INCONTRO CON I SACERDOTI DELLA DIOCESI
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Cappella Palatina della Reggia di Caserta
Sabato, 26 luglio 2014
(Mons. D’Alise, Vescovo di Caserta)
Santità, non ho preparato niente di scritto perché ho capito subito che Lei vuole un rapporto intimo e profondo con i sacerdoti. Quindi io Le dico: benvenuto. Questa è la nostra Chiesa, i sacerdoti e poi andremo a vedere il resto della Chiesa, mentre celebreremo l’Eucaristia. Per me questo momento è importante, perché sono due mesi che sono qui, e incominciare questo episcopato con la Sua presenza e la Sua benedizione per me è una grazia nella grazia. E adesso aspettiamo la Sua parola. Sapendo che Lei desidera un dialogo, i sacerdoti hanno anche preparato per Lei delle domande.
(Santo Padre)
Ho preparato un discorso, ma lo consegnerò al Vescovo. Grazie tante dell’accoglienza. Grazie. Sono contento e mi sento un po’ colpevole di avere combinato tanti problemi nel giorno della festa patronale. Ma io non sapevo. E quando ho chiamato il Vescovo per dirgli che volevo venire a fare una visita privata, qui, ad un amico, il pastore Traettino, lui mi ha detto: “Ah, proprio il giorno della festa patronale!”. E subito ho pensato: “Il giorno dopo sui giornali ci sarà: nella festa patronale di Caserta il Papa è andato dai protestanti”. Bel titolo, eh? E così abbiamo sistemato la cosa, un po’ in fretta, ma, mi ha aiutato tanto il Vescovo, e anche la gente della Segreteria di Stato. Ho detto al Sostituto, quando l’ho chiamato: “Ma, per favore, toglimi la corda dal collo”. E l’ha fatto bene. Grazie per le vostre domande che farete, possiamo incominciare; si fanno le domande e io vedo se possiamo accorparne due o tre, altrimenti rispondo ad ognuna.
D. - Santità, grazie. Sono il vicario generale di Caserta, don Pasquariello. Un grazie immenso per la sua visita qui a Caserta. Vorrei presentare una domanda: il bene che Lei sta portando nella Chiesa cattolica con le sue omelie quotidiane, i documenti ufficiali, specialmente l’Evangelii Gaudium, sono improntate soprattutto sulla conversione spirituale, intima, personale. E’ una riforma che impegna, secondo il mio modesto parere, solo la sfera della teologia, dell’esegesi biblica e della filosofia. Accanto a questa conversione personale, che è essenziale per la salvezza eterna, vedrei utile qualche intervento, da parte di Vostra Santità, che possa coinvolgere di più il popolo di Dio, proprio in quanto popolo. E mi spiego. La nostra Diocesi, da 900 anni, ha dei confini assurdi: alcuni territori comunali sono divisi a metà con la diocesi di Capua e con quella di Acerra. Addirittura, la stazione della città di Caserta, distante meno di un chilometro dal municipio, appartiene a Capua. Per questo motivo, Beatissimo Padre, Le chiedo un intervento risolutore perché le nostre comunità non abbiano più a soffrire a causa di spostamenti inutili e non sia mortificata ulteriormente l’unità pastorale dei nostri fedeli. E’ chiaro, Santità, che Lei nel N. 10 dell’Evangelii Gaudium dice che queste cose appartengono all’episcopato; però, io ricordo che da giovane sacerdote – 47 anni fa – andammo con mons. Roberti – lui era uscito dalla Segreteria di Stato – e portammo un poco di problemi anche là; dissero, dopo aver spiegato le cose: “Mettetevi d’accordo con i vescovi e noi firmeremo”. E questa è una bellissima cosa. Ma quando si mettono d’accordo, i Vescovi?.
