CONCELEBRAZIONE PER I MARTIRI DELLA COREA
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
Basilica Vaticana - Domenica, 14 ottobre 1984
1. “Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio” (Mt 22, 2).
A queste nozze speciali il Padre eterno invita tutti i popoli e tutte le nazioni della terra.
Due secoli fa è stato invitato il popolo coreano. Nello scorso mese di maggio ho avuto la gioia di celebrare in Corea il bicentenario di quella cristianità.
Il popolo coreano ha risposto all’invito al mistico banchetto del Padre celeste mostrando nel proprio cuore una straordinaria disponibilità e un edificante impegno, che oggi sono premiati con una splendida fioritura della comunità ecclesiale.
In Corea la fede fu recata - caso unico nella storia - spontaneamente dai coreani stessi. Il cammino dei coreani verso la fede infatti è cominciato grazie all’iniziativa autoctona di alcuni laici. Tale cammino ci fa comprendere di quanta importanza, ai fini della salvezza eterna, sia rivestita l’aspirazione naturale della ragione umana alla verità. Fu infatti, come sappiamo, una leale ricerca della verità a spingere quei laici - era un gruppo di letterati e “filosofi” - a prendere contatti, non senza gravi rischi, con Pechino, laddove avevano sentito parlare della presenza di uomini, alcuni dei quali cattolici, che avrebbero potuto illuminarli sulla nuova fede da essi conosciuta mediante i nuovi libri. Questi laici, uomini e donne, giustamente considerati i “fondatori della Chiesa” in Corea, per ben 56 anni, dal 1779 al 1835, senza l’aiuto di sacerdoti - tranne la presenza assai breve di due sacerdoti cinesi - hanno diffuso il Vangelo nella loro patria fino all’arrivo dei missionari francesi nel 1836, e hanno offerto e sacrificato la vita per la loro fede in Cristo.
E quel Figlio di Dio che, venendo sulla terra tanti secoli prima, aveva detto: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv 18, 37), non poté deluderli nella loro ricerca, anzi, con la sua parola divina, li illuminò molto al di là di quanto essi all’inizio si attendevano. Li illuminò e li fortificò. Dette loro quello Spirito di fortezza che già li aveva guidati, senza che essi stessi se ne fossero resi conto nel cammino verso il Verbo di verità e verso il Padre.
È per questo Spirito di fortezza, che essi rimasero ben saldi in Cristo, pronti a perdere ogni bene, anche quello della vita, pur di non perdere lui, Gesù salvatore.
2. La Chiesa in terra coreana ha reso, specie nel corso dei primi cent’anni, una straordinaria testimonianza alla fede in Cristo, come ne sono prova le numerose schiere dei martiri.
Come è noto, durante l’Eucaristia giubilare del 6 maggio scorso a Seoul, mi è stato dato di canonizzare 103 martiri della Corea.
Questi martiri della Corea costituiscono un numero piccolo, ma particolarmente significativo, tra le migliaia e migliaia che vengono ricordati dalla storia.
Ciò che ci riempie di profonda ammirazione, almeno nelle testimonianze più eroiche che ci sono riferite, è l’eccezionale serenità e la misteriosa gioia delle quali, per uno speciale dono di Dio, essi furono capaci pur davanti alla prospettiva di crudeli tormenti e della morte. La fortezza dei martiri della Corea richiama alla memoria quella di cui si parla circa i primi secoli cristiani. In essi lo splendore particolare della testimonianza sembra risentire in qualche modo della disciplina orientale concernente l’autodominio e il distacco ascetico dai beni di questo mondo, compresa la stessa vita fisica, completando nella loro carne “quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1, 24).
3. Il Vangelo di oggi ci parla dei servitori che il re manda a chiamare gli invitati alle nozze di suo Figlio: “Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze” (Mt 22, 9).
Molti figli e figlie di Francia hanno compiuto un grande servizio missionario nei confronti della giovane Chiesa di Corea.
Infatti, papa Gregorio XVI, avendo ricevuto una lettera della comunità di laici che chiedevano l’invio di sacerdoti, si rivolse nel 1827 alla Società delle missioni estere di Parigi, che conosceva un momento di forte espansione missionaria, proponendole di rispondere alla richiesta. Tra i volontari che si presentarono, vi era il primo vescovo designato dalla Santa Sede come vicario apostolico per la terra di Corea, monsignor Barthélemy Bruguière. Egli morì però prima di raggiungere il suo luogo di destinazione.
Ma il martirio attendeva i francesi coraggiosi che dall’anno seguente, il 1836, cominciarono la loro attività in Corea: Pierre Maubant e Jacques Chastan. Furono poi martirizzati il secondo vicario apostolico, monsignor Laurent Imbert, arrivato nel 1837, poi monsignor Siméon Berneux, monsignor Antoine Daveluy, ed altri eroi francesi dei quali abbiamo iscritto i nomi, come voi sapete, “nel libro della vita” (Fil 4, 3; Ap 3, 5; 13, 8; 21, 27).
Questi martiri missionari hanno fraternizzato con i coreani in un’unica testimonianza di fede che mostra fino a che punto la carità ha un valore che non conosce le barriere o i limiti della nazionalità o della cultura. Colui che ama veramente la sua patria non può considerare “straniero” il cristiano di un altro Paese. E ogni vero cristiano considera suoi compatrioti, in un certo modo, gli uomini di altri Paesi. Come i missionari francesi seppero riconoscere dei fratelli nei coreani, così i coreani seppero riconoscere dei fratelli nei francesi. Il miglior modo di amare la propria patria e di rispettare quella degli altri è giustamente parte di questo spirito di “cattolicità”, cioè di autentica universalità, di questo amore per l’uomo insegnato dal Vangelo e che è un dono di Dio all’umanità intera.
