Sessione Plenaria della 21 giugno 2013
«CREDERE IN DIO CHE SI È INCARNATO» di
S. Ecc.za Mons. Gerhard Ludwig Müller Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede
1) “Sono solo un uomo, / ho bisogno quindi di segni visibili, / il costruire scale di astrazioni mi stanca presto […] / Capisco però che i segni possono essere soltanto umani / Desta dunque un uomo, in un posto qualsiasi della terra […] / E permetti che guardandolo io possa ammirare Te”. Così scriveva Czeslaw Milosz - Premio Nobel per la letteratura nel 1980 - esprimendo una preghiera che ogni uomo, più o meno consapevolmente, può formulare nel segreto del suo cuore, in attesa di una rivelazione del Dio invisibile, del Mistero che in tutto opera ed a tutto soggiace. Ho voluto citare questo passo del noto poeta polacco per entrare direttamente in medias res: nulla come il fatto che Dio si renda così presente da essere “ammirato” è più desiderato ed atteso dalla ragione umana. Ciò significa che la ragione stessa è costitutivamente protesa alla rivelazione del Mistero. Tutta l’esistenza dell’uomo si raccoglie e si concentra in quest’attesa di rivelazione, che si documenta nelle domande più acute della sua ragione. Siamo “uomini”, cioè esseri bisognosi di “segni visibili”, e nello stesso tempo siamo vibranti di desiderium videndi Deum. Siamo esseri che si nutrono di cose visibili e tangibili e, nello stesso tempo, siamo sospinti dalla nostra stessa natura razionale in relazione con l’invisibile e inattingibile Mistero. “Chiuso fra cose mortali / anche il cielo stellato finirà / perché bramo Dio?”. Questo incisivo verso del poeta italiano Giuseppe Ungaretti ricorda che, benché confinati nel mondo del limite, ci troviamo, spesso nostro malgrado, proiettati dalla nostra stessa natura razionale oltre il confine di ogni limite. 2) La nostra ragione è inquieta ed in cerca di una dimora al di là di ogni termine. Perciò i Padri della Chiesa affermavano che pur collocata nel mondo, l’anima umana trova il suo “luogo” solo in Dio: locus animae Deus est (cf. GREGORIO MAGNO, Moralium Libri, IV, 33, 67). Affermazione che Tommaso d’Aquino riprende letteralmente nel suo trattato De duobus praeceptis caritatis (a. 5, de tertio) per spiegare che Dio è “luogo” per l’anima nel senso che Egli, come “praetiosa margarita”, è “riposo” (requies) e “gioia” (delectatio) per l’uomo. Per questo, lo stesso Tommaso non teme di argomentare che per l’uomo - il cui scopo ultimo è individuato nella perfecta beatitudo, cioè nella felicità - la Rivelazione di Dio è sommamente “conveniente”. Solo nella fruitio Dei, infatti, l’uomo può sperimentare quel bene che sostanzia di riposo e gioia il suo cuore. E affinché questa beatitudine non rimanesse confinata solo nell’aldilà, Dio stesso si è fatto uomo, perché l’uomo potesse gustare già in questa vita, grazie alla fede, una quadam praelibatio dei beni eterni. Tale è la somma convenienza dell’Incarnazione di Dio - del Verbum caro - evento con cui, ab ipso Deo homine facto, il Mistero invisibile rivela se stesso all’uomo. Nell’Incarnazione, Dio si fa uomo affinché secundum modum humanum l’uomo stesso possa rapportarsi, nella fede, con Lui. “Desta dunque un uomo, in un posto qualsiasi della terra […] / E permetti che guardandolo io possa ammirare Te”. Questo desiderio inscritto indelebilmente nel cuore dell’uomo, quindi presente nell’uomo di ogni luogo e tempo, trova risposta nell’evento del Verbum caro, evento di cui si fanno eco tanto la sensibilità esistenzialista contemporanea del poeta polacco Milosz, quanto il rigoroso realismo intellettuale del medievale Aquinate. Nella Summa contra Gentiles - un testo in cui è attento ad illustrare le admirabiles rationes della fede cristiana - confutando con ben ventisette solutiones le obiezioni formulabili al Verbum caro factum est, Tommaso asserisce che proprio perché l’uomo “ex sensibilibus et signa quaedam colligit veritatem”, Dio stesso si è reso a noi percepibile: “dum visibiliter Deum cognoscimus, in invisibilium amorem rapiamur” (IV, 54). Tale è la suprema “convenienza” della gratia Incarnationis, la quale è perciò definita da Tommaso come necessaria per la beatitudo dell’uomo (ibid.). Interessante è rilevare che in quest’opera, Tommaso considera l’evento del Verbum caro, anche non in diretto rapporto col peccato d’origine, bensì in funzione della humana beatitudo. Nell’Incarnazione, la veritas carnis di Gesù