R. - (Santo Padre)
Alcuni storici della Chiesa dicono che in alcuni dei primi Concili i Vescovi arrivavano anche ai pugni, ma poi si mettevano d’accordo. E questo è un segno brutto. E’ brutto quando i Vescovi sparlano uno dell’altro, o fanno cordate. Non dico avere unità di pensiero o unità di spiritualità, perché questo è buono, dico cordate nel senso negativo della parola. Questo è brutto perché si rompe proprio l’unità della Chiesa. Questo non è di Dio. E noi Vescovi dobbiamo dare l’esempio dell’unità che Gesù ha chiesto al Padre per la Chiesa. Ma non si può andare sparlando uno dell’altro: “E questo la fa così e quello la fa là cosà”. Ma vai, dillo in faccia! I nostri antenati nei primi Concili andavano ai pugni, e io preferisco che si gridino quattro cose di quelle forti e poi si abbraccino e non che si parlino di nascosto uno contro l’altro. Questo, come principio generale, ossia: nell’unità della Chiesa è importante l’unità tra i Vescovi. Lei ha poi sottolineato una strada che il Signore ha voluto per la sua Chiesa. E questa unità tra i Vescovi è quella che favorisce il mettersi d’accordo su questo e su quest’altro. In un Paese – non in Italia, da un’altra parte – c’è una Diocesi i cui limiti sono stati rifatti, ma a motivo della ubicazione del tesoro della cattedrale sono in conflitto nei tribunali da più di 40 anni. Per soldi: questo non si capisce! È qui dove il diavolo festeggia! E’ lui che guadagna. E’ bello poi che lei dica che i Vescovi debbano sempre essere d’accordo: ma d’accordo nell’unità, non nell’uniformità. Ognuno ha il suo carisma, ognuno ha il suo modo di pensare, di vedere le cose: questa varietà a volte è frutto di sbagli, ma tante volte è frutto dello stesso Spirito. Lo Spirito Santo ha voluto che nella Chiesa ci fosse questa varietà di carismi. Lo stesso Spirito che fa la diversità, poi è riuscito a fare l’unità; un’unità nella diversità di ognuno, senza che nessuno perda la propria personalità. Ma, io mi auguro che quello che lei ha detto vada avanti. E poi, tutti siamo buoni, perché abbiamo l’acqua del Battesimo tutti, abbiamo lo Spirito Santo dentro che ci aiuta ad andare avanti.
D. - Sono padre Angelo Piscopo, parroco di San Pietro Apostolo e di San Pietro in Cattedra. La mia domanda è questa: Santità, nell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium Lei ha invitato a incoraggiare e a rafforzare la pietà popolare, quale prezioso tesoro della Chiesa cattolica. Allo stesso tempo, però, ha mostrato il rischio – purtroppo sempre più reale – della diffusione di un cristianesimo individuale e sentimentale, attento più alle forme tradizionali e alla rivelazione, privato degli aspetti fondamentali della fede e privo di incidenza nella vita sociale. Quale suggerimento può darci per una pastorale che senza mortificare la pietà popolare, possa rilanciare il primato del Vangelo? Grazie, Santità.
R. - (Santo Padre)
Si sente dire che questo è un tempo dove la religiosità è andata giù, ma io non credo tanto. Perché ci sono queste correnti, queste scuole di religiosità intimiste, tipo gli gnostici, che fanno una pastorale simile a una preghiera pre-cristiana, una preghiera pre-biblica, una preghiera gnostica, e lo gnosticismo è entrato nella Chiesa in questi gruppi di pietà intimista: questo io chiamo l’intimismo. L’intimismo non fa bene, è una cosa per me, sono tranquillo, mi sento pieno di Dio. E’ un po’ – non è lo stesso – ma è un po’ sulla strada della New Age. C’è religiosità, sì, ma una religiosità pagana, o addirittura eretica; non dobbiamo avere paura di pronunciare questa parola, perché lo gnosticismo è un’eresia, è stata la prima eresia della Chiesa. Quando parlo della religiosità, parlo di quel tesoro di pietà, con tanti valori, che il grande Paolo VI descriveva nell’Evangelii Nuntiandi. Pensate una cosa: il Documento di Aparecida, che è stato il documento della V Conferenza dell’Episcopato latinoamericano, per fare una sintesi alla fine del documento stesso, nel penultimo paragrafo, poiché gli altri due erano di ringraziamento e di preghiera, ha dovuto andare 40 anni indietro e prendere un pezzo dell’Evangelii Nuntiandi, che è il documento pastorale post-conciliare non