PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVIDichiarazione sulla retta applicazione
Negli ultimi decenni hanno avuto luogo in diversi Paesi varie ordinazioni episcopali senza il mandato pontificio. Esse rompono la comunione con il Romano Pontefice e violano in maniera grave la disciplina ecclesiastica. Come ricorda il Concilio Vaticano II, se il Successore di Pietro rifiuta o nega la comunione apostolica, i Vescovi non possono essere assunti all’ufficio episcopale (cfr. Lumen gentium, 24). Trattandosi di una questione assai importante e delicata, la Santa Sede ha sempre prestato ad essa grande attenzione, adoperandosi in tutti i modi per impedire che avvengano consacrazioni episcopali illegittime. In tale contesto, il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi ha compiuto uno studio approfondito della problematica, connessa con la retta applicazione del can. 1382 del Codice di Diritto Canonico, con particolare riferimento alle responsabilità canoniche dei soggetti coinvolti in una consacrazione episcopale senza il necessario mandato apostolico. Frutto di tale studio è la Dichiarazione che si pubblica qui di seguito. 1. Il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi è stato sollecitato a chiarire alcuni particolari riguardanti la retta applicazione del can. 1382 CIC, in rapporto soprattutto con le responsabilità canoniche dei soggetti coinvolti in una consacrazione episcopale senza il necessario mandato apostolico. La questione, in quanto tale, non solleva dubbi di diritto propriamente tali, ma richiede soltanto talune delucidazioni utili all’adeguata conoscenza dei punti più salienti della norma penale e al modo in cui essa debba ritenersi applicabile ai casi concreti, tenendo conto delle circostanze personali dei soggetti che prendono parte alla commissione del delitto. 2. Come è noto, il can. 1321 definisce il delitto come la violazione esterna di una legge o di un precetto, gravemente imputabile per dolo o per colpa. Il canone aggiunge che, posta la violazione esterna, si presume l’imputabilità, salvo che non appaia altrimenti (can. 1321 § 3). Perché esista il reato è sufficiente che il reo sappia che sta violando una legge canonica; non è necessario che sappia che alla legge canonica è annessa una pena. Il can. 1382 CIC punisce con scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica il Vescovo che senza mandato apostolico consacra qualcuno Vescovo e anche quanti in questo modo ricevono l’ordinazione episcopale. Tale delitto viola la dottrina cattolica confermata, tra l’altro, dalla cost. dogm. Lumen gentium nn. 22 e 24 e dal decr. Christus Dominus n. 20, e accolta nel can. 377 § 1 CIC: «Il Sommo Pontefice nomina liberamente i Vescovi, oppure conferma quelli che sono stati legittimamente eletti», e nel can. 1013 CIC: «A nessun Vescovo è lecito consacrare un altro Vescovo se prima non consta del mandato apostolico». Il can. 1382 CIC è, anzitutto, una norma disciplinare della Chiesa che, come segnala il can. 11 CIC, vale unicamente per i battezzati nella Chiesa cattolica o per quanti in essa sono stati già accolti. Inoltre, corrisponde col reato tipizzato dal Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium nel can. 1459 § 2, anche se nella tradizione penale di quelle Chiese non esistono pene latae sententiae, per cui la stessa pena viene inflitta ferendae sententiae. 3. Il delitto sancito dal can. 1382 CIC è commesso sia dal Vescovo che consacra sia dal chierico che è consacrato. Inoltre, essendo quello della consacrazione episcopale un rito in cui è solita la partecipazione di più ministri, coloro che assumono detto compito di co-consacranti, e cioè impongono le mani e recitano la preghiera consacratoria nell’ordinazione (cfr. Caeremoniale Episcoporum nn. 582 e 584), risultano coautori del reato e quindi ugualmente sottoposti alla sanzione penale. Tale interpretazione risulta anche confermata dalla tradizione della Chiesa e dalla sua recente prassi. 4. Per quanto riguarda, invece, la punizione del delitto, la pena di scomunica prevista dal can. 1382 CIC è sottoposta alle comuni condizioni richieste dalla legge canonica perché si incorra in una sanzione latae sententiae effettivamente e con certezza. Com’è risaputo, oltre alle comuni sanzioni penali ferendae sententiae inflitte dall’Autorità legittima per mezzo di una sentenza o di un decreto a conclusione delle corrispondenti procedure penali, nell’ordinamento canonico vi sono anche le cosiddette pene latae sententiae, che non dipendono da un giudice esterno che le imponga, ma solo dal compimento del delitto, fatto salvo quanto è prescritto dal can. 1324 § 3. Quest’ultimo esime dalla specifica pena latae sententiae se si verificano circostanze che, a norma del § 1 dello stesso canone, pur non escludendo la pena in quanto tale, la mitigano. Il canone 1324 § 3, infatti, specifica che il reo non incorre nella