Cristo si offre all’attesa di ogni uomo, per natura indigente di felicità, affinché “unusquisque regenerari per Christum” (ibid.). Qui l’iniziativa caritatevole di Dio, grazie al fieri homo di Dio, si avvicina alla libertas arbitrii umana e sana l’inefficacia ad beatitudinem da cui il desiderio umano è ferito, aprendogli gratuitamente e già in questa vita, le vie verso la piena realizzazione di sé, alla qual cosa osta il peccato. La pienezza di vita per l’uomo, vale a dire la sua felicità, può dunque essere considerata la grande meta verso cui è orientata l’Incarnazione, meta che incontra libertà umana, da sempre protesa - consapevolmente o meno - ad essa. 3) Tommaso è ben consapevole che tale indigenza umana appartiene ad ogni generazione e ad ogni tempo, è cioè universale. Perciò il Verbum caro, benché situato ed avente inizio in un preciso luogo spazio-temporale, per rispondere efficacemente ad essa ed aprire universalmente la fruitio divinae bonitatis, necessitava di un “permanente” effectus. A partire da qui Tommaso, nella Summa contra Gentiles, sviluppa il suo pensiero sui sacramenta salutis. I sacramenti sono infatti il permanente effluxus con cui l’Incarnazione dispiega i suoi effetti: essi, come effectus Incarnationis, donano per fidem quella gratia Christi che rende l’uomo, di ogni tempo e luogo, “contemporaneo” all’evento del Verbum caro. Tale è l’interessante prospettiva che può essere individuata nella cristologia elaborata ivi dall’Aquinate. “Contemporaneità” è dunque la seconda parola con cui l’evento dell’Incarnazione ci invita a confrontarci, dopo la parola “beatitudine”. Se Dio si fa uomo in un momento preciso del tempo e dello spazio - che dona significato e sostanza di salvezza al tempo di ogni uomo - allora ogni uomo deve poter accedere in qualche modo a tale decisivo evento. Vi è un lemma greco nel Nuovo Testamento che ci introduce immediatamente in argomento: è la parola ephapax. Essa è stata tradotta in latino con il termine semel, il quale tuttavia non rende sempre la ricchezza del suo significato greco. Ephapax - presente in Rm 6, 10; 1 Cor 15, 6, e tre volte nella lettera agli Ebrei (7, 27; 9, 12; 10, 10) - viene utilizzato dal lessico neotestamentario per far riferimento, sostanzialmente, al sacrificio pasquale di Cristo. Esso significa letteralmente, nei passi in cui è impiegato, “una volta per tutte” ed esprime l’unicità irripetibile di quel sacrificio. Nel suo commento alla Lettera agli Ebrei, Tommaso in riferimento ad esso, scrive: “una oblatione consummavit, id est, perfecit, quod fecit reconciliando et coniungendo nos Deo tamquam principio, sanctificatos in sempiternum, quia hostia Christi, qui Deus est et homo, habet virtutem aeternam sanctificandi” (Ad Hebraeos 9, lectio 3). Il sacrificio di Cristo, pur essendo irripetibile, ha una aeterna virtus sanctificandi e può dunque dispiegare permanentemente i suoi effetti (virtutem aeternam). Infatti, attraverso di esso, Cristo, come Sacerdote eterno, offre permanentemente la sua vita (carnem), come occasione di salvezza per l’uomo, alla quale l’uomo può accedere mediante i sacramenti ed, in particolare, attraverso il sacramento dell’eucarestia, nel cui velamen quel sacrificio trova una particolare concentrazione ed efficacia: “Sicut enim sacerdos per velum intrabat in sancta sanctorum, ita si volumus intrare sancta gloriae, oportet intrare per carnem Christi, qui fuit velamen deitatis…Vel per velamen, id est, per carnem suam datam nobis sub velamento speciei panis in sacramento” (Ad Hebraeos 10, lectio 2). In questo sacramento, mediante l’attualizzazione del suo sacrificio pasquale, compiuto una sola volta (semel), Gesù Cristo risorto si rende presente all’uomo in modo permanente, tutte le volte che esso viene celebrato. Quindi si può affermare che l’Eucarestia, “prae ceteris sacramentis…totum mysterium nostrae salutis comprehenditur” (Summa Theologiae III, 83, 4). Nella Summa Theologiae, Tommaso sostanzia questo rendersi presente di Dio, in Cristo, attraverso il sacramento eucaristico, all’uomo di ogni tempo, con l’espressione verbale “repraesentatur” (Summa Theologiae III, 79, 7 et passim). È lo stesso verbo che verrà poi utilizzato dal Concilio di Trento per far riferimento al sacrificio di Cristo, compiutosi “una volta per tutte” (semel) sulla croce e poi affidato alla sua Chiesa, tramite il sacramento eucaristico, come memoriale (memoria) permanente