ancora superato. E’ di un’attualità enorme. In quel documento Paolo VI descrive la pietà popolare, affermando che essa alcune volte dev’essere anche evangelizzata. Sì, perché come ogni pietà c’è il rischio di andare un po’ da una parte un po’ dall’altra o non avere un’espressione di fede forte. Ma la pietà che ha la gente, la pietà che entra nel cuore con il Battesimo è una forza enorme, a tal punto che il popolo di Dio che ha questa pietà, nel suo insieme, non può sbagliare, è infallibile in credendo: così dice la Lumen Gentium al N. 12. La pietà popolare vera nasce dal quel sensus fidei di cui parla questo documento conciliare e guida nella devozione dei Santi, della Madonna, anche con espressioni folkloristiche nel senso buono della parola. Per questo la pietà popolare è fondamentalmente inculturata, non può essere una pietà popolare di laboratorio, asettica, ma nasce sempre dalla nostra vita. Si possono fare sbagli piccoli – occorre quindi vigilare – tuttavia la religiosità popolare è uno strumento di evangelizzazione. Pensiamo ai giovani di oggi. I giovani – almeno l’esperienza che io ho avuto nell’altra Diocesi - i giovani, i movimenti giovanili a Buenos Aires non funzionavano. Perché? Si diceva loro: facciamo una riunione per parlare… e alla fine i giovani si annoiavano. Ma quando i parroci hanno trovato la strada per coinvolgere i giovani nelle piccole missioni, fare la missione nelle vacanze, la catechesi ai popoli che ne hanno bisogno, nei paesini che non hanno prete, allora essi aderivano. I giovani davvero vogliono questo protagonismo missionario e imparano da qui a vivere una forma di pietà che si può anche dire pietà popolare: l’apostolato missionario dei giovani ha qualcosa della pietà popolare. La pietà popolare è attiva, è un senso di fede – dice Paolo VI – profondo, che soltanto i semplici e gli umili sono capaci di avere. E questo è grande! Nei Santuari ad esempio si vedono miracoli! Ogni 27 luglio andavo al Santuario di San Pantaleo, a Buenos Aires, e confessavo la mattina. Ma, io tornavo nuovo da quell’esperienza, tornavo vergognato della santità che trovavo nella gente semplice, peccatrice ma santa, perché diceva i propri peccati e poi raccontava come viveva, come era il problema del figlio o della figlia o di questo o di quell’altro, e come andava a visitare gli ammalati. Traspariva un senso evangelico. Nei Santuari si trovano queste cose. I confessionali dei Santuari sono un posto di rinnovamento per noi preti e Vescovi; sono un corso di aggiornamento spirituale, a motivo del contatto con la pietà popolare. E i fedeli quando vengono a confessarsi ti dicono le loro miserie, ma tu vedi dietro a quelle miserie la grazia di Dio che li conduce a questo momento. Questo contatto con il popolo di Dio che prega, che è pellegrino, che manifesta la sua fede in questa forma di pietà, ci aiuta tanto nella nostra vita sacerdotale.
D. - Mi consente di chiamarLa padre Francesco, anche perché la paternità implica inevitabilmente una santità, quando è autentica. Quale allievo dei Padri Gesuiti ai quali devo la mia formazione, culturale e sacerdotale, dico prima una mia impressione, e poi una domanda che rivolgo a Lei in modo particolare. L’identikit del prete del terzo millennio: equilibrio umano e spirituale; coscienza missionaria; apertura dialogica con le altre fedi, religiose e non. Perché questo? Lei certamente ha operato una rivoluzione copernicana per linguaggio, stile di vita, comportamento e testimonianza sulle tematiche più ragguardevoli a livello mondiale, anche degli atei e dei lontani della Chiesa cristiano-cattolica. La domanda che Le pongo: come è possibile in questa società, con una Chiesa che si auspica di crescita e di sviluppo, in questa società in una evoluzione dinamica e conflittuale e molto spesso lontana dai valori del Vangelo di Cristo, noi siamo una Chiesa molto spesso in ritardo. La Sua rivoluzione linguistica, semantica, culturale, di testimonianza evangelica sta suscitando nelle coscienze certamente una crisi esistenziale per noi sacerdoti. Come Lei suggerisce a noi delle vie, fantasiose e creative, per superare o quanto meno per attutire questa crisi che noi avvertiamo? Grazie.
