VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO IN CILE E PERÙ
(15-22 GENNAIO 2018)
BREVE VISITA AL "CENTRO PENITENZIARIO FEMMINILE"
SALUTO DEL SANTO PADRE
Santiago del Cile
Martedì, 16 gennaio 2018
Care sorelle e fratelli,
Grazie. Grazie per quello che avete fatto, e grazie per l’opportunità che mi offrite di potervi visitare: per me è importante condividere questo tempo con voi e poter essere più vicino a tanti nostri fratelli che oggi sono privi della libertà. Grazie Suor Nelly per le Sue parole e specialmente per la testimonianza che la vita trionfa sempre sulla morte. Sempre. Grazie Janeth per aver avuto il coraggio di condividere con tutti noi i tuoi dolori e quella coraggiosa richiesta di perdono. Quanto abbiamo da imparare da questo tuo atteggiamento pieno di coraggio e umiltà! Ti cito: “Chiediamo perdono a tutti quelli che abbiamo ferito con i nostri delitti”. Grazie perché ci ricordi questo atteggiamento senza il quale noi ci disumanizziamo. Tutti noi dobbiamo chiedere perdono, io per primo, tutti. Questo ci umanizza. Senza questo atteggiamento di chiedere perdono, perdiamo la coscienza di aver sbagliato e che ogni giorno siamo chiamati a ricominciare, in un modo o nell’altro.
In questo momento il cuore mi fa anche ricordare la frase di Gesù: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7) [il Papa sente che alcune detenute la citano insieme con lui]… la conoscete bene! E sapete cosa dico spesso nelle omelie quando parlo del fatto che tutti abbiamo qualcosa dentro, o per debolezza, o perché sempre cadiamo, e l’abbiamo molto nascosto? Dico alle persone: “Tutti siamo peccatori, abbiamo tutti dei peccati. Non so: c’è qualcuno qui che non ha peccati? Alzi la mano…”. Nessuno ha il coraggio di alzare la mano! Egli ci invita – Gesù – ad abbandonare la logica semplicistica di dividere la realtà in buoni e cattivi, per entrare in quell’altra dinamica capace di assumere la fragilità, i limiti e anche il peccato, per aiutarci ad andare avanti.
Quando sono entrato, mi aspettavano le mamme con i loro figli. Sono stati loro a darmi il benvenuto, che si può esprimere in due parole: madre e figli.
Madre: molte di voi sono madri e sapete cosa significa dare la vita. Avete saputo “portare” nel vostro seno una vita e l’avete data alla luce. La maternità non è e non sarà mai un problema, è un dono, è uno dei più meravigliosi regali che potete avere. Oggi siete di fronte a una sfida molto simile: si tratta ancora di generare vita. Oggi a voi è chiesto di dare alla luce il futuro. Di farlo crescere, di aiutarlo a svilupparsi. Non solo per voi, ma per i vostri figli e per tutta la società. Voi, donne, avete una capacità incredibile di adattarvi alle situazioni e di andare avanti. Vorrei oggi fare appello alla capacità di generare futuro. Capacità di generare futuro che vive in ognuna di voi. Quella capacità che vi permette di lottare contro i tanti determinismi “cosificatori”, cioè che trasformano le persone in cose, che finiscono per uccidere la speranza. Nessuno di noi è una cosa: siamo tutti persone, e come persone abbiamo questa dimensione della speranza. Non lasciamoci “cosificare”. Non sono un numero, non sono il detenuto numero tale, sono Tizio o Caio che porta dentro di sé la speranza e vuole dare alla luce speranza.
Essere private della libertà, come ci diceva bene Janeth, non è sinonimo di perdita di sogni e di speranze. E’ vero, è molto duro, è doloroso, ma non vuol dire perdere la speranza. Non vuol dire smettere di sognare. Essere privato della libertà non è la stessa cosa che essere privo di dignità, no, non è la stessa cosa. La dignità non si tocca, a nessuno. Si cura, si custodisce, si accarezza. Nessuno può essere privato della dignità. Voi siete private della libertà. Da qui consegue che bisogna lottare contro ogni tipo di cliché, di etichetta che dica che non si può cambiare, o che non ne vale la pena, o che il risultato è sempre lo stesso. Come dice il tango argentino: “Dai, avanti così, che tutto è uguale, che là all’inferno ci ritroveremo…”. No, non è tutto lo stesso. Care sorelle, no! Non è vero che il risultato è sempre lo stesso. Ogni sforzo fatto lottando per un domani migliore – anche se tante volte potrebbe sembrare che cada nel vuoto – darà sempre frutto e vi verrà ricompensato.
