nel noto discorso di apertura del Vaticano II, ricordando come la Chiesa si fosse sempre opposta con severità agli errori, indicò un nuovo approccio: «Ora tuttavia la sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità».[3] Teniamo presente qui il termine “medicina” associato a misericordia: la finalità è sempre la guarigione dall’errore, perché la misericordia non è tolleranza di ciò che separa da Dio, ma farmaco che vi riconduce. Giovanni Paolo II ha addirittura dedicato la sua seconda enciclica al tema della misericordia.[4] In essa, riconoscendo che la mentalità contemporanea sembra opporsi al Dio di misericordia, tendendo a emarginare dalla vita e dal cuore umano l’idea stessa di misericordia, egli ci ricorda che mediante la rivelazione di Cristo «conosciamo Dio anzitutto nel suo rapporto di amore verso l’uomo […]. In tal modo, in Cristo e mediante Cristo, diventa anche particolarmente visibile Dio nella sua misericordia, cioè ci mette in risalto quell’attributo della divinità, che già l’Antico Testamento, valendosi di diversi concetti e termini, ha definito “misericordia”. Cristo conferisce a tutta la tradizione vetero-testamentaria della misericordia divina un significato definitivo. Non soltanto parla di essa e la spiega con l’uso di similitudini e parabole, ma soprattutto egli stesso la incarna e la personifica. Egli stesso è, in un certo senso, la misericordia. Per chi vede in lui – e in lui la trova – Dio diventa particolarmente “visibile” quale Padre “ricco di misericordia”».[5] Il card. Ratzinger nell’omelia del 18 aprile 2005 all’inizio del Conclave riprendeva il tema: «Ascoltiamo con gioia l’annuncio dell’anno della misericordia: la misericordia divina pone un limite al male, ci ha detto il santo padre. Gesù Cristo è la misericordia divina in persona: incontrare Cristo significa incontrare la misericordia di Dio. Il mandato di Cristo è divenuto il mandato nostro attraverso l’unzione sacerdotale: siamo chiamati a prolungare – e non solo a parole, ma con la vita e con i segni efficaci dei sacramenti – l’anno di misericordia del Signore».[6] Divenuto papa con il nome di Benedetto XVI nella sua prima enciclica, Deus caritas est [7] ha approfondito il tema e in Caritas in veritate [8] lo ha declinato il relazione alle nuove sfide, ponendo l’amore, prima ancora che la giustizia, come principio fondamentale della dottrina sociale cristiana.[9] È con papa Francesco però che il tema è divenuto familiare a tutta la Chiesa. Possiamo dire che l’annuncio della misericordia di Dio, fin dalle sue prime parole, sia la cifra del suo pontificato, del suo magistero, dei suoi gesti. In modo particolare il Giubileo straordinario della Misericordia con la Bolla di indizione [10] e la Lettera apostolica alla sua conclusione,[11] facendo sintesi del costante insegnamento della Chiesa, ha esplicitato il senso della misericordia di Dio, il suo volto manifestatosi in Cristo, la sua esperienza nei gesti della Chiesa, in particolare nel sacramento della Riconciliazione. Un sacramento “inquieto” Il costante annuncio della misericordia non sembra però aver condotto il popolo di Dio a corrervi incontro con gioia attraverso il sacramento che Cristo Signore ha donato alla Chiesa per comunicare la grazia del suo perdono. In realtà, fin dalle origini, il sacramento della Riconciliazione si è mostrato un sacramento “inquieto”. Basterebbe pensare solo al variare, nel corso delle diverse epoche, delle sue forme storiche, ma anche all’incertezza della sua stessa denominazione. Il nome di un sacramento infatti ne precisa la natura e a volte orienta la prassi pastorale o è da essa orientato. Nel caso del quarto sacramento, quando per esempio viene indicato come «sacramento della confessione» si attesta una prassi pastorale incentrata sull’accusa dei peccati. Se il novus ordo, recuperando un termine tradizionale, lo chiama «sacramento della Penitenza», ricorre però anche al termine “Riconciliazione”: mentre si parla di Ordo Paenitentiae e si designa il sacramento con il nome di Penitenza, nei titoli delle tre diverse forme rituali proposte si introduce il termine riconciliazione (Ordo ad reconciliandos…).