della salvezza: “ut dilectae sponsae suae ecclesiae visibile…relinqueret sacrificium quo cruentum illud semel in cruce peragendum repraesentaretur eiusque memoria in finem usque saeculi permaneret” (Mansi XXIII, 128 D). Mediante l’Eucarestia, la presenza salvifica di Dio, si fa dunque vicina all’uomo, si rende ad esso “contemporanea” e, già in questa vita terrena, si offre come gratuito incontro all’attesa della ragione umana. La qual cosa fra l’altro, con semplicità ed efficacia, ci richiama anche la logica dei primi due capitoli del Catechismo della Chiesa Cattolica, i quali recitano che “L’uomo è «capace» di Dio” e che “Dio viene incontro all’uomo”. La libertà umana - ragione e volontà - è indigente di Dio e la libertà di Dio, da parte sua, con iniziativa gratuita “non cessa di attirare a sé l’uomo” (CCC 27) “inviando il suo Figlio prediletto, nostro Signore Gesù Cristo, e lo Spirito Santo” (CCC 50). Così Dio risponde in modo permanente a quel grido da Lui stesso inscritto permanentemente nel cuore umano: “Desta dunque un uomo, in un posto qualsiasi della terra / E permetti che guardandolo io possa ammirare Te”. Come ci ha richiamato Benedetto XVI nella sua Lettera di indizione dell’Anno della fede: “Tale esigenza costituisce un invito permanente, inscritto indelebilmente nel cuore umano, a mettersi in cammino per trovare Colui che non cercheremmo se non ci fosse già venuto incontro. Proprio a questo incontro la fede ci invita e ci apre in pienezza” (Lett. ap. Porta fidei, 10). 4) Un ultimo punto vorrei sviluppare in questa mia breve e schematica relazione. Se Dio si fa uomo in Gesù Cristo per rendersi permanentemente contemporaneo a ogni uomo, i luoghi e i modi di questa Rivelazione acquistano una particolare autorevolezza per la libertà umana. Laddove Dio si rende presente, tale evento si carica di un particolare interesse e di una esigenza di sequela per la stessa intelligenza umana, la quale - come abbiamo visto sopra - porta insita in sé l’esigenza di tale rivelazione. Possiamo allora affermare che, quando ciò accade, il donarsi di Dio all’uomo, proprio per la sua significatività e rilevanza, diviene “normativo” per la ragione. Tuttavia comprendiamo anche che, affinché questa affermazione non sia avvertita come una intollerabile pretesa della ragione o come un pericoloso attentato per la libertà del pensiero umano occorre porre chiaramente in luce, e la natura di Dio e la natura del pensiero umano. Nel dono di Gesù Cristo e del suo Spirito, Dio si auto-rivela come dono di Verità per l’uomo e come Via per giungere ad essa (cf. “Io sono la Via, la Verità e la Vita”, Gv 14, 6). Tale dono certifica dunque la ragione umana sia sull’esistenza della Verità, sia sulla possibilità stessa di giungervi. Gesù Cristo ed il Suo Spirito, che è “Spirito di Verità” (Gv 14, 16), offrono all’uomo la Verità e lo guidano verso la sua pienezza, che è integrale realizzazione della vita umana e accesso alla conoscenza dei significati ultimi dell’uomo stesso e del mondo. In questo senso, nulla come la verità rivelata nell’evento Gesù Cristo è in grado di avvincere la ragione umana e di rilanciarla in un inesausto cammino di conoscenza. Si tratta infatti di una verità che ci viene offerta non come una semplice idea o dottrina, bensì come dono Vivente e Personale, che interpella tutta la nostra libertà. Perciò, come ci ha ricordato Benedetto XVI: “Nessuno può dire: ho la verità – questa è l’obiezione che si muove – e, giustamente, nessuno può avere la verità”. In Cristo “è la verità che ci possiede, è qualcosa di vivente! Noi non siamo suoi possessori, bensì siamo afferrati da lei. Solo se ci lasciamo guidare e muovere da lei, rimaniamo in lei. Solo se siamo, con lei e in lei, pellegrini della verità, allora è in noi e per noi” (Omelia nella S. Messa a conclusione del Ratzinger Schülerkreis 2012). Nella Rivelazione di Dio, per gratia gratis data in Gesù Cristo e nel suo Spirito, la Verità si porge all’uomo non come sistema ideologico ma come luogo che interloquisce permanentemente con la libertà dell’uomo e come spazio capiente all’infinito. Essa è dono in cui inoltrarsi senza fine - come “pellegrini della Verità” - conquista dopo conquista, non solo con il pensiero ma con il coinvolgimento di tutta la vita. Infatti, il rapporto con la verità non può rimanere confinato in un gioco intellettuale che non coinvolge e che non compenetra e forma