PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI
SALUS ANIMARUM,
Nel ringraziare le Autorità accademiche e gli organizzatori di questo Convegno per il gentile invito fattomi, vorrei in limine tractationis farvi partecipi di un dubbio metodologico che mi è venuto quando cominciai a preparare questo intervento. Mi sono domandato: dovrei parlare della “salus animarum” in quanto supremo principio ispiratore della legislazione canonica oppure come principio essenziale per delimitare scientificamente la giuridicità propria del Diritto canonico? Voi sapete, infatti, con quale acutezza il Prof. Javier Hervada ha fatto la distinzione nei suoi “Colloqui propedeutici di Diritto Canonico”, tra la “salus animarum” come fine ultimo delle leggi canoniche e la “salus animarum” come criterio interpretativo supremo per la determinazione dell’iustum, della cosa giusta, fine proprio della scienza canonica, secondo i cultori del realismo giuridico[1]. Il dubbio però si è subito sciolto. La lettura completa del programma (in cui sono previste otto ponderose relazioni per un approccio scientifico-canonistico e interdisciplinare alla tematica del Convegno) e, d’altra parte, la natura stessa dei compiti affidati al Pontificio Consiglio che presiedo, mi portano ad offrire questo modesto contributo nel campo concreto della vigente legislazione canonica e, più specificamente, della “salus animarum” come principio ispiratore del nuovo “Corpus Iuris Canonici”, nei due successivi momenti della sua elaborazione e della sua interpretazione autentica.
La “Salus animarum”: clausola-limite oppure
Pochi giorni prima della clausura del Concilio Vaticano II, ebbe luogo nel Palazzo Apostolico Vaticano la solenne inaugurazione ufficiale dei lavori per la revisione del Codice di Diritto Canonico. Era il 20 novembre 1965[2]. Nessuno dei presenti – Membri, Consultori e Officiali dell’apposita Commissione Pontificia – dubitava che la “salus animarum”, la salvezza eterna delle anime, fosse non soltanto il fine della Chiesa ma anche il fine – almeno mediato, se non immediato – dell’intero ordinamento canonico. Lo aveva già insegnato S. Tommaso d’Aquino – “finis iuris canonici tendit in quietem Ecclesiæ et salutem animarum” –, ma anche S. Raimondo di Peñafort – “… adeo ut sola salus hominum, tanquam præcipuus finis iuris canonici, agnosci debeat” – e di seguito tanti altri “auctores probati”, tra cui Ivo di Chartres, F. Suárez, ecc.[3], fino al famoso “Discorso generale sull’ordinamento canonico” di Pio Fedele[4]. Tuttavia tra i Consultori della Commissione per la revisione del Codice era ancora vivo il dibattito sorto primariamente in seno alla scuola dogmatica italiana – Fedele, D’Avack, Ciprotti, Giacchi, ecc.[5] – circa la questione se la salus animarum fosse da considerarsi come “clausola–limite” imposta dal Legislatore nell’atto della produzione normativa e dell’attività interpretativa, oppure come assoluto principio informatore dell’intero ordinamento canonico. Mi sembra però che quel giorno – 20 novembre 1965 – fu lo stesso Legislatore, il Santo Padre Paolo VI, a superare in buona parte gli aspetti accademici del dibattito con le seguenti due affermazioni fatte per illuminare il lavoro che doveva compiere la Commissione Codificatrice: “Ius canonicum (…) omnino in animorum curationem contendit ut homines præsidio quoque nutuque legum veritatis et gratiæ Christi sint compotes ac sancte, pie, fideliter vivant, crescant, moriantur”. Una più chiara assimilazione tra la finalità salvifica della Chiesa e la finalità del Diritto canonico non poteva essere fatta. Ma subito dopo il Legislatore aggiunse: “… Scilicet ad hunc celsissimum finem spectat assequendum per Ecclesiam, quam ut rectis institutis ac normis componat ac dirigat, proxime ad ipsum ius canonicum pertinet”[6]. Vale a dire il fine immediato o prossimo del Diritto canonico – visto come ordinamento ma anche come scienza – è quello di comporre le sue norme e istituzioni in modo tale che siano indirizzate al supremo fine pastorale della salus animarum: cioè, a far sì che tutti i membri della Chiesa, i Christifideles, conoscano la grandezza della loro vocazione, vivano secondo le esigenze ascetiche ed apostoliche di questa dignità di figli di Dio e raggiungano così il fine per il quale sono stati creati e redenti: la visione beatifica nel Regno. Di fronte a queste affermazioni dello stesso Legislatore, per orientare i lavori che dovevano aggiornare la legislazione ecclesiastica alla luce anche dell’ecclesiologia del Concilio Vaticano II, è ovvio che nessuno poteva più parlare di confusione tra morale e diritto per il fatto che il principio supremo – “celsissimum finem” – della “salus animarum” fosse considerato e proposto come principio ispiratore e strutturale dell’intero ordinamento giuridico della Chiesa e, conseguentemente, del suo necessario aggiornamento. Anzi, come uno dei più noti Consultori della Commissione ebbe a dire, è proprio nell’operosità di questo principio anche a livello delle coscienze