R. (Santo Padre)
Ecco. Come è possibile, con la Chiesa in crescita e sviluppo, andare avanti? Lei diceva alcune cose: equilibrio, apertura dialogica… Ma, come è possibile andare? Lei ha detto una parola che mi piace tanto: è una parola divina, se è umana è perché è un dono di Dio: creatività. E’ il comandamento che Dio ha dato ad Adamo: “Va e fa crescere la Terra. Sii creativo”. È anche il comandamento che Gesù ha dato ai suoi, mediante lo Spirito Santo, per esempio la creatività della prima Chiesa nei rapporti con l’ebraismo: Paolo è stato un creativo; Pietro, quel giorno quando è andato da Cornelio, aveva una paura di quelle, perché stava facendo una cosa nuova, una cosa creativa. Ma lui è andato là. Creatività è la parola. E come si può trovare questa creatività? Prima di tutto – e questa è la condizione se noi vogliamo essere creativi nello Spirito, cioè nello Spirito del Signore Gesù – non c’è altra strada che la preghiera. Un Vescovo che non prega, un prete che non prega ha chiuso la porta, ha chiuso la strada della creatività. E’ proprio nella preghiera, quando lo Spirito ti fa sentire una cosa, viene il diavolo e te ne fa sentire un’altra; ma nella preghiera è la condizione per andare avanti. Anche se la preghiera tante volte può sembrare noiosa. La preghiera è tanto importante. Non solo la preghiera dell’Ufficio divino, ma la liturgia della Messa, tranquilla, ben fatta con devozione, la preghiera personale con il Signore. Se noi non preghiamo, saremo forse buoni imprenditori pastorali e spirituali, ma la Chiesa senza preghiera diviene una ONG, non ha quella unctio Spiritu Sancti. La preghiera è il primo passo, perché è aprirsi al Signore per potersi aprire agli altri. E’ il Signore che dice: “Vai qua, vai di là, fai questo …”, ti suscita quella creatività che a tanti Santi è costata molto. Pensate al Beato Antonio Rosmini, colui che ha scritto Le cinque piaghe della Chiesa, è stato proprio un critico creativo, perché pregava. Ha scritto ciò che lo Spirito gli ha fatto sentire, per questo è andato nel carcere spirituale, cioè a casa sua: non poteva parlare, non poteva insegnare, non poteva scrivere, i suoi libri erano all’indice. Oggi è Beato! Tante volte la creatività ti porta alla croce. Ma quando viene dalla preghiera, porta frutto. Non la creatività un po’ alla sans façon e rivoluzionaria, perché oggi è di moda fare il rivoluzionario; no questa non è dello Spirito. Ma quando la creatività viene dallo Spirito e nasce nella preghiera, ti può portare problemi. La creatività che viene dalla preghiera ha una dimensione antropologica di trascendenza, perché mediante la preghiera tu ti apri alla trascendenza, a Dio. Ma c’è anche l’altra trascendenza: aprirsi agli altri, al prossimo. Non bisogna essere una Chiesa chiusa in sé, che si guarda l’ombelico, una Chiesa autoreferenziale, che guarda se stessa e non è capace di trascendere. È importante la trascendenza duplice: verso Dio e verso il prossimo. Uscire da sé non è un’avventura, è un cammino, è il cammino che Dio ha indicato agli uomini, al popolo fin dal primo momento quando disse ad Abramo: “Vattene dalla tua terra”. Uscire da sé. E quando io esco da me, incontro Dio e incontro gli altri. Come li incontro gli altri? Da lontano o da vicino? Occorre incontrarli da vicino, la vicinanza. Creatività, trascendenza e vicinanza. Vicinanza è una parola chiave: essere vicino. Non spaventarsi di niente. Essere vicino. L’uomo di Dio non si spaventa. Lo stesso Paolo, quando ha visto tanti idoli ad Atene, non si è spaventato, ha detto a quella gente: “Voi siete religiosi, tanti idoli … ma, io vi parlerò di un altro”. Non si è spaventato e si è avvicinato a loro, ha citato anche i loro poeti: “Come dicono i vostri poeti …”. Si tratta di vicinanza a una cultura, vicinanza alle persone, al loro modo di pensare, ai loro dolori, ai loro risentimenti. Tante volte questa della vicinanza è proprio una penitenza, perché dobbiamo sentire cose noiose, cose offensive. Due anni fa, un sacerdote che è andato missionario in Argentina - era della diocesi di Buenos Aires ed è andato in una diocesi al Sud, in una zona dove da anni non avevano prete, ed erano arrivati gli evangelici – mi raccontava che andò da una donna che era stata la maestra del popolo e poi la direttrice della scuola del paese. Questa signora lo fece sedere e incominciò a insultarlo, non con parolacce, ma insultarlo con forza: “Voi ci avete abbandonati, ci avete lasciati soli, e io che ho bisogno della Parola di Dio sono dovuta andare al culto protestante e mi sono fatta protestante”. Questo sacerdote giovane, che è un mite, è uno che prega, quando la donna finì la cataratta, disse: “Signora, soltanto una parola: perdono. Perdonaci, perdonaci. Abbiamo abbandonato il gregge”. E il tono di quella donna è cambiato. Tuttavia rimase protestante e il prete non andò sull’argomento di quale fosse la vera religione: in quel momento non si poteva fare questo. Alla fine, la signora incominciò a sorridere e disse: “Padre vuole un caffè?” – “Sì, prendiamo il caffè”. E quando il sacerdote stava per uscire, disse: “Si fermi padre, venga”, e lo ha portato in camera da letto, ha aperto l’armadio e c’era l’immagine della Madonna: “Lei deve sapere che mai l’ho abbandonata. L’ho nascosta a causa del pastore, ma in casa c’è!”. E’ un aneddoto che insegna come la vicinanza, la mitezza hanno fatto sì che questa donna si riconciliasse con la Chiesa, perché si sentiva abbandonata dalla Chiesa. E io ho fatto una domanda che non si deve fare mai: “E poi, com’è finita? Com’è finita la cosa?”. Ma il prete mi ha corretto: “Ah, no, io non ho chiesto niente: lei continua ad andare al culto protestante, ma si vede che è una donna che prega: faccia il Signore Gesù”. E non è andato oltre, non ha invitato a tornare alla Chiesa cattolica. E’ quella vicinanza prudente, che sa fino a dove si deve arrivare. Ma, vicinanza significa pure dialogo; bisogna leggere nella Ecclesiam Suam, la dottrina sul dialogo, poi ripetuta dagli altri Papi. Il dialogo è tanto importante, ma per dialogare sono necessarie due cose: la propria identità come punto di partenza e l’empatia con gli altri. Se io non sono sicuro della mia identità e vado a dialogare, finisco per barattare la mia fede. Non si può dialogare se non partendo dalla propria identità, e l’empatia, cioè non condannare a priori. Ogni uomo, ogni donna ha qualcosa di proprio da donarci; ogni uomo, ogni donna, ha la propria storia, la propria situazione e dobbiamo ascoltarla. Poi la prudenza dello Spirito Santo ci dirà come rispondervi. Partire dalla propria identità per dialogare, ma il dialogo, non è fare l’apologetica, anche se alcune volte si deve fare, quando ci vengono poste delle domande che richiedono una spiegazione. Il dialogo è cosa umana, sono i cuori, le anime che dialogano, e questo è tanto importante! Non avere paura di dialogare con nessuno. Si diceva di un santo, un po’ scherzando – non ricordo, credo fosse San Filippo Neri, ma non sono sicuro – che fosse capace di dialogare anche con il diavolo. Perché? Perché aveva quella libertà di ascoltare tutte le persone, ma partendo dalla propria identità. Era tanto sicuro, ma essere sicuro della propria identità non significa fare proselitismo. Il proselitismo è una trappola, che anche Gesù un po’ condanna, en passant, quando parla ai farisei e sadducei: “Voi che fate il giro del mondo per trovare un proselito e poi vi ricordate di quello …” Ma, è una trappola. E Papa Benedetto ha un’espressione tanto bella, l’ha fatta ad Aparecida ma credo che l’abbia ripetuta in altra parte: “La Chiesa cresce non per proselitismo, ma per attrazione”. E cosa è l’attrazione? È questa empatia umana che poi viene guidata dallo Spirito Santo. Pertanto come sarà il profilo del prete di questo secolo così secolarizzato? Un uomo di creatività, che segue il comandamento di Dio – “creare le cose” -; un uomo di trascendenza, sia con Dio nella preghiera, sia con gli altri, sempre; un uomo di vicinanza che si avvicina alla gente. Allontanare la gente non è sacerdotale e di questo atteggiamento la gente a volte è stufa, eppure viene da noi lo stesso. Ma chi accoglie la gente ed è vicino ad essa, dialoga con essa lo fa perché si sente sicuro della propria identità, che lo spinge ad avere il cuore aperto all’empatia. Questo è quello che mi viene di dire a lei, alla sua domanda.
