SOLENNI ESEQUIE DEL CARDINALE JAMES ROBERT KNOX
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
Giovedì 30 giugno 1983
« Nella tua casa, Signore, avrò la pace! ».
1. Abbiamo elevato a Dio questo grido di speranza, ispirato al Salmo 121, che è come un anelito verso la città santa di Gerusalemme, dove è il Tempio, la «casa del Signore », quel luogo privilegiato in cui l'Eterno, l'Immenso si degna di manifestare in modo particolare lo splendore della sua gloria e la sua presenza in mezzo al suo Popolo. « Quale gioia, quando mi dissero: "Andremo alla casa del Signore" » (Ps. 121 (122), 1).
1 Il nostro fratello, il Cardinale James Robert Knox, ha certamente fatto sue queste parole di letizia. La sua vita di uomo, di cristiano, di sacerdote, di vescovo è stata infatti una continua e lieta testimonianza di fedeltà a Cristo, alla Chiesa, alla Sede Apostolica. Una vita trascorsa e realizzata nell'adesione all'appello di Dio, anzitutto nella maturazione della vocazione sacerdotale, che lo portò nel seminario di New Norcia e poi nel Pontificio Collegio Urbano di Propaganda Fide a Roma, dove ricevette l'ordinazione presbiterale nel 1941. Nel 1953 Pio XII lo nominava Delegato Apostolico nell' Africa Britannica e nel 1957 veniva trasferito alla Nunziatura Apostolica in India, mentre svolgeva contemporaneamente il compito di Delegato Apostolico per la Birmania e per Ceylon.
Ma la Provvidenza divina voleva che tornasse nella sua nativa Australia. Nel 1967 da Paolo VI era nominato Arcivescovo di Melbourne, dove fu esempio di grande dedizione nei confronti dei sofferenti e dei poveri. Nel 1974 veniva chiamato a ricoprire l'incarico di Prefetto della Sacra Congregazione per i Sacramenti e il Culto Divino e quindi di Presidente del nuovo organismo, a me particolarmente caro, il «Pontificio Consiglio per la Famiglia », al quale ha dedicato, con giovanile generosità, le ultime forze della sua giornata terrena. Queste, in breve, le tappe della vita del compianto Cardinale James Robert Knox, segnate da una crescente disponibilità nei riguardi della volontà di Dio, che lo chiamava a servizi sempre più impegnativi e delicati nell'ambito della vita della Chiesa universale.
2. La scomparsa di una persona, ― di ogni persona che stimiamo e amiamo ― ripropone in noi i grandi interrogativi, che coinvolgono tutta la nostra esistenza nelle sue radici più profonde: che significato ha questa vita umana? Qual è, in ultima analisi, il valore e l'efficacia delle nostre azioni, delle nostre scelte, come delle nostre gioie e dei nostri dolori?
Solo alla luce della Parola di Dio noi, creature inserite nella grande tela della storia dell'umanità, possiamo dare una risposta, che sia capace di svelarci ― anche se, per ora, non completamente ― il significato e il valore di questo nostro presente ed anche del nostro futuro, consapevoli di essere anche noi partecipi della «storia della salvezza », cioè dell'eterno piano di amore che Dio ha progettato per tutti gli uomini.
La vita del cristiano si svolge sotto il segno della fede e della speranza, fondate non sulla forza o sulla capacità dell'uomo ma sull'infinita misericordia di Dio. Il protagonista del «Libro di Giobbe » proclama a voce alta che, nonostante la sua contingenza e la sua precarietà, che si manifestano chiaramente nel disfacimento biologico della natura umana, gli rimane la certezza di Dio. E l'Apostolo Paolo, rivolgendosi ai cristiani di Corinto, parla anche lui del «disfacimento del corpo », componente tipico della nostra abitazione sulla terra, perché organo di mediazione con l'ambiente esterno. Ma egli ribadisce che c'è un'altra abitazione, una « dimora eterna », non costruita da mani di uomo, nei cieli, un'abitazione che ci viene donata direttamente da Dio.
Il nostro itinerario terreno è pertanto, nella prospettiva cristiana, un «abitare nel corpo» ed essere «in esilio lontano dal Signore »; un « camminare nella fede »; una fede che, da una parte, ci dà serenità perché fonda la nostra speranza; dall'altra, lascia delle zone d'ombra, perché non siamo ancora nella « visione ». Come il salmista, abbandonandosi con fiducia a Dio, poteva affermare: «Abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni» (Ps. 22 (23), 6) così il cristiano preferisce andare in esilio dal suo corpo per «abitare presso il Signore »; (2 Cor. 5, 8.) è questa una visione di verità e di libertà, che debbono sconfiggere in noi lo scoramento che sentiamo di fronte alla morte. « ... Non dobbiamo piangere i nostri fratelli liberati da questo mondo con la chiamata divina ― ci esorta San Cipriano ― perché sappiamo che non li abbiamo perduti, bensì che ci hanno preceduti; che morendo ci vanno innanzi, come chi parte per un viaggio, a guisa di naviganti; e noi dobbiamo sentirne nostalgia, ma non piangerli, né qui vestire di nero, mentre essi lassù già hanno ricevuto le vesti candide, né dare occasione ai non credenti di rimproverarci meritatarnente e giustamente, per il fatto che lamentiamo come estinti e perduti quelli che affermiamo viventi presso Dio » (S. Cypriani, De Mortalitate, 20: PL 4, 595-596).
3. Cristo, il Verbo di Dio incarnato, ci illumina con la sua parola sul mistero della nostra vita e della nostra morte e chiarisce la situazione di chi lo segue: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto » (Io. 12, 24).
Gesù muore e risorge. Dalla sua morte e dalla sua risurrezione promanano quella « esimia santità ed inesauribile fecondità in ogni bene» (Denz.-Schönm. 3013) della Chiesa, suo Corpo Mistico. Animati e confortati da questa verità, noi deponiamo nel cuore della terra le spoglie mortali di tutti i nostri cari, ed oggi, quelle del compianto Cardinale James Robert Knox. E mentre commossi eleviamo preghiere di suffragio per il riposo eterno del nostro fratello defunto, anche noi, pellegrini ancora in questa terra, «in esilio lontano dal Signore », ripetiamo con viva fede: «Nella tua casa, Signore, avrò la pace! ».
Amen.
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