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VISITA ALLA PARROCCHIA DI SAN GIOVANNI BATTISTA AL COLLATINO

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

 Domenica, 15  gennaio 1984

 

1. “Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo” (1 Cor 1, 3).

Con queste parole dell’apostolo Paolo, che abbiamo ascoltato nella seconda lettura dell’odierna liturgia, mi rivolgo a tutti voi, carissimi fratelli e sorelle di questa parrocchia di San Giovanni Battista al Collatino, e vi esprimo la mia profonda gioia di poter celebrare con voi il Sacrificio eucaristico.

Questa è la prima visita che compio ad una parrocchia romana nell’anno 1984: perciò auguro, anzitutto, un anno sereno, prospero e benedetto a tutti voi di questa comunità e a tutti i fedeli di Roma. Come successore di Pietro in questa Sede episcopale, vedo in voi gli eredi dell’antica Chiesa, che da quasi duemila anni è a Roma, da cui abbraccia tutti i popoli, vessillo di unità e di salvezza. Siate fieri di appartenere a questa Chiesa, la quale esprime e garantisce la sua universalità ed è romana non tanto per quello che può aver assimilato dalla cultura e dall’ordinamento dell’Impero, ma principalmente per quello che essa vi ha inserito, cioè fa rivelazione divina, le sorgenti della grazia, la promulgazione dell’amore e la successione apostolica che la unisce a Gesù Cristo. Si comprende così come sant’Ireneo potesse dire che alla Chiesa romana fa capo ogni altra Chiesa “propter potentiorem principalitatem” (cf. Adversus haereses 3, 2: PG 7, p. 848).

Alla luce di questa tradizione romana, il nostro incontro si arricchisce di un significato ecclesiale particolare nella celebrazione dell’Anno Santo della Redenzione, perché è a Roma, sulle memorie degli apostoli Pietro e Paolo, che si trova il centro dell’unità e della vitalità di tutte le Chiese. Nello spirito di queste stimolanti realtà, vogliamo oggi anche noi celebrare il Giubileo straordinario e acquistare l’Indulgenza plenaria per noi o per le anime dei nostri cari defunti.

2. A questo nostro incontro presiede spiritualmente san Giovanni Battista, sia perché egli è qui venerato come titolare della parrocchia, sia ancora perché il brano del Vangelo di Giovanni, che abbiamo poco fa ascoltato, ce lo presenta come testimone intrepido del Cristo. La figura del Battista ci richiama quel tempo dell’anno liturgico che va dalla prima domenica di Avvento fino alla festa del Battesimo del Signore, che abbiamo celebrato la scorsa settimana. In questo periodo l’abbiamo visto come il battezzatore e il precursore del Signore nello scenario austero e suggestivo insieme del fiume Giordano e del deserto di Giuda. Oggi egli con la proclamazione di Gesù, quale “Agnello di Dio... che toglie il peccato del mondo” (Gv 1, 29) apre il ciclo del tempo ordinario dell’anno liturgico, che è tutto incentrato sulla storia della salvezza, operata da Cristo.

Poiché l’immagine dell’Agnello di Dio è strettamente collegata con quella del servo sofferente, descritto dal profeta Isaia come “agnello condotto al macello” (Is 53, 7) e all’agnello pasquale (Es 12) che è simbolo della redenzione di Israele, con essa Giovanni ci addita il Cristo come Redentore. Gesù deve passare attraverso la passione, morte e risurrezione per poter battezzare “nello Spirito Santo” e operare la salvezza, come “figlio di Dio”. L’atteggiamento del Battista in questo brano è quello di colui che, a tappe, progredisce nella fede e nella conoscenza di Dio: dapprima dice di non conoscerlo (Gv 1, 31), poi vede in lui il Messia-sofferente (Gv 1, 29), infine il Santificatore (Gv 1, 31) e il Figlio di Dio (Gv 1, 34). Questo atteggiamento è per noi esemplare, perché ci insegna ad accogliere il Cristo come colui che con il Battesimo instaura in noi una nuova realtà, una “nuova creazione”, un nuovo regno: quello che è vivificato dallo Spirito Santo; ma ci insegna anche a iniziare un cammino di fede, in cui ci sentiamo sempre più impegnati nel rendere testimonianza a Cristo non solo come Figlio dell’uomo, ma anche come Figlio di Dio venuto a togliere dal cuore dell’uomo la radice di ogni male, cioè il peccato. Tutto questo evoca la delicata e commovente immagine dell’Agnello, con cui Giovanni Battista ha “manifestato” Cristo al mondo, in quel lontano giorno lungo le rive del Giordano.