D. - Carissimo Padre, la mia domanda riguarda il luogo dove noi viviamo: la Diocesi, con i nostri Vescovi, i rapporti con i nostri fratelli. E Le chiedo: questo momento storico che noi stiamo vivendo ha delle attese nei confronti di noi presbiteri, cioè di una testimonianza chiara, aperta, gioiosa – come Lei ci sta invitando – proprio alla novità dello Spirito Santo. Le chiedo: quale potrebbe essere, secondo Lei, proprio lo specifico, il fondamento di una spiritualità del prete diocesano? Mi sembra di aver letto da qualche parte che Lei dice: “Il sacerdote non è un contemplativo”. Ma prima, non era così. Ecco, quindi, se Lei ci può donare un’icona da tener presente per la rinascita, per la crescita comunionale della nostra Diocesi. E soprattutto, a me interessa come possiamo essere fedeli, oggi, all’uomo, non tanto a Dio.
R. - (Santo Padre)
Ecco, lei ha detto “le novità dello Spirito Santo”. E’ vero. Ma Dio è il Dio delle sorprese, sempre ci sorprende, sempre, sempre. Leggiamo il Vangelo e troviamo una sorpresa dietro l’altra. Gesù ci sorprende perché arriva prima di noi: Lui ci aspetta prima, ci ama prima, quando noi lo cerchiamo Lui ci sta già cercando. Come dice il profeta Isaia o Geremia, non ricordo bene: Dio è come il fiore del mandorlo, fiorisce per primo in primavera. È il primo, sempre primo, sempre ci aspetta. E questa è la sorpresa. Tante volte noi cerchiamo Dio di qua e Lui noi ci aspetta di là. E poi veniamo alla spiritualità del clero diocesano. Prete contemplativo, ma non come uno che è nella Certosa, non intendo questa contemplatività. Il sacerdote deve avere una contemplatività, una capacità di contemplazione sia verso Dio sia verso gli uomini. E’ un uomo che guarda, che riempie i suoi occhi e il suo cuore di questa contemplazione: con il Vangelo davanti a Dio, e con i problemi umani davanti agli uomini. In questo senso deve essere un contemplativo. Non bisogna fare confusione: il monaco è un’altra cosa. Ma dove è il centro della spiritualità del prete diocesano? Io direi che è nella diocesanità. E’ avere la capacità di aprirsi alla diocesanità. La spiritualità di un religioso, per esempio, è la capacità di aprirsi a Dio e agli altri nella comunità: sia la più piccola, sia la più grande della congregazione. Invece, la spiritualità del sacerdote diocesano è aprirsi alla diocesanità. E voi religiosi che lavorate in parrocchia dovete fare le due cose, per questo il dicastero dei Vescovi e il dicastero della vita consacrata stanno lavorando ad una nuova versione della Mutuae relationes, perché il religioso ha le due appartenenze. Ma torniamo alla diocesanità: cosa significa? Significa avere un rapporto con il Vescovo e un rapporto con gli altri sacerdoti. Il rapporto con il Vescovo è importante, è necessario. Un sacerdote diocesano non può essere staccato dal Vescovo. “Ma, il Vescovo non mi vuole bene, il Vescovo qui, il vescovo là…”: Il Vescovo potrà forse essere un uomo con cattivo carattere: ma è il tuo Vescovo. E tu devi trovare, anche in quell’atteggiamento non positivo, una strada per mantenere il rapporto con lui. Questa comunque è l’eccezione. Io sono prete diocesano perché ho un rapporto con il Vescovo, un rapporto necessario. È molto significativo quando nel rito dell’ordinazione si fa il voto di obbedienza al Vescovo. “Io prometto obbedienza a te e ai tuoi successori”. Diocesanità significa un rapporto con il Vescovo che si deve attuare e far crescere continuamente. Nella maggioranza dei casi non è un problema catastrofico, ma una realtà normale. In secondo luogo la diocesanità comporta un rapporto con gli altri sacerdoti, con tutto il presbiterio. Non c’è spiritualità del prete diocesano senza questi due rapporti: con il Vescovo e con il presbiterio. E sono necessari. “Io, sì, con il Vescovo vado bene, ma alle riunioni del clero non ci vado perché si dicono stupidaggini”. Ma con questo atteggiamento ti viene a mancare qualcosa: non hai quella vera spiritualità del prete diocesano. E’ tutto qui: è semplice, ma al tempo stesso non è facile. Non è facile, perché mettersi d’accordo con il Vescovo non è sempre facile, perché uno la pensa in una maniera l’altro la pensa nell’altra, ma