pena latae sententiae se esiste una delle circostanze elencate nel can. 1324 § 1. Pertanto ciascun soggetto, nel caso di una consacrazione episcopale senza mandato apostolico, va considerato singolarmente e secondo le proprie circostanze personali per quanto attiene all’incorrere nella pena di scomunica latae sententiae riservata alla Santa Sede. Dette circostanze personali possono essere molto diverse e, in taluni casi, possono costituire circostanze attenuanti previste dalla legge. Al riguardo, il can. 1324 § 1 CIC segnala che l’impeto passionale, la minore età, il timore grave, anche soltanto relativamente tale, la necessità, l’ingiusta provocazione, o l’ignoranza della pena canonica, per esempio, sono circostanze attenuanti che escludono la pena latae sententiae nelle forme indicate dalla legge. Poche di queste circostanze possono essere configurabili nel reato di consacrazione senza mandato. C’è, però, un insieme di attenuanti delineate dal can. 1324 § 1, 5° CIC che la storia ha dimostrato compatibili con delitti di questa natura: quando la persona, che commette il delitto come ordinante o come ordinato, è «costretta da timore grave, anche se soltanto relativamente tale, o per necessità o per grave incomodo». Nel concreto caso di una consacrazione episcopale senza mandato, l’attenuante del timore grave o del grave incomodo (o l’esimente della violenza fisica) va, dunque, verificata in merito a ciascuno dei soggetti che intervengono nel rito: i ministri consacranti e i chierici consacrati. Ciascuno di loro conosce in cuor suo il grado del personale coinvolgimento e la retta coscienza indicherà a ognuno se è incorso in una pena latae sententiae. 5. In merito alle responsabilità canoniche dei soggetti coinvolti in una consacrazione episcopale senza il necessario mandato apostolico va comunque aggiunto quanto segue. Porre esternamente un atto punito dal can. 1382 CIC provoca spontaneamente nei fedeli delle reazioni, anche di scandalo e di confusione, che in nessun modo possono essere sottovalutate e che postulano — nei Vescovi coinvolti — la necessità di ricuperare autorevolezza mediante segni di comunione e di penitenza, che possano essere apprezzati da tutti e senza i quali il governo pastorale del Vescovo «difficilmente potrebbe essere recepito dal Popolo di Dio come manifestazione della presenza operante di Cristo nella sua Chiesa» (Pastores gregis n. 43). Essi, infatti, come insegna il Concilio Vaticano II, reggono le Chiese particolari loro affidate «con il consiglio, la persuasione, l’esempio» (cost. dogm. Lumen gentium n. 27; cfr. can. 387 CIC). Inoltre, si ricorda che il can. 1331 § 1 CIC segnala che, allo scomunicato, è proibito: 1) prendere parte come ministro alla celebrazione dell’Eucaristia o di qualunque altra cerimonia di culto pubblico; 2) celebrare sacramenti e sacramentali e ricevere qualunque sacramento; 3) esercitare funzioni ministeriali ecclesiastiche e porre atti di governo. Queste proibizioni scattano ipso iure dal momento stesso in cui si incorre in una pena latae sententiae. Non occorre perciò che intervenga alcuna Autorità che imponga al soggetto dette proibizioni: la consapevolezza del proprio delitto è sufficiente perché chi è incorso nella sanzione sia tenuto davanti a Dio ad astenersi da tali atti, pena la commissione di un atto moralmente illecito e pertanto sacrilego. Tuttavia, anche gli atti derivanti dalla potestà di ordine e realizzati nelle succitate circostanze di sacrilegio sarebbero validi. 6. Com’è ovvio, tutto quanto precede non esclude che, nei casi di ordinazione episcopale senza mandato pontificio, la Santa Sede possa trovarsi nella necessità di infliggere direttamente al soggetto delle censure, per esempio, qualora dalla sua condotta successiva o dalla sua riluttanza a fornire le necessarie spiegazioni circa il proprio grado di partecipazione al delitto emergesse un atteggiamento non compatibile con le esigenze della comunione. Inoltre, sopraggiunte nuove e certe informazioni, la stessa Santa Sede potrebbe addirittura trovarsi nella necessità di dichiarare la scomunica latae sententiae, o di imporre altre sanzioni o penitenze, se ciò si rendesse necessario per riparare lo scandalo, per dissipare la confusione dei fedeli e, più in generale, per salvaguardare la disciplina ecclesiastica (cfr. can. 1341). La pena della scomunica latae sententiae stabilita dal can. 1382 CIC è una censura riservata alla Santa Sede. In quanto censura, è una pena detta «medicinale», perché ha per finalità muovere il reo al pentimento: una volta che ha dimostrato di essersi sinceramente pentito, questi acquista il diritto di essere assolto dalla scomunica. Inoltre, essendo riservata alla Santa Sede, solo ad essa può rivolgersi il reo pentito per ottenere l’assoluzione dalla scomunica, riconciliandosi con la Chiesa. Dal Vaticano, 6 giugno 2011
Francesco Coccopalmerio Presidente
|
|