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MESSA NELLA CHIESA PARROCCHIALE DI SAN TOMMASO DA VILLANOVA

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Festa della Trasfigurazione - Castel Gandolfo
Domenica, 6 agosto 1989

 

“Maestro, è bello per noi stare qui” (Lc 9, 33).

1. Quale gioia più grande di quella di contemplare Cristo nella sua gloria? La nostra eterna beatitudine consisterà appunto in questa visione a “faccia a faccia” del Verbo incarnato, nella luce della Trinità.

Pietro, Giovanni e Giacomo, nell’episodio della Trasfigurazione del Signore sul monte Tabor, hanno potuto pregustare la gioia e l’incontro della visione beatifica del paradiso. “Siamo stati testimoni oculari della sua grandezza”, dirà Pietro (2 Pt 1, 16); e Giovanni, dal canto suo, attesterà: “Abbiamo veduto con i nostri occhi, abbiamo contemplato ed abbiamo toccato il Verbo della Vita” (cf. 1 Gv 1, 1).

Nella Trasfigurazione, come in altri momenti importanti della vita terrena del Signore, è Pietro, che prende la parola, facendosi portavoce dei sentimenti degli altri due apostoli: Pietro, corifeo della fede degli apostoli, della fede della Chiesa.

2. Fratelli carissimi, come è nostra consuetudine, nella giornata odierna ricordiamo la pia morte del venerato Pontefice Paolo VI, avvenuta, proprio in questa data, undici anni fa.

Paolo VI, successore di Pietro. Paolo VI, come Pietro, ci è stato maestro nella fede, ci ha confermati nella fede. Come Pietro egli ha avuto luce, ha avuto fede, per mostrare ai fratelli la verità su Cristo, l’amore a Cristo, la via che conduce alla visione beata di Dio. “Piacque alla sapienza di Dio - ebbe a dire nella sua esortazione apostolica “Gaudete in Domino” - porre la Roma di Pietro e Paolo, sulla strada, diciamo che conduce alla città eterna, per il fatto che essa ha scelto di affidare a Pietro le chiavi del regno dei cieli” (Gaudete in Domino, 7). E ricordava la saldezza del carisma petrino, quella soliditas Petri, sulla quale tutti ci dobbiamo fondare, per conoscere con certezza l’autenticità degli insegnamenti di nostro Signore. E questo perché - spiegava ancora quel Pontefice riprendendo le parole di san Leone Magno (Sermo V, 4) - “La stabilità che egli ricevette dalla Pietra che è Cristo, egli, divenuto anche lui Pietra, la trasmette ugualmente ai suoi successori” con una fede invincibile che non teme le avversità, le incomprensioni, i tradimenti e le più amare delusioni. La croce del successore di Pietro è legata alla sua stessa missione di maestro della fede. E Paolo VI non si sottrasse a questa croce. Infatti, come ebbi a dire in una mia omelia del settembre 1979: “Non gli furono estranei gli “insulti” e gli “sputi”” (cf. Is 50, 6) che ha subìto come maestro e servitore della verità. Alla sua anima non furono estranee quella “tristezza e angoscia che nascono dal senso responsabilità per i valori più santi, per la grande causa che Dio affida all’uomo”.

3. “Paolo VI - dissi in un’altra occasione (6 agosto 1983) e lo voglio ripetere oggi - confermi soprattutto i nostri animi nella fede cattolica! In un lontano scritto, meditando sulla dottrina e sull’esperienza di san Paolo, il suo grande ideale, egli affermava con intrepido ardore: “L’ortodossia è un’esigenza primordiale del cristianesimo . . . Dove nel nostro mondo Cristo è assente, bisogna fare ogni sforzo cordiale e persuasivo, per renderlo presente. Dove nel nostro mondo Cristo è deformato e distratto ad altri fini che non quelli dell’eterna salvezza, bisogna essere fieri e duri nel difenderlo”.

Era la coscienza, che egli aveva della missione petrina, a lui affidata come Pastore della Chiesa universale e maestro della fede. “Siamo scelti, siamo chiamati - diceva egli appunto ad un’assemblea del Sinodo dei Vescovi - siamo investiti dal Signore di una missione trasformatrice. Come Vescovi, siamo i successori degli apostoli, i Pastori della Chiesa di Dio. Un dovere ci qualifica: essere testimoni, essere portatori del messaggio evangelico, essere maestri, di fronte all’umanità. Tutto questo vogliamo ricordare, venerati confratelli, per ravvivare la coscienza della nostra vocazione, delle responsabilità dell’ufficio grande, pericoloso, incomodo che ci è stato affidato; ma soprattutto per riconfermare tutta la nostra fiducia nell’assistenza di Cristo alle nostre sofferenze, alle nostre fatiche, alle nostre speranze”.