3. Dobbiamo avere la mente e il cuore aperti per ricevere questa manifestazione, che non vuol essere tanto una conoscenza del mistero di Cristo, quanto una nostra immersione e un nostro assorbimento in esso. Si tratta in qualche modo di far nostri quei sentimenti espressi nel Salmo responsoriale, nei quali la tradizione cristiana ha visto raffigurato il Cristo stesso (cf. Eb 10, 5.7): “Sacrificio ed offerta non gradisci, / gli orecchi mi hai aperto. / Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa. / Allora ho detto: “Ecco io vengo”. / Sul rotolo del libro, di me è scritto / di compiere il tuo volere” (Sal 40, 7-9).

Come abbiamo già accennato, il mistero di Cristo è mistero di obbedienza e di sacrificio: egli è come un docile agnello che si offre per tutti noi. Si direbbe che Giovanni Battista, dopo la sua confessione, abbia cominciato a tacere per dare voce a Cristo, il quale in questo salmo messianico, che è uno dei più avvincenti di tutto il Salterio, annunzia il compimento della nuova alleanza, cioè quel “canto nuovo” (Sal 40, 4) che si realizzerà con la venuta nella sua persona: “nel profondo del mio cuore”(Sal 40, 9). Non più i sacrifici dell’antica alleanza, ma l’unico e irripetibile sacrificio del “Figlio di Dio”, il sacrificio del suo cuore, squarciato per la redenzione dell’uomo. È questa “la giustizia” che egli ha annunziato “nella grande assemblea”(Sal 40, 10), cioè la salvezza operata in faccia al mondo, a riscatto di ogni uomo e di ogni donna che sono sotto il cielo.

4. Le ultime parole di questo Salmo rivelano la dimensione universale dell’opera del Redentore, la quale è stata già espressa nella prima lettura dal profeta Isaia: “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di lsraele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra” (Is 49, 5-6). A questa visione profetica fa eco san Paolo nella seconda lettura di questa domenica, il quale parla dei cristiani di Corinto come di coloro che “sono stati santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro e loro” (1 Cor 1, 1-2).

Come appare con chiara evidenza sia nella prima che nella seconda lettura, si tratta di una salvezza universale, avente carattere spirituale. In Isaia si parla di una grande luce, che apporterà alle Nazioni la conoscenza dell’unico vero Dio e del suo inviato, Cristo Signore. Così infatti il vecchio Simeone salutò il fanciullo Gesù, allorché i genitori glielo presentarono al tempio: “Luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo lsraele” (Lc 2, 32). Appunto di Cristo, luce e salvezza, hanno bisogno oggi, come ieri, tutti gli uomini: quelli vicini e quelli lontani, quelli credenti e quelli non credenti, essendo egli diventato per tutti “causa di salvezza eterna” (Eb 5, 9).