personali, dove trova fondamento l’obbligatorietà della norma canonica: “Non c’è dubbio – scrisse il compianto Pedro Lombardia – che, se non si distingue tra morale e diritto, non si può fare con serietà una scienza giuridica; ma si deve anche tenere presente che, se non si coglie la capacità di impegnare allo stesso tempo la coscienza e la condotta esterna quale caratteristica della norma, non è possibile capire il nucleo stesso dell’ordinamento giuridico della Chiesa. Se fissiamo la nostra attenzione sul complesso della ricca tradizione dottrinale canonica circa la Lex, allo scopo di metterne in risalto l’aspetto particolarmente significativo per il nostro proposito, non esiterei ad indicare l’idea secondo la quale la legge vincola il suddito che è tenuto a rispettarla. Bisogna obbedire alla norma canonica e questo dovere di sottomissione impegna tutta la vita del cristiano, la sua coscienza e la sua condotta esterna. In questa prospettiva, la norma appare come un cartello che indica il cammino della salvezza e come una misura degli atti dell’uomo, sia interni sia esterni, che anticipa in qualche modo l’esame di cui essi saranno oggetto nel Giudizio definitivo”[7]. A questo punto è ovvio che la Commissione Codificatrice dovette valutare e seguire il principio della “salus animarum” non solo come clausola-limite, per offrire cioè soluzioni normative atte a prevenire o reprimere situazioni peccati enutritivæ, ma anche e soprattutto come ratio e assoluto principio ispiratore dell’intero ordinamento canonico. È questa la ragione per cui il Legislatore ha voluto coronare il nuovo Codice di Diritto Canonico affermando nel suo ultimo canone che, nella Chiesa, sempre deve essere “suprema lex” la “salus animarum”[8]. Ed ha fatto questa solenne dichiarazione dopo aver affermato, in rapporto alla norma concreta del canone ma ciò vale anche per tutta la normativa codiciale, il dovere di applicarla “servata æquitate canonica”, quasi a sottolineare l’intima connessione esistente tra l’æquitas e la salus animarum nell’intero ordinamento canonico[9].
La « salus animarum » come fattore determinante
“Nell’esposizione del Diritto canonico ... si tenga presente il mistero della Chiesa, secondo la Costituzione dogmatica De Ecclesia”, così si espressero i Padri conciliari nel Decreto conciliare Optatam totius[10]. Ovviamente si doveva tener presente il più possibile questa direttiva non solo “in iure canonico exponendo”, ma soprattutto “in iure canonico recognoscendo”[11]. Questa sensibilità teologica, non è mai venuta meno nel lavoro dei Membri e Consultori della Commissione Codificatrice, consapevoli di occuparsi non di un diritto positivo puramente umano, bensì di un diritto che ha come fondamento lo ius divinum – ed è pertanto inserito nell’azione salvifica con la quale la Chiesa continua nel tempo la missione del suo divino Fondatore[12]. Il che significa, tra l’altro, che la struttura sacramentale e giuridica della Chiesa serve come mezzo per comunicare la grazia divina alla comunità di carità, di fede e di speranza che è il Popolo di Dio. Allo stesso tempo però la Commissione Codificatrice stabilì, nel primo dei suoi Principi direttivi, che la legge canonica, nel disciplinare la vita sociale della Chiesa adempiendo questa funzione strumentale al servizio della “salus animarum”, lo fa restando fedele a ciò che è: vera legge, con le sue esigenze di natura tecnica, metodologica e terminologica[13]. La giuridicità infatti della norma canonica è perfettamente compatibile con la sua natura intrinsecamente pastorale. Già allora si era ben consci degli abusi cui poteva portare, e di fatto ha portato, un’applicazione equivoca e retorica dell’aggettivo “pastorale” al Diritto canonico, come se il carattere pastorale fosse un’aggiunta – una specie di nuova veste o ritocco cosmetico – e non invece un elemento costitutivo essenziale. Perciò, la Commissione Codificatrice si preoccupò anche di ricordare in un’altro dei suoi Principi direttivi: “Pertanto l’ordinamento giuridico della Chiesa, le leggi ed i precetti, come i diritti ed i doveri che da essi derivano, devono essere in sintonia con il fine soprannaturale. Perché nel mistero della Chiesa il diritto ha come il carattere di sacramento o segno della vita soprannaturale dei fedeli, che ne traccia il cammino e la promuove”[14]. Possiamo comunque domandarci ora: ma quale è stata concretamente l’influenza del principio della “salus animarum” come fattore strumentale nel rinnovamento del Diritto della Chiesa? Quale è stata l’operosità di questo principio per superare le note contrapposizioni dialettiche tra carisma e norma canonica, tra Diritto canonico e corresponsabilità ecclesiale, tra spirito pastorale e ordinamento canonico? Senza pretendere minimamente di dare compiute risposte a queste domande, offrirò alcune brevi riflessioni personali. Senza dubbio il grande processo di rinnovamento avviato dal Concilio Vaticano II ha portato ad una nuova autocomprensione della legge canonica – e, perciò, ad una più