[12] Lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica alla domanda «Come viene chiamato questo sacramento?» non offre una risposta univoca. Dice infatti che viene chiamato sacramento della Conversione, della Confessione, del Perdono, della Riconciliazione e il titolo dell’art. 4 nel capitolo dedicato ai sacramenti di guarigione lo denomina «Sacramento della Penitenza e della Riconciliazione».[13] Possiamo dire che l’inquietudine che attraversa questo sacramento è un riflesso dell’inquietudine dell’uomo di fronte al mistero dell’iniquità, all’inclinazione al peccato, ai dubbi di fede che a volte annebbiano la fiducia nella misericordia di Dio. Riconoscere la presenza di Cristo In questa sede non siamo chiamati a rifondare il sacramento o a sciogliere tutte le questioni a esso connesse, è però importante ribadire una verità che delinea l’orizzonte di ogni sacramento, quindi anche di quello della Riconciliazione, espressa dalle parole della Costituzione liturgica conciliare Sacrosanctum Concilium: «Cristo è presente con la sua virtù nei sacramenti, al punto che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza».[14] I Padri del Concilio hanno voluto esprimere in questo modo il legame tra Cristo e i sacramenti illuminando la classica categoria scolastica della “istituzione” con quella più dinamica della presenza. Anche se la riflessione teologica sulla presenza reale di Cristo nei sacramenti non ha ancora conosciuto ampi sviluppi, vi sono però tentativi di lettura che, a partire dalla singolarità della presenza di Cristo nelle specie eucaristiche, individuano una presenza dinamica, che si attua nell’azione celebrativa:[15] Gesù Cristo è il celebrante principale per mezzo del ministro umano. L’origine dei sacramenti va dunque ricercata nella docilità della comunità cristiana all’azione di Cristo, per cui nello sviluppo della storia della salvezza la Chiesa non succede a Cristo come una tappa successiva che viene dopo Cristo, ma agisce in Cristo, nel suo Corpo, e Cristo agisce in lei in quanto Capo. I sacramenti allora, come afferma papa Francesco sono da considerare «il luogo della prossimità e della tenerezza di Dio per gli uomini; essi sono il modo concreto che Dio ha pensato per venirci incontro, per abbracciarci, senza vergognarsi di noi e del nostro limite. Tra i sacramenti, certamente quello della Riconciliazione rende presente con speciale efficacia il volto misericordioso di Dio: lo concretizza e lo manifesta continuamente, senza sosta».[16] Riconoscere la presenza di Cristo – volto della misericordia di Dio – nel sacramento della Riconciliazione rimanda alla consapevolezza che le parole «Io ti assolvo…» non sono pronunciate dal ministro solo “in nome” della SS. Trinità, come se egli agisse con una sorta di delega, ma sono le parole stesse di Cristo. Sono parole che giungono nella profondità del cuore del peccatore pentito così come sono giunte nel cuore della misericordia di Dio le parole del penitente che, confessando le proprie colpe ha manifestato la sua contrizione e ha innalzato il grido di dolore per i propri peccati invocando l’infinito amore del Padre. Nel sacramento della Riconciliazione i ministri della Chiesa si pongono nell’abisso dell’iniquità dell’uomo che si allontana da Dio, dalla quale non sono per nulla immuni, e contemporaneamente nella profondità della misericordia di Dio che, dalla Croce del suo Figlio, guarisce e dona nuova speranza. Più che in ogni altro sacramento quindi il ministero della Chiesa nella Riconciliazione è quello di custodire questo singolare rapporto tra Dio e l’uomo, un rapporto che si compie nell’intimità della coscienza di ciascuno, la quale prende voce e parola nella confessione delle colpe, proprio come la grazia che risana prende voce e parola nell’azione rituale. Il «sigillo sacramentale» La Chiesa, come è chiamata a custodire i sacramenti nella loro essenziale costituzione (sostanza), perché il dono di grazia, come la parola di Dio, è indisponibile a ogni manipolazione, così ha il compito di custodire con altrettanto rigore la coscienza del peccatore che ha reso manifesto il suo peccato per consegnarlo, tramite le mani del sacerdote, alla misericordia di Dio. Per questo motivo la tradizione ecclesiale ha sempre considerato inviolabile il segreto dovuto al contenuto della confessione, denominandolo «sigillo sacramentale». Oggi la questione del segreto legato alla confessione dei peccati non è sempre compreso nel suo fondamento