tutta l’esistenza. La verità, per sua natura, è performativa e, mentre ci introduce in sé, opera altresì per cambiarci e donarci una nuova forma. Ecco perché, nella vita cristiana, la parola “verità” viene spesso associata alla parola “novità”: essa è infatti in grado di attirare a sé l’uomo come “amore [che] introduce l’uomo ad una nuova vita” (Benedetto XVI, Lett. ap. Porta fidei, 6). Sempre la verità, quando è autentica, urge e invita ad un progresso, ad rinnovamento, cioè ad un cambiamento decisivo della vita umana, e ciò tanto più quando si tratta della Verità rivelata da Dio. Ed ecco in quale modo e con quali ragioni la Rivelazione di Dio diviene “normativa” - sempre interpellandola e mai imponendosi ad essa - per la libertà umana. Libertà che, a sua volta, è per natura orientata alla verità e resa inquieta dalla sua ricerca: “quid enim fortius desiderat anima quam veritatem?”, scriveva il grande pensatore Agostino d’Ippona (In Ioann., 26, 5). Per sua natura, l’uomo è sospinto alla ricerca della verità ed è inquieto finché non la trova. Così, per sua natura, la Verità che Dio ci rivela in Cristo invita permanentemente l’uomo a scoprirla e a non smettere mai di cercarla anche dopo averla trovata. Anzi, rivelandosi, Dio ci mostra che Lui stesso è la fonte di ogni autentica verità e che perciò ogni verità, da qualunque parte provenga, proviene da Dio (cf. Ambrosiaster, Ad Corinthios prima, XII, 3) e perciò possiede una speciale ed intrinseca autorità. Perciò si può affermare che “la verità non si impone che in forza della stessa verità” (Concilio Vaticano II, Dich. Dignitatis humanae, 1) Questa è la dinamica con cui la verità rivelata da Dio si porge alla libertà dell’uomo caricandosi di attrattiva e di cogenza, laddove la certezza che essa viene da Dio rafforza il movimento con cui la verità stessa “mette in gioco la libertà umana, sollecitandola ad un'adesione tale da coinvolgere gli aspetti fondamentali della vita” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale su alcuni aspetti dell'evangelizzazione, 4). Comprendiamo allora perché nella fede cristiana è indelebilmente iscritta l’esigenza della “sequela”. Laddove si manifesta la verità, ogni verità e in modo particolare la Verità rivelata da Dio, la libertà umana viene provocata ad una adesione che tende a coinvolgerla totalmente ed in modo decisivo. Tale è la “normatività” con cui il farsi uomo di Dio interpella l’uomo. Perciò nulla come l’evento dell’Incarnazione è in grado di porsi come avvenimento talmente significativo da essere foriero di novità e di orientamento per la vita umana. Esso è “incontro…con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est, 1). È avvenimento che rinnova tutta l’esistenza umana coinvolgendola in un cammino nella Verità e verso la Verità, la quale ci attira a sé come realtà che è sempre più grande di noi, che ci precede e ci eccede. Accade così che nella familiarità con Dio, che ci viene dischiusa attraverso la sua auto-Rivelazione, la vita dell’uomo ritrovi, insieme al sapore della Verità e della novità, anche il significato compiuto del suo stesso esistere nel mondo, senza la cui conoscenza, l’esistenza dell’uomo può dirsi ancora difettosa e incompleta. Dio non ci lascia soli, non ci abbandona a noi stessi. Egli stesso ci viene incontro e ci soccorre come il Buon Samaritano della parabola evangelica. Il Figlio di Dio non tollera che l’uomo rimanga abbandonato nel deserto della sua condizione umana: “Egli non può abbandonare l’umanità in una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo, per ritrovare la pecorella smarrita e inseguirla, fin sulla croce. La carica sulle sue spalle, [e la] porta…fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso…Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza” (Benedetto XVI, Omelia d’inizio pontificato). In tal modo, la desiderata ammirazione per il farsi carne di Dio in mezzo a noi - l’invocazione del poeta Milosz, da cui siamo partiti - diviene sorpresa grata e commossa del suo Amore per noi, diviene scoperta che “non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi…da Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con lui” (ibidem). Tale è il guadagno umano - la “convenienza” direbbe Tommaso d’Aquino - che, già in questa vita, proviene dalla fede nell’Incarnazione di Dio, dal dono del suo “farsi uomo” per noi.
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