approfondita comprensione del principio della “salus animarum” –, grazie soprattutto agli arricchimenti dottrinali di carattere ecclesiologico che hanno inciso profondamente – lo dimostra tutta la storia della nuova Codificazione canonica[15] – sulla completa riforma legislativa portata a felice termine, con la cooperazione dell’intero episcopato cattolico. Tra questi arricchimenti ecclesiologici, mi sembra doveroso ricordare almeno i seguenti: 1º. L’affermazione del principio della uguaglianza fondamentale di tutti i fedeli “quoad dignitatem et actionem communem” nell’edificazione del Corpo di Cristo (cfr. Lumen gentium, 32): cioè la loro comune dignità di figli di Dio rigenerati in Cristo e chiamati tutti alla santità, e la loro comune responsabilità di partecipare attivamente alla missione salvifica che Cristo ha affidato alla Chiesa. Essendo radicata nel Battesimo, questa uguaglianza fondamentale, che è stata oggetto di approfonditi studi[16] appare, certamente non come giustificazione dottrinale di una pretesa concezione democratica della Chiesa, ma come concetto basilare della “communio ecclesiastica”. Questa nozione fondamentale della comunione, che pervade l’intero nuovo Corpo legislativo della Chiesa, trova una primaria espressione nello statuto o condizione giuridica fondamentale dei “christifideles”, che precede ontologicamente le diverse condizioni giuridiche soggettive, sorte in base all’Ordine sacro e altri sacramenti nonché alle varie missioni canoniche, mandati o deputazioni gerarchiche per lo svolgimento di specifici offici, ministeri o funzioni ecclesiali. 2º. Lo sviluppo anche della dottrina sui carismi personali, con il riconoscimento della loro utilità e l’affermazione del diritto e dovere di esercitarli[17]. Ciò si è dimostrato di grande importanza per una migliore comprensione della dimensione sociale di quei “diversi doni gerarchici e carismatici” (Lumen gentium, 4) concessi dallo Spirito alla Chiesa. Si tratta di una tensione creativa all’interno del Corpo di Cristo, che – come ha spiegato lo stesso Legislatore – “può contribuire non solo allo sviluppo di una sana riflessione ecclesiologica, ma anche, in modo essenzialmente pratico, al buon funzionamento delle diverse strutture che consentono ai fedeli di rispondere alla loro vocazione soprannaturale e di partecipare pienamente alla missione della Chiesa”[18]. Lo Spirito Santo, infatti, anima della Chiesa ed essenza della Nuova Legge, come avevano già insegnato Sant’Agostino[19] e San Tommaso d’Aquino[20], non solo non esclude ma esige l’esistenza di un adeguato ordinamento visibile, istituzionale, giuridico[21]. Questa realtà dottrinale e, più concretamente, il riconoscimento che anche i legittimi carismi personali hanno un’incidenza nell’ambito del Diritto (per esempio, nel pieno riconoscimento del diritto associativo, nell’attiva partecipazione dei fedeli laici alla missione evangelizzatrice della Chiesa ecc.), danno una definitiva risposta alle tendenze antigiuridiche che contrapponevano carisma e istituzione e, più radicalmente, una Chiesa dei carismi ad una Chiesa del Diritto. 3º. La messa in rilievo dei diritti e doveri soggettivi fatta nel nuovo Codice, insieme alla dottrina conciliare sul carattere ministeriale (diaconia) della potestà dei sacri Pastori[22], ha richiamato anche la convenienza – che fu già accolta nei suoi Principi direttivi dalla Commissione per la riforma legislativa[23] – di introdurre anche nel Diritto canonico l’applicazione del principio di legalità nell’esercizio dell’autorità ecclesiastica, nel servizio appunto della “salus animarum”. Naturalmente questo principio va inteso nell’ordinamento canonico non nel senso civilistico e democratico di concretizzazione della sovranità popolare che, attraverso le camere (potere legislativo) controlla l’attività di governo, ma nel senso tecnico e morale di sottomissione dell’autorità alle norme del diritto “modo iure præscripto”[24] – nell’esercizio della propria potestà, anche esecutiva o amministrativa. Ciò per evitare – attesa la fallibilità della natura umana – tanto l’abuso di potere quanto – ciò che oggi costituisce un maggiore pericolo – l’atteggiamento rinunciatario e indolente nell’esercizio dell’autorità medesima, che è stata conferita da Dio per edificare non per distruggere o lasciare irresponsabilmente che altri distruggano[25]. A nessuno sfugge come questo arricchimento dottrinale e normativo sulla natura e l’esercizio dell’autorità nella Chiesa abbia svuotato di reale contenuto scientifico le annose critiche fatte al Diritto canonico da coloro che vedevano in esso uno strumento al servizio del potere assoluto o dell’arbitrio della Gerarchia, la quale – con una discrezionalità illimitata – agirebbe senza alcuna responsabilità giuridicamente esigibile. 