INTERVENTO DELLA SANTA SEDE ALLA 53ª SESSIONE DELLA COMMISSIONE DELL'ECOSOC SULLA CONDIZIONE DELLE DONNE DISCORSO DI S.E. MONS. CELESTINO MIGLIORE, OSSERVATORE PERMANENTE DELLA SANTA SEDE PRESSO L'ORGANIZZAZIONE DELLE NAZIONI UNITE* Lunedì, 9 marzo 2009 Signor Presidente, la mia delegazione plaude alla scelta di un tema così importante e opportuno per questo dibattito: l'equa condivisione, fra uomini e donne, di responsabilità, inclusa l'assistenza nel contesto dell'Aids/Hiv. Considerare l'assistenza un aspetto fondamentale della vita umana ha implicazioni profonde. L'assistenza presuppone programmi, politiche, decisioni relative al bilancio così come un'inclinazione e un impegno personali per il benessere degli altri. La correlazione fra attività e attitudine personale è evidente, ma non sempre presupposta. Gli esseri umani non sono solo creature autonome e uguali, ma anche interdipendenti, che possono aver bisogno di cure indipendentemente dalla loro condizione sociale e dalla fase della vita in cui si trovano. Concentrarsi sull'assistenza e sulla condivisione di responsabilità fra uomini e donne nell'affrontare questioni urgenti quali la prevenzione e il trattamento dell'Aids/Hiv, l'accudimento dei bambini, i lavori domestici e il sostegno ai famigliari anziani, ci porta a ritenere che il rapporto fra uomini e donne nella società sia interdipendente. Il superamento del dilemma fra autonomia e dipendenza promuove anche una nuova visione dell'opera assistenziale che non può più essere delegata solo a certi gruppi, come alle donne e agli immigrati, ma deve anche essere condivisa da tutti gli uomini e da tutte le donne, a casa e nel settore pubblico. In particolare, diviene sempre più insostenibile la persistenza di atteggiamenti e luoghi, anche in ambito sanitario, in cui le donne vengono discriminate e il loro contributo alla società viene sottovalutato semplicemente perché sono donne. È inaccettabile il ricorso alla pressione sociale e culturale al fine di mantenere l'ineguaglianza fra i sessi. Signor Presidente, poiché il nostro dibattito è incentrato principalmente sulla condivisione fra uomini e donne di responsabilità e dell'assistenza nel contesto dell'Aids/Hiv, il primo pensiero va al significato primario e più esatto di assistenza, ossia il prendersi cura, il proteggere e il promuovere il benessere degli altri. In questo contesto, l'Hiv/Aids mette in dubbio i valori in base ai quali viviamo e il modo in cui trattiamo, o non trattiamo, gli altri. Un'assistenza comunitaria e un sostegno mondiale a quanti sono colpiti da questa malattia restano essenziali. Quella domiciliare è il tipo di assistenza preferita in molti ambienti sociali e culturali, e spesso è la più sostenibile e riuscita a lungo termine, quando ha una base comunitaria. Infatti, quando numerosi membri di una comunità si impegnano nell'assistenza e nel sostegno, la stigmatizzazione legata a questa malattia si verifica con minori probabilità. Purtroppo, questo tipo di assistenza domiciliare e comunitaria è ampiamente disconosciuta e molti di quelli che vi si impegnano affrontano situazioni economiche precarie. Infatti ricevono una parte minima dei fondi investiti ogni anno nell'assistenza ai malati e nella ricerca tanto necessaria a combattere questa malattia. Alcuni studi hanno dimostrato che gli operatori domiciliari e comunitari sono di fatto molto più stressati del personale medico; quindi è necessario un sostegno migliore per queste persone, in particolare donne e anziani che svolgono quest'opera. La mia delegazione desidera anche esaminare attentamente alcuni aspetti della globalizzazione dell'assistenza che riguardano in particolare le donne povere e immigrate. Nelle società caratterizzate da importanti trasformazioni demografiche, sistemi familiari, occupazionali e assistenziali inadeguati, le immigrate soddisfano la necessità di accudire i figli, i malati, persone gravemente invalide e anziane. In molte parti del mondo, è sorto un vero e proprio mercato nell'area dell'assistenza domiciliare, in cui soprattutto le donne vivono situazioni di vulnerabilità a causa della mancanza di regolarizzazione, dell'isolamento sociale, di condizioni lavorative difficili e, a volte, di ogni tipo di sfruttamento. I governi dovrebbero riconoscere in modo adeguato che il bilancio e l'organizzazione delle istituzioni pubbliche vengono in qualche modo alleggeriti dall'assistenza domiciliare e quindi dovrebbero adottare norme di immigrazione che garantiscano l'integrazione sociale e la piena tutela degli operatori immigrati. Parimenti, sostenere una corretta formazione professionale che offra agli operatori domiciliari una conoscenza medica e psicologica di base potenzierebbe la loro inestimabile attività e li tutelerebbe da tipi di sfruttamento facili e riprovevoli. I Paesi in via di sviluppo soffrono per la fuga dei cervelli poiché molte persone istruite, capaci e abili, in particolare nel settore medico, emigrano in Paesi ricchi alla ricerca di migliori opportunità economiche. Le forze di mercato ne hanno la colpa, ma questa è un'area in cui i Paesi di origine, di transito e di destinazione devono cooperare per aiutare i Paesi in via di sviluppo a trattenere, o almeno a riammettere, questi membri abili della loro forza lavoro, fornendo incentivi al loro riconoscimento e una loro migliore remunerazione cosicché possano più facilmente rimanere nel proprio Paese d'origine. Infine, signor Presidente, troppe culture sostengono che l'assistenza debba essere limitata alla sfera privata e fornita in ambito domestico. L'assistenza stessa deve divenire tema di dibattito pubblico e assumere un'importanza in grado di plasmare la vita politica e di rendere uomini e donne maggiormente capaci di interessarsi alle necessità degli altri, essere più empatici e in grado di concentrarsi sugli altri. In questo senso l'assistenza può avviare un processo di democratizzazione della società e promuovere una sensibilità pubblica per una giustizia e una solidarietà sociali reali per tutte le donne e per tutti gli uomini. Grazie, signor Presidente.
*L’Osservatore Romano, 12.3.2009, p.2. |