La seconda parola è figli: essi sono forza, sono speranza, sono stimolo. Sono il ricordo vivo che la vita si costruisce guardando avanti e non indietro. Oggi siete private della libertà, ma ciò non vuol dire che questa situazione sia definitiva. Niente affatto. Sempre guardare l’orizzonte, in avanti, verso il reinserimento nella vita ordinaria della società. Una pena senza futuro, una condanna senza futuro non è una condanna umana: è una tortura. Ogni pena che una persona si trova a scontare per pagare un debito con la società, deve avere un orizzonte, l’orizzonte di reinserirmi di nuovo e quindi di prepararmi al reinserimento. Questo esigetelo, da voi stesse e dalla società. Guardate sempre l’orizzonte, guardate sempre avanti verso il reinserimento nella vita ordinaria della società. Per questo, apprezzo e invito a intensificare tutti gli sforzi possibili affinché i progetti come “Espacio Mandela” e “Fundación Mujer levántate” possano crescere e rafforzarsi.
Il nome di questa Fondazione mi fa ricordare quel passo evangelico in cui molti prendevano in giro Gesù perché diceva che la figlia del capo della sinagoga non era morta, ma addormentata. Lo deridevano per questo. Di fronte allo scherno, l’atteggiamento di Gesù è paradigmatico: entrando dove stava la ragazza, la prese per mano e le disse: «Fanciulla, io ti dico: alzati!» (Mc 5,41). Per tutti era morta, per Gesù no. Questo tipo di iniziative sono segno vivo di Gesù che entra nella vita di ognuno di noi, che va oltre ogni scherno, che non dà per persa nessuna battaglia, ci prende per mano e ci invita ad alzarci. Che bello che ci siano cristiani e persone di buona volontà, che ci siano persone di qualunque credenza, di qualunque scelta religiosa nella vita, o anche non religiosa, ma di buona volontà, che seguono le orme di Gesù, che hanno il coraggio di entrare ed essere segno di quella mano tesa cha fa rialzare. Io te lo chiedo: alzati! Sempre rialzarsi.
Tutti sappiamo che molte volte, purtroppo, la pena del carcere si riduce soprattutto a un castigo, senza offrire strumenti adeguati per attivare processi. E’ quello che dicevo della speranza: guardare avanti, generare processi di reinserimento. Questo dev’essere il vostro sogno: il reinserimento. E se è lungo portare avanti questo cammino, fare il meglio possibile perché sia più breve. Ma sempre reinserimento. La società ha l’obbligo – l’obbligo! – di reinserire tutte voi. Quando dico “reinserire tutte voi”, dico reinserire ognuna di voi, ognuna con un processo personale di reinserimento: una con un cammino, un’altra con un altro, una per un tempo più lungo, un’altra più corto; ma una persona che è in cammino verso il reinserimento. Questo dovete mettervelo in testa e dovete esigerlo. E questo vuol dire generare un processo, attivare un processo. E questi spazi che promuovono programmi di apprendistato lavorativo e di accompagnamento per ricomporre legami sono segno di speranza e di futuro. Adoperiamoci perché crescano. La sicurezza pubblica non va ridotta solo a misure di maggior controllo ma soprattutto va costruita con misure di prevenzione, col lavoro, l’educazione e più vita comunitaria.
Con questi pensieri voglio benedire tutte voi e anche salutare gli operatori pastorali, i volontari, il personale e, in modo speciale, i funzionari della Gendarmeria e le loro famiglie. Prego per voi. Voi avete un compito delicato e complesso, e per questo auspico che le Autorità possano assicurarvi anche le condizioni necessarie per svolgere il vostro lavoro con dignità. Dignità che genera dignità. La dignità si contagia, si contagia più dell’influenza; la dignità si contagia. La dignità genera dignità.
A Maria, che è Madre e per la quale siamo figli – e voi siete sue figlie –, chiediamo che interceda per voi, per ognuno dei vostri figli, per le persone che avete nel cuore, e vi copra col suo mantello. E, per favore, vi chiedo di pregare per me, perché ne ho bisogno. Grazie.
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