4º. Altri fattori che hanno molto contribuito ad approfondire l’applicazione del principio della “salus animarum” sono stati – oltre all’aggiornamento e perfezionamento del diritto sacramentale – gli arricchimenti dottrinali sul “munus Petrinum”, sulla sacramentalità e collegialità episcopali, sui rapporti Chiesa universale–Chiese particolari e perfino sulla nozione stessa dell’officio ecclesiastico. Questi rilievi dottrinali hanno portato a notevoli sviluppi normativi del Diritto costituzionale e dell’organizzazione ecclesiastica, sempre nel contesto di una approfondita comprensione della “communio”, sia nell’ambito della Chiesa universale che all’interno delle Chiese particolari. Da notare, a questo proposito, che la riforma legislativa fu in queste materie assai facilitata da espliciti mandati e disposizioni normative contenuti negli stessi Decreti del Concilio. Si pensi alle molte determinazioni concrete sul Collegio episcopale, sulla Curia Romana, sul Sinodo dei Vescovi, sulle Conferenze episcopali, come pure sui Consigli presbiterali e pastorali, e così via. È vero che l’abbondanza di organismi e strutture di corresponsabilità ecclesiale e, per quanto riguarda i Vescovi, di cooperazione e di affetto collegali, potrebbero degenerare nel cosiddetto fenomeno dell’“assemblearismo ecclesiastico”, nella moltiplicazione cioè di riunioni troppo frequenti e forse non sempre veramente necessarie. Un tale fenomeno avrebbe inconvenienti pastorali non indifferenti, atteso anche l’obbligo di residenza intrinsecamente connesso agli offici ecclesiastici con “cura animarum”, specie nel caso dei Vescovi diocesani[26]. Ma si tratta ovviamente di una questione di prudenza di governo, la quale deve essere sempre primariamente attenta alla suprema legge del bene spirituale dei fedeli. 5º. Anche il retto sviluppo della dottrina sulla natura essenzialmente pastorale della norma canonica ha notevolmente contribuito allo sviluppo del principio che ci occupa. Si è insistito infatti nel sottolineare che questo carattere splende soprattutto nei criteri tradizionali della æquitas, della epikeia o della dispensa, con i quali la caritas pastoralis del legislatore, del giudice o dell’amministratore ecclesiastico manifesta una volontà di giustizia temperata dalla prudenza, dalla benignità e dalla comprensione verso le singole persone, sempre per il loro bene spirituale. Tuttavia lo spirito pastorale non si esaurisce in queste tradizionali peculiarità del Diritto canonico, ma lo si evidenza anche in molti altri aspetti della rinnovata legislazione ecclesiastica. Mi pare doveroso ricordarne alcuni: la positivizzazione giuridica – con la conseguente protezione e tutela – di molti diritti personali che formalizzano il diritto fondamentale dei fedeli di ricevere abbondantemente dai sacri Pastori – e non soltanto “ex caritate” ma “ex iustitia” – i beni spirituali della Chiesa, “præsertim ex verbo Dei et sacramentis”[27]; la riduzione al minimo delle leggi sulla nullità degli atti giuridici o sulla incapacità delle persone; la maggiore agilità dei processi salva la primaria esigenza pastorale della verità – e la notevole riduzione delle pene latæ sententiæ, e così via. Ma soprattutto direi che questo spirito pastorale appare particolarmente evidente nell’insieme di norme intese ad assicurare il compimento del servizio dei sacri Pastori in bonum animarum nel modo più efficace ed adeguato alle odierne necessità spirituali, apostoliche e missionarie. Sono, infatti, norme che cercano di snellire e di dare maggiore dinamismo a tutta l’organizzazione degli uffici ecclesiastici, e di stimolare e guidare – senza confusione di ruoli – l’attiva partecipazione di tutti i fedeli alla vita e alla missione del Popolo di Dio. Ben a ragione ha potuto affermare il Legislatore: “Se la Chiesa è un disegno divino – Ecclesia de Trinitate – le sue istituzioni, pur perfettibili, devono essere stabilite al fine di comunicare la grazia divina e favorire, secondo i doni e la missione di ciascuno, il bene dei fedeli, scopo essenziale della Chiesa”[28]. 6º. La profonda riflessione fatta, sia a livello di riforma legislativa che nella ricerca universitaria, non soltanto sui rapporti tra Teologia e Diritto canonico, ben oltre la considerazione di esso come “pars theologiæ practicæ”, ma sui rapporti esistenti tra il Diritto canonico e il Diritto divino: sia naturale – ciò che vale per ogni ordinamento giuridico, anche secolare – che positivo, contenuto cioè nella Sacra Scrittura e nella Tradizione. Si sa che c’è una notevole varietà di sfumature tra i canonisti nell’esporre la connessione tra Diritto divino e Diritto canonico: dalla netta inclusione del primo nel secondo, sic et simpliciter, alla considerazione del Diritto divino soltanto come elemento pre-giuridico (fondante ma estrinseco) del Diritto canonico. A me pare che si vada consolidando l’opinione secondo la quale, benché il disegno fondazionale di Cristo per la Chiesa sia in sé definitivo e immutabile, nelle diverse tappe storiche del pellegrinaggio del Popolo di Dio si è andato sviluppando, grazie al Magistero, la presa di coscienza dei contenuti concreti di tale disegno fondazionale e, conseguentemente, la necessità e le modalità della sua positivizzazione nell’ordinamento canonico. Necessità e modalità che vengono giustamente ispirate e orientate dal supremo principio della “salus animarum” tenendo anche conto – come si è fatto nel nuovo “Corpus Iuris Canonici” – delle concrete circostanze pastorali e sociologiche in cui si svolge l’attività legislativa. 