5. Con questi pensieri, che ci provengono dalla liturgia di questa domenica e, in particolare, dalla figura vigorosa e affascinante del Battista, che voi onorate come patrono, esprimo unitamente al Cardinale Vicario Ugo Poletti e al Vescovo ausiliare del settore, Monsignor Alessandro Plotti, a tutti voi qui presenti e a tutti i componenti questa Comunità parrocchiale i miei saluti più cordiali. Saluto i sacerdoti dell’Opus Dei, a cui è affidata la cura pastorale di questo quartiere tiburtino; in particolare rivolgo un affettuoso pensiero a Monsignor Alvaro del Portillo, Prelato dell’Opus Dei, che già come collaboratore dell’ispirato fondatore, il Servo di Dio Josemaría Escrivá de Balaguer, contribuì all’erezione di questa parrocchia e del Centro internazionale di “Educazione, lavoro, istruzione, sport”. Sono lieto di apprendere che in questa parrocchia si trovano ad operare tre comunità religiose femminili: le Suore della Divina Vocazione, che dirigono la scuola materna ed elementare di Nostra Signora di Guadalupe; le Figlie della carità di San Vincenzo de’ Paoli per l’apostolato sociale, le Monache religiose della visitazione di Santa Maria, che vivono in clausura.

Mi fa anche piacere conoscere che in parrocchia esiste un Ufficio Assistenza e un gruppo di Volontariato Vincenziano, che prestano concreto aiuto ai poveri e alle famiglie bisognose del quartiere. È operante pure un gruppo della Terza Età che provvede all’assistenza degli anziani. Il mio plauso va anche ai Catechisti, i quali sotto la direzione del parroco, don Francesco Angelicchio, e dei viceparroci, svolgono una capillare azione di evangelizzazione nei vari ambienti del quartiere, raggiungendo persone di ogni condizione di età.

Ma soprattutto desidero rivolgere un particolare saluto ai dirigenti e appartenenti al centro Elis, i quali con la loro opera di promozione umana e sociale rendono fecondo il terreno dell’intero quartiere in maniera da spianare la via all’azione pastorale della parrocchia. Questo centro è una chiara testimonianza dell’interesse della Chiesa per le classi lavoratrici. Come ebbe a dire Paolo VI nel giorno dell’inaugurazione, questa “è un’opera del Vangelo, tutta rivolta cioè a beneficio di quelli che ne profittano. Non è un semplice albergo, non una semplice officina o una semplice scuola, non è un campo sportivo qualsiasi: è un centro dove l’amicizia, la fiducia, la letizia formano atmosfera; dove la vita ha una sua dignità, un suo senso, una sua speranza; è la vita cristiana che qui si afferma e si svolge, e che qui vuol dimostrare all’atto pratico molte cose assai interessanti per il nostro tempo” (Insegnamenti di Paolo VI, III [1965] 649).

Cari giovani, sappiate profittare di questa opportunità che vi si offre per imparare a vivere nella gioia, nell’impegno umano e cristiano, e nella leale convivenza con gli uomini. Mentre vi addestrate professionalmente in questo centro, date prova di essere capaci di vivere in modo responsabile e di compiere quella esperienza spirituale, che prende luce e significato dalla persona e dalla dottrina del Cristo.

6. Cari fratelli e sorelle!

Sono passati quasi duemila anni da quando i vostri lontani antenati – i romani – nei tempi dei Cesari dell’antico impero, hanno ricevuto dalle labbra degli apostoli Pietro e Paolo il messaggio evangelico.

Dall’inizio il raggio del mistero della Redenzione si è esteso su questa città, di cui voi siete oggi cittadini.

Vengo a voi come Vescovo di Roma per dare testimonianza a questo mistero salvifico:

- per professare il Verbo che si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.

Contemporaneamente, in virtù di questo mio ministero episcopale, vi faccio la domanda che nasce dalla liturgia di oggi:

-accolgono tutti questo Verbo che si fece carne?

-attingono tutti da lui questa potenza per diventare figli di Dio?

Sono domande fondamentali.

Il servizio vescovile consiste appunto nel porre instancabilmente queste domande fondamentali perché se ne trovino sempre le risposte nella comunità di ogni parrocchia.

Infatti l’intera comunità della Chiesa porta in sé una viva partecipazione a quel “Battesimo con lo Spirito Santo” che, secondo le parole del suo Precursore, ebbe inizio sulle sponde del Giordano con Gesù di Nazaret: nato da Maria Vergine, Figlio del Dio vivente.

Che anche questa comunità partecipi sempre vitalmente a questo mistero di grazia e di rinnovamento e viva della grazia della Redenzione.

 

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