4. La missione apostolica comporta gli stessi sentimenti di Cristo crocifisso e risorto (cf. Fil 2, 5). Se Papa Paolo VI ebbe a sperimentare la sofferenza, nel fondo del suo cuore c’era la gioia, quella che nasce dal compimento fedele del dovere quotidiano, dalla partecipazione alle sofferenze di Cristo, dall’attesa della beata speranza della gloria celeste. E per questo egli, proprio in un periodo particolarmente travagliato del suo pontificato, ha potuto parlare con accenti così intensi e sentiti della gioia cristiana, nell’esortazione apostolica già citata, Gaudete in Domino. Questa gioia, diceva il Papa, nasce da una “trasfigurazione delle umili gioie umane, che sono nella nostra vita come i semi di una realtà più alta” (Gaudete in Domino, III), di una gioia divina e trascendente che si conquista attraverso l’accettazione della croce nella fedeltà a Cristo ed alla missione da lui ricevuta. Nell’accoglimento della Parola di Dio, osservava ancora il Pontefice, la pena stessa dell’uomo si trova trasfigurata, mentre la pienezza della gioia sgorga dalla vittoria del Crocifisso, dal suo Cuore trafitto, dal suo Corpo glorificato, e rischiara le tenebre delle anime: “Et nox mea illuminatio mea in deliciis meis (“Praeconium Paschale”)” (Gaudete in Domino, III).

La gioia cristiana è la gioia della Trasfigurazione, che è a sua volta pregustazione della gioia ineffabile ed eterna della Gerusalemme celeste. Mi piace pensare che la morte di Papa Paolo VI nel giorno stesso della Trasfigurazione sia come un segno profetico: egli infatti, in quelle parole per l’Angelus del 6 agosto 1978, che non poté pronunciare, vedeva nel fatto evangelico “il trascendente destino della nostra natura umana, che (Cristo) ha assunto per salvarci, destinata anch’essa, perché redenta dal suo sacrificio d’amore irrevocabile, a partecipare alla pienezza della vita . . . Quel corpo, che si trasfigura davanti agli occhi attoniti degli apostoli - continuava Paolo VI - è il Corpo di Cristo nostro fratello, chiamato alla gloria; quella luce che lo inonda è e sarà anche la nostra parte di eredità e di splendore” (Insegnamenti di Paolo VI, XVI, [1978] 588).

5. Il travaglio personale di Paolo VI, nell’intima incrollabile fiducia in Cristo e nell’assistenza dello Spirito Santo, giunge quasi a confondersi col travaglio della Chiesa, sposa di Cristo, tutta protesa a realizzare la volontà del Signore, così come si è espressa negli insegnamenti del Concilio Vaticano II. Ogni vero rinnovamento è costoso, richiede di rinunciare alla propria volontà per compiere quella del Padre, così come essa si manifesta in coloro che hanno la responsabilità di guidare le anime.

Paolo VI ha fatto totalmente suoi gli interessi della Chiesa e così, abbiamo come un riflesso del cammino stesso della sposa di Cristo verso un’era nuova della sua storia, in un faticoso ma sostanzialmente gioioso processo di “trasfigurazione”. Così infatti Paolo VI ha inteso il rinnovamento conciliare. Egli lo ha descritto come sforzo della Chiesa per essere come Cristo la vuole, in tensione verso quella “perfezione”, che corrisponde alla “concezione ideale, nel pensiero divino” (Ecclesiam Suam, II, 193); come reazione di “nuove energie, rivolte a quella santità che Cristo c’insegnò e che, con il suo esempio, la sua parola, la sua grazia, la sua scuola, sorretta dalla tradizione ecclesiastica, fortificata dalla sua azione comunitaria, illustrata dalle singolari figure dei santi, rende a noi possibile conoscere, desiderare ed anche conseguire” (Ecclesiam Suam, II, 193).

Rinnovamento vuol dire altresì “rendere quanto più agevole sia possibile, in armonia col carattere soprannaturale che le è proprio, la pratica della vita cristiana”, la quale ha certo una sua intrinseca austerità, che però non dev’essere esagerata, giacché, come dice il Signore, “il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero” (Mt 11, 30). Si tratta, dice ancora Papa Paolo, di “mondare e ringiovanire il volto della Santa Chiesa” (Ecclesiam Suam, 22), senza alterarne “la concezione essenziale e le strutture fondamentali” Ecclesiam Suam, 23), così da poter conservare anche per oggi “l’eredità intatta e viva della tradizione apostolica” Ecclesiam Suam, 23).

Anche sul modo di questo rinnovamento Paolo VI è stato esplicito: “Non tanto cambiando le sue leggi esteriori la Chiesa ritroverà la sua rinascente giovinezza, quanto mettendo interiormente il suo spirito in attitudine di obbedire a Cristo, e perciò di osservare quelle leggi che la Chiesa nell’intento di seguire la via di Cristo prescrive a se stessa: qui sta il segreto del suo rinnovamento, qui la sua metanoia, qui il suo esercizio di perfezione” Ecclesiam Suam, 28). Così il vero rinnovamento sarà uno stimolo ad una maggiore perfezione spirituale.

6. Questi insegnamenti di Papa Montini sono attuali. Il rinnovamento conciliare è ancora in corso ed è ben lungi dall’essersi pienamente attuato; occorre ovviamente evitarne certe false interpretazioni o attuazioni, dalle quali il compianto Pontefice ci ha messo in guardia nella sua prima enciclica.

Preghiamo perché come quel grande Pontefice confermò nella fede il Popolo di Dio, che gli era stato affidato, così non cessi ora col suo esempio, col suo amore, con la sua intercessione di assistere la Chiesa che tanto ha amato e per la quale si è prodigato perché continui ad essere nel mondo la luce di Cristo, e a irradiare sugli uomini gli splendori della sua Trasfigurazione.

 

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