teologico. Spesso infatti è assimilato al “segreto professionale” o al “diritto alla privacy” di cui spesso si parla, ma che altrettanto frequentemente è violato da singole persone, aziende, stati. Il segreto professionale, così come il diritto alla privacy, sono tutele di natura giuridica volte a proteggere il singolo o il rapporto fiduciale tra due o più persone che entrano in relazione per problematiche di natura professionale. È quindi un segreto regolato dalla legge e che la legge può modificare in vista di una superiore esigenza di bene comune. Basterebbe pensare alle leggi sulle intercettazioni telefoniche o ambientali nella lotta contro il terrorismo o le mafie. Di ben altra natura è il sigillo sacramentale della confessione. Per avere anche solo un’idea della forza di questo obbligo basterebbe citare le parole di un autore della fine del XVI secolo, che in un manuale sui sacramenti, destinato ai sacerdoti, scriveva: «Se la salvezza o la liberazione del mondo intero dovesse dipendere dalla rivelazione di un solo peccato, non lo si deve rivelare, anche se il mondo intero dovesse perire o essere distrutto; e persino nel caso in cui ciò dovesse servire per la liberazione di tutte le anime che sono nell’inferno dall’inizio del mondo, non lo si deve rivelare».[17] Alcuni secoli prima, il Concilio Lateranense IV prescrive non solo l’obbligo del fedele a confessare i propri peccati almeno una volta l’anno, ma enuncia anche quali sono gli obblighi del confessore: «Il sacerdote sia discreto e prudente; come un esperto medico versi vino e olio sulle piaghe del ferito, informandosi diligentemente sulla situazione del peccatore e sulle circostanze del peccato per capire con tutta prudenza quale consiglio dare e quale rimedio applicare, diversi essendo i mezzi per guarire l’ammalato. Si guardi assolutamente dal rivelare con parole, segni o in qualsiasi modo l’identità del peccatore; se avesse bisogno del consiglio di persona più prudente, glielo chieda con cautela senza alcun accenno alla persona: poiché chi osasse rivelare un peccato a lui manifestato nel tribunale della penitenza, decretiamo che non solo venga deposto dall’ufficio sacerdotale, ma che sia rinchiuso sotto rigida custodia in un monastero, a far penitenza per sempre».[18] I due testi citati, il primo di natura pastorale, il secondo di natura magisteriale convergono sull’assolutezza del sigillo sacramentale. Tutto ciò che è conosciuto attraverso la confessione sacramentale, sia che si tratti di peccati del penitente sia di eventuali spiegazioni complementari da questi fornite (circostanze di luogo e di tempo, il fine, i complici…), cade sotto il sigillo sacramentale, per cui al confessore non è consentito, mai e per nessuna ragione, «tradire anche solo in parte il penitente con parole o in qualunque altro modo»,[19] così come è proibito al confessore «far uso di conoscenze acquisite nella confessione con aggravio del penitente».[20] Proprio recentemente, in una riunione con dei collaboratori, Papa Francesco si è riferito allo scorretto uso che talvolta si dà del foro interno e foro esterno, citando l’esempio concreto di chi confessa e alla fine, dopo l’assoluzione, riprende nella conversazione dei temi di coscienza appresi qualche momento prima, considerandoli ormai di foro esterno. Sono situazioni inammissibili che gettano ombra su un ambito fondamentale del ministero sacro, per cui ha ribadito che il foro interno copre dall’inizio alla fine del colloquio, nel rispetto del sigillo sacramentale e, in generale, della coscienza dell’altro. Al riguardo, il Catechismo della Chiesa Cattolica è molto chiaro quando afferma: «Data la delicatezza e la grandezza di questo ministero e il rispetto dovuto alle persone, la Chiesa dichiara che ogni sacerdote che ascolta le confessioni è obbligato, sotto pene molto severe, a mantenere un segreto assoluto riguardo ai peccati che i suoi penitenti gli hanno confessato. Non gli è lecito parlare neppure di quanto viene a conoscere, attraverso la confessione, della vita dei penitenti. Questo segreto, che non ammette eccezioni, si chiama il “sigillo sacramentale”, poiché ciò che il penitente ha manifestato al sacerdote rimane “sigillato” dal sacramento».