7º. Va parimenti ricordata in rapporto al principio che ci occupa la dottrina sull’armonia tra la cattolicità e unità della Chiesa e la legittima varietà di Chiese particolari e rituali, come pure gli insegnamenti concreti del Decreto Orientalium Ecclesiarum circa il significato ecclesiale, la dignità e le benemerenze delle Chiese Orientali Cattoliche, nonché la necessaria conservazione del loro patrimonio spirituale, liturgico e disciplinare. Questi arricchimenti ecclesiologici e normativi hanno avuto un’influenza decisiva non soltanto nel rinnovamento del Diritto Orientale comune promulgato dalla Santa Sede fino al Concilio Vaticano II, ma soprattutto nell’impulso dato al completamento di tale Diritto, fino alla promulgazione nel 1990 del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, che è entrato a far parte – insieme al Codex Iuris Canonici ed alla Cost. Apost. Pastor Bonus – del nuovo Corpus Iuris Canonici della Chiesa Cattolica[29]. 8º. Infine, sembra doveroso anche accennare all’incidenza nell’ambito del Diritto canonico che hanno avuto sia le direttive sull’ecumenismo contenute nel Decreto conciliare “Unitatis redintegratio”, che la dottrina esposta nella Costituzione pastorale “Gaudium et spes” sulla legittima autonomia dell’ordine temporale e la conseguente legittima libertà del cristiano nelle cose temporali, inseparabile dalla necessaria fedeltà alla dottrina morale della Chiesa[30].
La « salus animarum » nel momento interpretativo della norma canonica
Poiché l’affermazione della “salus animarum” come principio informatore della legislazione della Chiesa non vuol dire affatto negare la giuridicità dell’ordinamento canonico, è logico che tale principio sia operativo anche nel momento interpretativo ed applicativo delle norme. I detentori della potestà esecutiva e giudiziaria nella Chiesa dovranno, perciò, tenere il massimo conto di tale principio sia per indagare e accertare la ratio di uno specifico testo legislativo, sia per interpretare e applicare le norme positive nel modo più corretto e più rispondente non solo alla lettera ma anche e soprattutto alla mens legislatoris, sia ancora per risolvere le eventuali antinomie tra le varie disposizioni di legge, e sia infine per supplire alle possibili lacune legislative nella regolamentazione di una determinata materia o nella risoluzione di un particolare caso pratico controverso. Tuttavia, oltre che in queste interpretazioni ed applicazioni della legge negli atti amministrativi e nelle sentenze giudiziali, è particolarmente necessario tener conto del principio della “salus animarum” nelle interpretazioni autentiche delle leggi universali della Chiesa, uno dei compiti affidati dal Legislatore al Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi. È, infatti, alla luce di questo principio supremo che vanno messi in atto i due aspetti essenziali della interpretazione autentica, e cioè: 1º) precisare quale sia stata la “mens” e la “voluntas Legislatoris”, vale a dire lo spirito e il cuore della norma che pulsa sotto la superficie visibile delle parole del testo legislativo; 2º) facilitare così l’adeguata incarnazione della legge nella realtà sociale sulla quale opera la missione salvifica della Chiesa. Mi sembra, anzi, di poter dire che questa sia la “ratio legis” della stessa normativa canonica tradizionale sulle regole o criteri della interpretazione[31]. Detta normativa, infatti, accanto alla regola primaria dell’interpretazione grammaticale, cioè della “verborum significatio in textu et contextu considerata”, ha posto anche la cosiddetta interpretazione logica che rimanda non soltanto agli eventuali luoghi paralleli, ma soprattutto alla finalità specifica e alle circostanze della legge – ciò che fa riferimento alla realtà ecclesiale e ai contenuti spirituali della norma – nonché soprattutto alla “mens Legislatoris”, la quale si dovrà dedurre sia dall’iter di elaborazione e approvazione definitiva della legge medesima che dalle eventuali dichiarazioni posteriori del Legislatore, talvolta fatte in forma di veri atti magisteriali. Ciò è avvenuto, per esempio, nell’ultimo discorso del Santo Padre alla Rota Romana sull’indissolubilità del matrimonio rato e consumato (cfr. can. 1141) e i limiti della potestà vicaria del Romano Pontefice[32]. Sempre alla luce del principio della “salus animarum” è stato detto, a ragione, che l’interpretazione della legge “deve essere fatta con realismo, senso della storicità e criterio teleologico”[33]. In merito a questi criteri vorrei fare qualche breve considerazione: 1) Per quanto riguarda il realismo dell’interpretazione, inteso come funzione di mediazione[34] o relazione tra norma giuridica e realtà sociale, mi sembra che