si può discutere … e si discuta! E si può fare a voce forte? Si faccia! Quante volte un figlio con il suo papà discutono e alla fine rimangono sempre padre e figlio. Tuttavia, quando in questi due rapporti, sia con il Vescovo sia con il presbiterio, entra la diplomazia non c’è lo Spirito del Signore, perché manca lo spirito di libertà. Bisogna avere il coraggio di dire “Io non la penso così, la penso diversamente”, e anche l’umiltà di accettare una correzione. E’ molto importante. E qual è il nemico più grande di questi due rapporti? Le chiacchiere. Tante volte penso – perché anche io ho questa tentazione di chiacchierare, l’abbiamo dentro, il diavolo sa che quel seme gli dà frutti e semina bene – io penso se non sia una conseguenza di una vita celibataria vissuta come sterilità, non come fecondità. Un uomo solo finisce amareggiato, non è fecondo e chiacchiera sugli altri. Questa è un’aria che non fa bene, è proprio quello che impedisce quel rapporto evangelico e spirituale e fecondo con il Vescovo e con il presbiterio. Le chiacchiere sono il nemico più forte della diocesanità, cioè della spiritualità. Ma, tu sei un uomo, quindi se hai qualcosa contro il Vescovo vai e gliela dici. Ma poi ci saranno conseguenze non buone. Porterai la croce, ma sii uomo! Se tu sei un uomo maturo e vedi qualcosa in tuo fratello sacerdote che non ti piace o che credi sia sbagliata, vai a dirglielo in faccia, oppure se vedi che quello non tollera di essere corretto, vai a dirlo al Vescovo o all’amico più intimo di quel sacerdote, affinché possa aiutarlo a correggersi. Ma non dirlo agli altri: perché ciò è sporcarsi l’un l’altro. E il diavolo è felice con quel “banchetto”, perché così attacca proprio il centro della spiritualità del clero diocesano. Per me le chiacchiere fanno tanto danno. E non sono una novità post-conciliare…. Già San Paolo dovette affrontarle, ricordate la frase: “Io sono di Paolo, io sono di Apollo ……” Le chiacchiere sono una realtà presente già all’inizio della Chiesa, perché il demonio non vuole che la Chiesa sia una madre feconda, unita, gioiosa. Qual è invece il segno che questi due rapporti, tra prete e Vescovo e tra prete e gli altri preti, vanno bene? E’ la gioia. Così come l’amarezza è il segno che non c’è una vera spiritualità diocesana, perché manca un bel rapporto con il Vescovo o con il presbiterio, la gioia è il segno che le cose funzionano. Si può discutere, ci si può arrabbiare, ma c’è la gioia al di sopra di tutto, ed è importante che essa rimanga sempre in questi due rapporti che sono essenziali per la spiritualità del sacerdote diocesano.
Vorrei tornare su un altro segno, il segno dell’amarezza. Una volta mi diceva un sacerdote, qui a Roma: “Ma, io vedo che tante volte noi siamo una Chiesa di arrabbiati, sempre arrabbiati uno contro l’altro; abbiamo sempre qualcosa per arrabbiarci”. Questo porta la tristezza e l’amarezza: non c’è la gioia. Quando troviamo in una Diocesi un sacerdote che vive così arrabbiato e con questa tensione, pensiamo: ma quest’uomo al mattino per colazione prende l’aceto. Poi, a pranzo, le verdure sott’aceto, e poi alla sera una bella spremuta di limone. Così la sua vita non va, perché è l’immagine di una Chiesa degli arrabbiati. Invece la gioia è il segno che va bene. Uno può arrabbiarsi: è anche sano arrabbiarsi una volta. Ma lo stato di arrabbiamento non è del Signore e porta alla tristezza e alla disunione. E alla fine, lei ha detto “la fedeltà a Dio e all’uomo”. E’ lo stesso che abbiamo detto prima. E’ la doppia fedeltà e la doppia trascendenza: essere fedeli a Dio è cercarlo, aprirsi a Lui nella preghiera, ricordando che Lui è il fedele, Lui non può rinnegare se stesso, è sempre fedele. E poi aprirsi all’uomo; è quell’empatia, quel rispetto, quel sentirlo, e dire la parola giusta con la pazienza.
Dobbiamo fermarci per amore ai fedeli che aspettano… Ma vi ringrazio, davvero, e vi chiedo di pregare per me, perché anch’io ho le difficoltà di ogni Vescovo e devo anche riprendere ogni giorno il cammino della conversione. La preghiera uno per l’altro ci farà bene per andare avanti. Grazie della pazienza.
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