[21] Il Santo Padre Francesco, parlando del sacramento della Riconciliazione, ha ribadito con forza l’indispensabilità e l’indisponibilità del sigillo sacramentale: «La Riconciliazione stessa è un bene che la sapienza della Chiesa ha sempre salvaguardato con tutta la propria forza morale e giuridica con il sigillo sacramentale».[22] La qualità propria di indisponibilità del sigillo sacramentale proviene ex motivo iustitiae e, soprattutto, ex motivo religionis, trattandosi, nella celebrazione del sacramento della Penitenza, di un atto di culto. Il confessore che venisse meno al dovere di inviolabilità del sigillo sacramentale peccherebbe di ingiustizia nei confronti del penitente, che affida a lui la sua coscienza, e di sacrilegio nei confronti del sacramento stesso, venendo meno all’impegno di fedeltà a Cristo, in nome del quale egli agisce nell’esercizio del suo ministero.[23] La Chiesa custodisce con assoluta fermezza la santità del sigillo sacramentale, tutelando fortemente sia il bonum penitentis sia il bonum sacramenti, tanto da attribuire ai sacerdoti l’“incapacità” a rendere testimonianza in giudizio, relativamente a tutto ciò che essi abbiano appreso e conosciuto in ogni singola confessione sacramentale, anche nel caso in cui sia stato il penitente a chiedere la deposizione.[24] Confessione delle colpe: incontro con Cristo, volto della misericordia di Dio Come interpretare questo obbligo del segreto per il quale il confessore non potrà mai, per nessun motivo e in alcun modo rivelare anche solo parzialmente il contenuto della confessione? Non è nostra intenzione approfondire ora l’aspetto giuridico della questione, per il quale rimandiamo a puntuali contributi,[25] ma proporre alcune considerazioni di natura teologica. Per utilizzare i termini della filosofia del linguaggio di J. Searle [26] la nostra questione non si gioca sul versante delle regole regolanti, cioè di natura comportamentale, ma su quelle costitutive, che istituiscono la struttura portante e irrinunciabile dell’atto che si compie. Indubbiamente il sigillo sacramentale si pone su questo secondo livello. Prima ancora che tutelare la “buona fama” del fedele che confessa i propri peccati, il sigillo tutela l’alterità del gesto sacramentale, che è sempre atto di Cristo che si compie nell’azione rituale della Chiesa. Sono proprio gli elementi di natura rituale all’interno dei quali avviene la manifestazione delle colpe che connotano quest’ultima non come una confidenza che viene fatta a un amico o a una persona di fiducia, ma a Cristo stesso. La confessione delle colpe avviene dopo l’ascolto della parola di Dio, è infatti «la parola di Dio che illumina il fedele a conoscere i suoi peccati, lo chiama a conversione e gli infonde fiducia nella misericordia di Dio».[27] La precedenza data all’annuncio della misericordia e alla chiamata alla conversione attesta che la confessione dei peccati non è iniziativa del fedele che vuole “liberarsi la coscienza”, ma risposta all’appello di Cristo, presente nella sua parola:[28] «lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). Permeate di parola di Dio sono pure le formule di accoglienza che il sacerdote rivolge al penitente, attraverso le quali viene reso palese che è Cristo stesso che con amore accoglie chi si accosta con il cuore contrito: «Ti accolga con bontà il Signore Gesù, che è venuto per chiamare e salvare i peccatori. Confida in lui».[29] La confessione dei peccati non prevede testi specifici, ma la rubrica è altamente significativa: «Il sacerdote aiuta, se necessario, il penitente a fare una confessione integra, gli rivolge consigli adatti e lo esorta alla contrizione dei suoi peccati, ricordandogli che per mezzo del sacramento della Penitenza il cristiano muore e risorge con Cristo, e viene così rinnovato nel mistero pasquale. Gli propone quindi un esercizio penitenziale, e il penitente l’accetta in soddisfazione dei suoi peccati e per l’emendamento della sua vita. Il sacerdote procuri di adattarsi in tutto, sia nelle parole che nei consigli, alla condizione del penitente».[30] Qui non si tratta solo di fare un elenco di colpe, ma di entrare in una relazione che vede un continuo passaggio tra penitente e sacerdote: il penitente confessa le proprie colpe; il sacerdote lo aiuta, gli rivolge consigli adatti, lo esorta alla contrizione, gli propone un esercizio penitenziale; il penitente lo accetta in soddisfazione dei suoi peccati e si rende così consapevole di partecipare al mistero pasquale di Cristo, morendo al peccato e risorgendo alla vita di grazia. Qui si attua in mysterio l’incontro tra il penitente, attratto dalla misericordia di Dio, e Cristo stesso – volto di questa misericordia – «presente nella persona del ministro».