oggi sia particolarmente necessario tener conto che ogni istituto o parziale realtà sociale regolata dall’ordinamento canonico si inquadra ovviamente in quella superiore e peculiare realtà che è la Chiesa di Cristo. Essa infatti ha, per volontà del suo Divino Fondatore, strutture costituzionali ed operative che la rendono una società “sui generis”, cui non possono essere applicate nei processi di interpretazione ed applicazione della legge principi ideologici ed organizzativi propri delle società politiche – democratiche o meno –, i quali sarebbero non soltanto equivoci dottrinalmente, ma anche incongruenti con l’identità e la giuridicità proprie della legge canonica e, pertanto, in ultima istanza, della “salus animarum”. È questa la “ratio” dei vari interventi del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi riguardo, per esempio, alla non ammissibilità dei consigli pastorali parrocchiali con voto deliberativo nei quali ai parroci rimarrebbe al massimo il diritto di veto. 2) In merito al secondo criterio interpretativo circa la storicità del diritto, e senza intendere minimamente entrare nella nota controversia sulla cosiddetta interpretazione evolutiva, vorrei soltanto ricordare il valore che ha lo sviluppo del Magistero ecclesiastico di fronte a nuovi problemi e questioni dottrinali e morali che hanno riflessi e corollari d’ordine giuridico e disciplinare. Infatti, proprio perché le strutture giuridiche della Chiesa hanno un sottofondo di dottrina, l’interprete della norma canonica deve tener accurato conto nei singoli casi di quale sia la dottrina ecclesiologica che il Legislatore del nuovo “Corpus Iuris Canonici” ha tradotto “in sermonem canonisticum”[35]. Di questa esigenza si è tenuto accurato conto, per esempio, in due interpretazioni riguardanti i Sacramenti: a) la primaria responsabilità del ministro della Penitenza nel decidere iusta de causa che la confessione si riceva nella sede confessionale “crate fixa instructa” (can. 964, § 2 CIC)[36]; b) la tutela della Santissima Eucaristia, nella quale lo stesso Cristo Signore è realmente presente, ciò che fa doverosamente entrare nel termine “abicere” (can. 1367 CIC e 1442 CCEO) qualsiasi azione con la quale vengano volontariamente e gravemente disprezzate le Sacre Specie[37]. Analogo criterio si è seguito nella Nota esplicativa del nostro Consiglio circa la “Assoluzione generale senza previa confessione individuale”[38]. Anzi, si dovrà anche tener conto degli eventuali sviluppi dottrinali del Magistero ecclesiastico. Si pensi, per esempio, agli insegnamenti della Santa Sede – allocuzioni del Romano Pontefice, istruzioni della Congregazione per la Dottrina della Fede – sulla “communio” nella Chiesa e i relativi rapporti Chiesa universale-Chiese particolari; oppure sull’inizio della vita e la natura dell’embrione umano. Proprio quest’ultimo insegnamento è stato alla base dell’interpretazione autentica del can. 1398 circa la nozione di aborto come “fetus occisio quocumque modo et quocumque tempore a momento conceptionis procurata”[39]. 3) Infine, per quanto concerne il criterio teleologico, il senso cioè e finalità della legge da interpretare, mi sembra di dover fare almeno una considerazione, e cioè: la necessaria fedeltà dell’interprete al carattere intrinsecamente pastorale della norma canonica, cosciente che tutto l’ordinamento giuridico del Popolo di Dio ha una funzione strumentale al servizio appunto dell’azione salvifica della Chiesa. Ciò significa, che così come nell’insegnamento del Diritto canonico non è sufficiente il solo metodo esegetico dei canoni, ma ci vuole anche la costruzione sistematica e scientifica che enuclea i principi e relazioni ed ordina le conoscenze acquisite, così pure sarebbe insufficiente – e spesso equivoca ed ingannevole – un’ermeneutica puramente esegetica dell’interpretazione dei testi legislativi. Voglio dire che l’esatta determinazione del significato tecnico-giuridico dei termini è certamente necessaria, ma questa precisazione deve essere fatta all’interno della più vasta comprensione del contesto normativo e della “salus animarum”. Per esempio, il dovere di residenza di un Vescovo diocesano – che ha motivato un intervento del nostro Pontificio Consiglio[40] – non si può comprendere e valutare nel suo senso pieno, se non è in ordine al completo e responsabile svolgimento del grave munus pastorale che egli ha ricevuto e che richiede un’approfondita conoscenza personale – diretta e sollecita – delle circostanze e problemi dottrinali e disciplinari della sua diocesi. Oppure, l’espressione “atto formale” che ricorre in più canoni del CIC non può essere interpretata mettendo l’accento unicamente sui soli requisiti di formalità degli atti giuridici, ma deve essere intesa e valutata anche alla luce della concreta finalità ecclesiale e dell’eventuale significato teologico dell’atto in questione: perché è ovvio che non si possono richiedere le stesse formalità per un contratto di compravendita che per l’atto di abbandono della Chiesa.