Ecco perché il Vangelo è aperto ad ogni forma di cultura: esso feconda dall’interno le qualità spirituali e i doni propri delle diverse culture (cf. Gaudium et Spes, 53).
4. Dove dovrebbe condurci, oggi, questa riflessione sull’eroica testimonianza dei martiri, perché non rimanga un ricordo di essi meramente astratto?
Anche oggi, nonostante l’universale affermazione del principio della libertà religiosa, proclamata dalle organizzazioni internazionali, tanti nostri fratelli e sorelle, in non poche regioni del mondo, sono soggetti a incomprensioni, all’emarginazione, alla persecuzione e alla violenza fisica e morale a causa della loro fede in Cristo. In non poche nazioni, i cristiani così come i seguaci di altre religioni, sono imprigionati e privati delle loro libertà fondamentali.
In questa solenne e importante celebrazione in onore dei 103 martiri coreani mi appello alle autorità interessate e chiedo loro di fare in modo che la libertà religiosa dei loro concittadini sia rispettata ad ogni livello. Il loro popolo non può e non deve essere discriminato a causa della sua fede! I cristiani sono, e intendono rimanere, cittadini leali ed esemplari, ma “fermi nella fede” (cf. 1 Pt 5, 9), pronti e desiderosi di promuovere e di contribuire al progresso morale e civile dei loro Paesi con tutte le loro capacità!
Questa celebrazione vuole anche essere un’esaltazione doverosa e grata, da parte dell’intera Chiesa, del lavoro instancabile e generoso compiuto, nel passato come nel presente, dai missionari - sacerdoti, religiosi, religiose, laici, uomini e donne - che hanno lasciato la loro patria, la loro famiglia, i loro affetti e ideali umani per dare una pronta risposta alla chiamata di Cristo e diffondere il suo Vangelo in tutto il mondo! Questo dinamismo missionario, che è parte della realtà stessa della Chiesa, può adottare, nel corso del tempo, differenti metodi e strumenti per permettere che il messaggio del Vangelo abbia maggiore incidenza e efficacia secondo le varie circostanze. Ma questo dinamismo sarà sempre fondato e animato da un’intensa fede e da un’immensa carità e sostenuto e illuminato dagli insegnamenti della Chiesa.
In questo senso la testimonianza dei martiri della Corea è essenzialmente, ancor oggi, un esempio pienamente valido e splendido per tutti i missionari, ai quali rinnovo la mia gratitudine e quella dell’intero popolo di Dio!
5. Il testo della seconda lettura di questa messa, presa da san Paolo, illustra molto bene la spiritualità dell’apostolo-missionario-martire.
Ci sono sorprendenti similarità tra ciò che vediamo in molti martiri della Corea e la personalità del grande apostolo dei gentili: totale dedizione alla causa di Cristo; coraggio inflessibile e spirito di sacrificio per la difesa di quella causa fino alle estreme conseguenze; un desiderio irrefrenabile e incrollabile di condividere la gioia interiore della propria esperienza cristiana con il maggior numero possibile di anime, senza mai soccombere all’incomprensione o allo scoraggiamento.
“Ho imparato ad essere povero e ho imparato ad essere ricco . . .” (Fil 4, 12). Paolo era pronto a tutto e, nello stesso tempo, era distaccato da tutto. Era preoccupato di una sola cosa: essere e rimanere con Cristo. Ogni altra cosa era vista come secondaria e finalizzata a quel traguardo assoluto, in relazione a quel valore supremo e irrinunciabile. Da Gesù stesso riceveva la forza per il suo completo distacco. Mediante la grazia, Gesù lo teneva vicino a sé. Ciò avvenne anche con i martiri della Corea.
6. Oggi i figli e le figlie della Corea e quelli della Chiesa in Francia gridano insieme: “Possa il Padre del Signore nostro Gesù Cristo illuminare gli occhi della nostra mente per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati” (cf. Ef 1, 17-18).
Ecco la luce della vostra vita: la speranza della salvezza e del regno di Dio. Questa è la verità che deve guidare i nostri passi, facendoci superare tutti gli ostacoli che si oppongono a tale prospettiva: prepararsi ad attendere il regno del Signore, guardare sempre al di là della morte, e rendersi degni, con una vita santa, della terra nuova dei viventi. Il Signore Gesù sia la nostra guida. Diciamo anche noi con i martiri coreani e francesi: il Signore è mio Pastore! Egli mi rinfranca, mi sorregge e mi guida. Con lui non manco di nulla. Amen!
Oggi siamo qui riuniti, intorno all’altare di san Pietro, simbolo della “confessione” della vera fede, per celebrare insieme la santa Eucaristia in onore dei martiri della Corea, canonizzati in Seoul durante il periodo di Pasqua.
Con questo atto solenne vogliamo dare testimonianza non solo all’unità e all’universalità della Chiesa, ma anche al loro messaggio, alla loro “confessione” nel martirio, tanto rilevante e attuale oggi per il mondo e per la Chiesa universale.
Vorrei rivolgere uno speciale saluto ai carissimi fedeli coreani nella loro lingua:
Sia lodato Gesù Cristo! Sono davvero lieto e grato che siate venuti da così lontano per celebrare insieme con me la santa Eucaristia in onore dei santi martiri della Corea.
Auspico che la vostra vita di veri cristiani faccia risplendere nel mondo di oggi il loro eroico esempio!
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