[31] Non per nulla le formule di preghiera proposte per manifestare la contrizione sono permeate di Sacra Scrittura e mettono sulle labbra del penitente le parole di Davide dopo il suo peccato (Sal 50,4-5) o quelle del figlio minore della parabola del Padre misericordioso (Lc 15,18). Il penitente, pronunciando le stesse parole usate da millenni da Israele e dalla Chiesa, sperimenta che la sua storia di peccato e il perdono di Dio sono parte del grande dramma narrato dalle pagine della Bibbia e la storia della salvezza continua oggi nell’esistenza credente di chi accoglie la rivelazione di Dio «il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). Anche la conclusione del rito è caratterizzata dal rimando alla misericordia di Dio per la quale si rende grazie: «Ricevuta la remissione dei peccati, il penitente riconosce e confessa la misericordia di Dio e a lui rende grazie con una breve invocazione, tratta dalla Sacra Scrittura; quindi il sacerdote lo congeda in pace».[32] Ancora una volta, in questa sobria ritualità, sacerdote e penitente non pronunciano parole loro, ma fanno proprie le espressioni tratte dalla parola di Dio. Il congedo: «Il Signore ha perdonato i tuoi peccati. Va in pace», è un invito ad andare nella pace ridonata e accolta per annunciarla e condividerla: «Va’ in pace e annuncia le grandi opere di Dio, che ti ha salvato». Chi ha sperimentato la misericordia è permeato dal desiderio di offrirla.[33] Questi, seppur sintetici, riferimenti al rito sono sufficienti a farci comprendere che nel sacramento avviene un incontro tra persone, che eccede la dimensione puramente umana, avviene una relazione personale, che rimanda a una presenza non percepibile direttamente ai nostri sensi, ma da essi intuita e sperimentata grazie al linguaggio simbolico radicato nella Sacra Scrittura.[34] La coscienza: luogo in cui la voce di Dio risuona nell’intimità Vi è però un secondo aspetto da considerare. I Praenotanda del Rito della Penitenza affermano la necessità di far precedere alla confessione dei peccati «un esame accurato della propria coscienza»,[35] illuminato dalla parola di Dio,[36] da compiersi alla luce della misericordia di Dio. Il riferimento alla coscienza ci rimanda, come afferma il Concilio Vaticano II, al «nucleo più segreto e al sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità».[37] Notiamo l’insistenza delineata da alcune espressioni: nucleo più segreto, sacrario dell’uomo, solo con Dio, intimità. La coscienza è il luogo in cui l’uomo discorre con se stesso, si conosce e si gioca in dialogo con la propria libertà, che illuminata dalla parola di Dio, conduce a scelte morali orientate al bene.[38] È la coscienza che sprona, frena, accompagna, incalza, giudica, rimprovera. La coscienza morale del cristiano ha origine proprio dal dialogo con lo Spirito che la inabita (1Cor 3,16; Rm 8,11).[39] L’accusa dei peccati, preceduta dall’accurato esame della coscienza, costituisce quindi il prolungamento di quel dialogo intimo tra il fedele e lo Spirito che abita in lui. La coscienza, che rimprovera ed esorta, trova voce nel riconoscimento delle colpe commesse. Proprio la loro manifestazione attesta la docilità del credente alla voce dello Spirito, risuonata nella coscienza, e al tempo stesso l’incondizionata fiducia nella misericordia di Dio dalla quale scaturisce il perdono e la grazia di riprendere con rinnovato impegno la sequela di Cristo. Per questo motivo ogni violazione di questo «sacrario dell’uomo» non è solo un vulnus alla sua intimità e al diritto alla buona fama, come si esprime il Codice di Diritto Canonico, ma ancor più è un vulnus al mistero dell’intimo dialogo tra la libertà dell’uomo e l’azione dello Spirito Santo. Proprio questo fatto portava Pio XII ad affermare che: «La coscienza è, per dirla con una immagine tanto antica quanto degna, un άδυτον un santuario, sulla cui soglia tutti debbono arrestarsi; anche, se si tratta di un fanciullo, il padre e la madre. Solo il sacerdote vi entra come curatore di anime e come ministro del Sacramento della penitenza; né per questo la coscienza cessa di essere un geloso santuario, di cui Dio stesso vuole custodita la segretezza col sigillo del più sacro silenzio».