Conclusione
Mi sembra di dover concludere queste brevi riflessioni affermando che, riguardo all’ordinamento canonico esplicitato nel nuovo “Corpus Iuris Canonici”, la “salus animarum” non è stata una semplice clausola-limite ma bensì un assoluto principio ispiratore e direttivo, senza che perciò sia venuta meno la giuridicità delle norme canoniche. È stato così sia nella fase di produzione legislativa, grazie anche – come prima sottolineato – agli arricchimenti ecclesiologici apportati dal Concilio Vaticano II, che nell’attuale fase d’interpretazione ed applicazione delle leggi. Dopo aver espresso questa personale opinione – che ovviamente non pretende di avere nessun carisma di completezza o di assoluta correzione scientifica –, vorrei esprimere con tutta sincerità un augurio, sia come canonista che come Pastore, ed è questo: che siano finalmente superati gli atteggiamenti anti-giuridicisti ancora presenti in alcuni ambiente della comunità ecclesiale, che sia cioè superata la mancata comprensione della finalità salvifica e, pertanto, dell’efficacia pastorale della norma canonica. In altre parole, che essendo la “salus animarum” il principio determinante dell’ordinamento canonico, si riconosca doverosamente – anche a tutti i livelli del governo ecclesiastico – la reale capacità morale e pastorale della legge canonica di tutelare l’ordo Ecclesiæ, di contribuire cioè ad ordinare le condotte personali e le istituzioni secondo il disegno divino di salvezza.
Roma, 6 aprile 2000
Julián Herranz
[1] Cfr. Coloquios propedéuticos, Pamplona 1990, pp. 145 ss. [2] Cfr. Communicationes 1 (1969), pp. 38 ss. [3] Cfr. Enciclopedia del Diritto, Giuffré, Varese 1960, « Diritto Canonico », vol. 12, p. 873. [4] Padova 1941: cfr. soprattutto pp. 120–121. [5] Cfr. P. Fedele, o.c.; P.A. D’Avack, Corso di Diritto Canonico, Milano 1956, pp. 170-171; Enciclopedia del Diritto, cit. « Chiesa Cattolica », pp. 932-935; P. Ciprotti, Lezioni di Diritto Canonico. Parte generale, Padova 1943, pp. 2-3, 36; « Considerazioni sul “Discorso generale sull’ordinamento canonico” di Pio Fedele », in Archivio di Diritto Ecclesiastico, 3 (1941), pp. 462–466; O. Giacchi, « Diritto canonico e dogmatica giuridica moderna », in Annali dell’Università di Macerata, 12-13 (1939), pp. 155–195. [6] Communicationes 1 (1969), pp. 38. [7] « Norma y ordenamiento jurídico en el momento actual de la vida de la Iglesia », in La norma en el Derecho Canónico, atti del III Congresso Internazionale di Diritto Canonico, Pamplona 1979, vol. II, p. 854. [8] Can. 1752. [9] Cfr. O. Fumagalli Carulli, « Equità canonica », in Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. XII, Roma 1989, pp. 3-4. [10] N. 16. [11] Cfr. Paolo VI, « Discorso al Tribunale della S. Rota », 8 febbraio 1973: AAS 65 (1973), p. 85; « Discorso al II Congresso Internazionale di Diritto Canonico », 17 settembre 1973: AAS 65 (1973), pp. 453-457. [12] Cfr. Lumen gentium, 8. [13] Cfr. « Principia quæ Codicis Iuris Canonici recognitionem dirigant », n. 1, in Communicationes 1 (1969), p. 78. [14] « Principia…» cit., n. 3, p. 79. [15] Cfr., per esempio: AA.VV., Il nuovo Codice di Diritto Canonico. Aspetti fondamentali della codificazione post-conciliare, Bologna 1983; AA.VV., Perché un Codice nella Chiesa, Bologna 1984; AA.VV., Temas fundamentales en el nuevo Código de Derecho Canónico, Salamanca 1984; AA.VV., Struttura e dinamicità del nuovo Codice di Diritto Canonico, Bari 1985; AA.VV., La normativa del nuovo Codice, Brescia 1985; AA.VV., Le nouveau Code de Droit Canonique (The New Code of Canon Law), Actes du Ve Congrès international de Droit canonique, Ottawa 19-25 août 1984, 2 vol., Ottawa, Univ. Saint-Paul, 1986; R. Castillo Lara, « La communion ecclésiale dans le nouveau Code de Droit Canonique », in Studia Canonica 17 (1983), pp. 331-355; « Criteri di lettura e comprensione del nuovo Codice », in Apollinaris 56 (1983), pp. 345-369; J. Herranz, « Génesis del nuevo Cuerpo Legislativo de la Iglesia », in Ius Canonicum 23 (1983), pp. 491-526; Studi sulla nuova legislazione della Chiesa, Milano 1990, pp. 3-109; G. Thils, « Le nouveau Code de Droit Canonique et l’ecclésiologie de Vatican II », in Revue Théologique de Louvain 14 (1983), pp. 289-301; J. Beyer, « Le nouveau Code de Droit Canonique. Esprit et structures », in Nouvelle Revue Théologique 106 (1984), pp. 360-382, 566-583; J. Imbert, « Le Code de Droit Canonique de 1983 et le Droit Romain », in L’Année canonique 28 (1984), pp. 1-12; A. Casiraghi, « Il diritto di famiglia nel nuovo Codice di Diritto Canonico », in Il Diritto ecclesiastico e Rassegna di diritto matrimoniale 96 (1985), I, pp. 604-632; J. Otaduy, « Funciones del Código en la recepción de la legislación postconciliar », in Ius Canonicum 25 (1985), pp. 479-516; L. Pivonka, « The Revised Code of Canon Law: Ecumenical Implications », in The Jurist 45 (1985), pp. 521-548; M.D. Place, « A Theologian looks at the Revised Code al Canon Law », in The Jurist 45 (1985), pp. 259-274; S. Bwana, « L’impatto del nuovo Codice in Africa », in Concilium 22 (1986), pp. 460-468; E. Corecco, « Fondamenti ecclesiologici del nuovo Codice di Diritto Canonico », in Concilium 22 (1986), pp. 339-351; R. Voeltzel, « Une lecture protestante du nouveau Code de Droit Canonique », in Revue d’Histoire et Philosophie religieuses 66 (1986), pp, 109-121. [16] Cfr. tra gli altri, A. Del Portillo, Laici e fedeli nella Chiesa, Milano 1969, pp. 11-92; E. Retamal, La igualdad fundamental de los fieles en la Iglesia según la Constitución dogmática « Lumen gentium », Santiago de Chile 1980; J. Herranz, Studi sulla nuova legislazione della Chiesa, cit., pp. 38-45 e 205-240. [17] Cfr. Lumen gentium, 12; Apostolicam actuositatem, 3. [18] Giovanni Paolo II, « Discorso alla Canon Law Society of Great Britain and Ireland », 22-V-1992. Communicationes 24 (1992), p. 10. [19] Cfr. De spiritu et lettera, 21. [20] Cfr. Summa Theol., I-II, q. 106, a. 1. [21] Cfr. Giovanni Paolo II, « Allocuzione », 2 dicembre 1992, in L’Osservatore Romano, 3-XI-1992, p. 1. [22] Cfr. Lumen gentium, 24 e 27; Christus Dominus, 23; Gaudium et spes, 23 e passim. [23] Cfr. « Principia quæ … », cit., pp. 78 ss.: vedere specialmente i nn. 5 e 7 (esercizio della potestà ecclesiastica, tutela dei diritti soggettivi, distinzione di funzioni – legislativa, amministrativa e giudiziaria – e così via). [24] Cfr. CIC, can. 135. [25] Cfr. J. Herranz, « Autorità, libertà e legge nella comunità ecclesiale », in La Collegialità episcopale per il futuro della Chiesa, Firenze 1969, pp. 97-110; E. Molano, Introducción al estudio del Derecho Canónico y del Derecho Eclesiástico del Estado, Barcelona 1984, pp. 127 ss.; E. Labandeira, Tratado de Derecho Administrativo Canónico, Pamplona 1988, pp. 263 ss. [26] Cfr. CIC, cann. 395 e 410. [27] Cfr. CIC, can. 213. [28] Paolo VI, « Discorso ai partecipanti al II Congresso Internazionale di Diritto Canonico organizzato dalla “Consociatio Internationalis Iuris Canonici promovendo” », 17-IX-1973, in Communicationes 5 (1973), p. 126. [29] Cfr. Giovanni Paolo II, « Discorso per la presentazione del Codice dei Canoni della Chiese Orientali ai partecipanti all’VIII Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi », 25-X-1990, in Communicationes 22 (1990), p. 208. [30] Cfr. Gaudium et spes, n. 43 ; CIC, can. 227. [31] Cfr. CIC, can. 16 – corrispondente al can. 17 del CIC-1917 – e CCEO, can. 1498. [32] Cfr. L’Osservatore Romano, 22-I-2000, p. 7. [33] J. Hervada–P. Lombardia, « Introducción al Derecho Canónico », in Comentario Exegético al Código de Derecho Canónico, I, Pamplona 1996, p. 91. [34] Cfr., tra gli altri, G. Lo Castro, « Conoscenza e interpretazione del Diritto », in Il Diritto della Chiesa. Interpretazione e prassi, Città del Vaticano 1996, pp. 11-36. [35] Giovanni Paolo II, Cost. ap. Sacræ disciplinæ leges, 25 gennaio 1983: AAS 75 (1983), Pars II, p. X. [36] Cfr. AAS 90 (1998), p. 711. [37] Cfr. AAS 91 (1999), p. 918. [38] Cfr. « Assoluzione generale senza previa confessione individuale. Nota explicativa quoad can. 961 CIC. », Communicationes 28 (1996), pp. 177-181. [39] Cfr. AAS 80 (1988), p. 1818. [40] « Obbligo del Vescovo di risiedere in Diocesi. Nota explicativa quoad can. 395 CIC. », in Communicationes 28 (1996), pp.182-186.
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