[40] Grave è quindi il compito del sacerdote che entra con discrezione in questo santuario come ministro del perdono e non come giudice implacabile alla ricerca di reati da punire. Come insiste papa Francesco, i confessori devono essere autentico segno della misericordia del Padre, perché significa «partecipare alla stessa missione di Gesù ed essere segno concreto della continuità di un amore divino che perdona e che salva. Ognuno di noi ha ricevuto il dono dello Spirito Santo per il perdono dei peccati, di questo siamo responsabili. Nessuno di noi è padrone del Sacramento, ma un fedele servitore del perdono di Dio. Ogni confessore dovrà accogliere i fedeli come il padre nella parabola del figlio prodigo: un padre che corre incontro al figlio nonostante avesse dissipato i suoi beni. I confessori sono chiamati a stringere a sé quel figlio pentito che ritorna a casa e ad esprimere la gioia per averlo ritrovato […]. Non porranno domande impertinenti, ma come il padre della parabola interromperanno il discorso preparato dal figlio prodigo, perché sapranno cogliere nel cuore di ogni penitente l’invocazione di aiuto e la richiesta di perdono. Insomma, i confessori sono chiamati ad essere sempre, dovunque, in ogni situazione e nonostante tutto, il segno del primato della misericordia».[41] Concludendo Come sopra abbiamo affermato, l’intangibilità del sigillo sacramentale, recentemente ribadita da una Nota della Penitenzieria Apostolica,[42] è da collocarsi tra le “regole costitutive” del sacramento della Riconciliazione. Tale sigillo, come ha affermato con forza papa Francesco, «anche se non sempre compreso dalla mentalità moderna, è indispensabile per la santità del sacramento e per la libertà di coscienza del penitente; il quale deve essere certo, in qualunque momento, che il colloquio sacramentale resterà nel segreto della confessione, tra la propria coscienza che si apre alla grazia di Dio, e la mediazione necessaria del sacerdote. Il sigillo sacramentale è indispensabile e nessun potere umano ha giurisdizione, né può rivendicarla, su di esso».[43] La Chiesa stessa infatti non è padrona del sacramento, così come non lo sono i singoli sacerdoti. Essa è chiamata a essere custode del sacramento – «In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta» (2Cor 5,20) –, è chiamata a custodire con tutte le sue forze, fino al martirio, la priorità dell’azione di Dio nell’agire rituale dell’uomo, è chiamata a custodire ogni uomo e ogni donna in ciò che hanno di più intimo e sacro: la loro coscienza, luogo del mirabile incontro tra la libertà umana e l’azione dello Spirito Santo.
[1] Cfr.
1Cor 9,24-27;
Gal 5,7;
Fil 3,12.14;
2Tm 4,7.
[2] Cfr. Giovanni XXIII, Il giornale dell’anima e altri scritti di pietà, San Paolo, Cinisello Balsamo, p. 452.
[3] Giovanni XXIII, Discorso nella solenne apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II Guadet Mater Ecclesia, AAS 54 (1962), pp. 786-796 (Tr. it. in EV 1, p. [47]).
[4] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Dives in Misericordia, 30 novembre 1980, AAS 72 (1980), pp. 1177-1232.
[5] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Dives in Misericordia, 2, 30 novembre 1980, AAS 72 (1980), pp. 1180.
[6] J. Ratzinger, Omelia alla «Missa pro eligendo papa», AAS 97 (2005), p. 686.
[7] Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est, 25 dicembre 2005, AAS 98 (2006), pp. 217-252.
[8] Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, 29 giugno 2009, AAS 101 (2009), pp. 641-709.
[9] Cfr. W. Kasper, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – chiave della vita cristiana, Queriniana, Brescia 2012, p. 19.
[10] Francesco, Bolla di indizione del Giubileo straordinario della Misericordia, Misericordiae vultus, 11 aprile 2015, AAS 107 (2015), pp. 399-420.
[11] Francesco, Lettera apostolica Misericordia et misera, 20 novembre 2016, AAS 108 (2016), pp. 1311-1327.
[12] Cfr. E. Ruffini, Linee evolutive del magistero recente intorno alla penitenza, in AA. VV., Il quarto sacramento. Identità e forme storiche del sacramento della Penitenza, LDC, Leumann (Torino) 1983, pp. 51-82.
[13] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1423-1424. Analoga inquietudine caratterizza anche la collocazione del nostro sacramento nel settenario. Se la tradizione lo mette al quarto posto, dopo i sacramenti dell’iniziazione cristiana e quindi dopo l’Eucaristia, ora però in occidente, a causa della rottura dell’unità dell’iniziazione cristiana, la prassi lo colloca prima dell’Eucaristia in quanto il quarto sacramento (ora “terzo”) fa recuperare al battezzato la sua verità e il suo autentico rapporto con la Chiesa.
[14] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, 4 dicembre 1963, AAS 56 (1964), pp. 97-138, qui n. 7, p. 101 (= SC).
[15] Cfr. P. Caspani, La presenza di Cristo nei sacramenti, “La Scuola Cattolica”, 144 (2016), pp. 243-269. Cfr. anche J. M. de Miguel González, Presencia de Cristo en los sacramentos, in Asociación Española de Profesores de Liturgia, La presencia de Cristo en la liturgia, Grafite Ediciones S. L., Bilbao 2004, pp. 164-202.
[16] Francesco, Udienza ai partecipanti al corso promosso dalla Penitenzieria Apostolica, 12 marzo 2015.
[17] Martino Alfonso Vivaldo, Candelabrum aureum ecclesiae Dei, Apud Thomam Bozzolam, Brescia 1593, p. 167.
[18] DH 813-814.
[19] Codice di Diritto Canonico, can. 983.
[20] Codice di Diritto Canonico, can. 984.
[21] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1467.
[22] Francesco, Discorso ai partecipanti al XXX Corso sul Foro Interno organizzato dalla Penitenzieria Apostolica, 29 marzo 2019.
[23] Nell’ascoltare l’accusa dei peccati e nel prestare il perdono divino, il sacerdote confessore agisce in persona Christi, «il suo ministero è quello stesso di Cristo»: Rituale Romano, Rito della Penitenza, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1974 (= RP), n. 10.
[24] Cfr.Codice di Diritto Canonico, can. 1550 § 2, 2.
[25] Cfr. E. Miragoli, Il sigillo sacramentale, in E. Miragoli (ed.), Il sacramento della Penitenza. Il ministero del confessore: indicazioni canoniche e pastorali, Ancora, Milano 20152, pp. 151-168.
[26] Cfr. J. Searle, Speech Acts. An Essay in the Philosophy of Language, Cambridge University press, Cambridge 1969 (tr. it. Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, Boringhieri, Torino, 1976).
[27] RP 17.
[28] SC 7.
[29] RP 42 – terza formula.
[30] RP 44.
[31] SC 7.
[32] RP 20.
[33] «[La Chiesa in uscita] Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva». Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, AAS 105 (2013), pp. 1019-1137, qui n. 24, p. 1029.
[34] Cfr. SC 24.
[35] RP 6b.
[36] RP 24c.
[37] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et Spes, 7 dicembre 1965, AAS 58 (1966), pp. 1025-1120, qui n. 16, p. 1037.
[38] «La coscienza, innanzi tutto, è l’uomo che pensa se stesso; è il pensiero del pensiero; è lo specchio interiore dell’esperienza, della vita; ed è ordinariamente psicologica: l’uomo si sente, si ricorda, si giudica, discorre di sé con se stesso, si conosce. Ed in questo quadro interiore un risalto speciale acquista l’avvertenza circa l’uso della propria libertà, sia che esso preceda o segua l’atto, in un certo senso, creativo della volontà personale, cioè circa la esplicazione responsabile dell’uomo pensante e libero; e questa avvertenza si chiama la coscienza morale» (Paolo VI, Udienza generale, 2 agosto 1972). Cfr. anche Catechismo della Chiesa Cattolica, 1777-1778.
[39] Cfr. A. Fumagalli, L’eco dello Spirito. Teologia della coscienza morale, Queriniana, Brescia 2012.
[40] Pio XII, Radiomessaggio in occasione della “Giornata della famiglia”, 23 marzo 1952, AAS 44 (1952), p. 271.
[41] Francesco, Bolla di indizione del Giubileo straordinario della Misericordia, Misericordiae vultus, 11 aprile 2015, n. 17, AAS 107 (2015), p. 412.
[42] Penitenzieria Apostolica, Nota sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, 29 giugno 2019.
[43] Francesco, Discorso ai partecipanti al XXX Corso sul Foro Interno organizzato dalla Penitenzieria Apostolica, 29 marzo 2019.
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