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VISITA PASTORALE A BOLOGNA E IN EMILIA ROMAGNA

INCONTRO DI GIOVANNI PAOLO II
CON IL CLERO, I RELIGIOSI E LE SUORE

Domenica, 18 aprile 1982

 

Carissimi fratelli e sorelle!

1. È per me una gioia, che ogni volta si rinnova con intatta freschezza, il poter incontrare, nel corso delle mie visite pastorali, coloro che a Cristo si sono donati nella pienezza delle loro energie spirituali e fisiche, accogliendo la sua chiamata ad un impegno senza riserve per l’avvento del Regno di Dio.

A voi rivolgo, pertanto, il mio saluto affettuoso, sacerdoti, religiosi, religiose e membri degli Istituti Secolari dell’Emilia-Romagna che vi siete raccolti in questa vetusta Basilica di san Pietro, per esprimere il vostro attaccamento e la vostra devozione all’umile suo successore, chiamato da Cristo al compito formidabile di “pascere i suoi agnelli e le sue pecorelle” (cf. Gv 21, 15-17). Facendo mie le parole dell’apostolo Paolo, desidero ripetere a voi, oggi, con vivo trasporto: “Il mio amore è con tutti voi in Cristo Gesù” (1 Cor 16, 23).

Conosco le nobili tradizioni di zelo operoso, che hanno sempre distinto il clero ed i religiosi di questa Terra, nella quale tanti secoli or sono sant’Apollinare sparse il seme della Parola di Dio, avviando un’opera di dissodamento spirituale, che doveva dare frutti preziosi di vita cristiana. Accanto a lui e dopo di lui, una schiera gloriosa di operai evangelici si è chinata su queste zolle feconde, bagnandole col sudore di un’inesausta dedizione apostolica ed irrorandole a volte col sangue della suprema testimonianza.

Anche oggi, in tempi sotto certi aspetti non meno difficili, altre anime generose hanno rilevato dalle mani di chi le ha precedute la fiaccola dell’annuncio evangelico, assumendosi il compito di portare la luce di Cristo alla generazione attuale, attratta spesso e sviata dai fuochi fatui di ideologie ingannevoli. Queste anime generose siete voi, sacerdoti, religiosi e religiose, operanti nelle nobili Chiese dell’Emilia-Romagna! Siete voi, membri degli Istituti Secolari, che in forme nuove, dettate dalle esigenze dei tempi, perseguite il medesimo ideale, quello di essere il lievito evangelico, posto nella massa di farina “finché sia tutta fermentata” (Lc 13, 21). Siete voi, Claustrali dei 46 Monasteri della Regione, spiritualmente qui presenti con la preghiera e con l’offerta della vostra vita.

2. A ciascuno di voi voglio oggi rivolgere innanzitutto un invito alla fiducia. Cristo è risorto! L’annuncio gioioso, che la liturgia pasquale ha fatto riecheggiare nuovamente in questi giorni, è la conferma di una realtà di cui vive la storia dell’umanità. Cristo ha mantenuto la promessa fatta ai suoi discepoli: al terzo giorno dalla sua morte, egli è risuscitato ed è entrato nell’immortalità. Egli vive e vivrà per sempre!

Di più: egli è risorto non per sé soltanto, ma anche per noi. Ciascun uomo, che in lui crede, è introdotto nell’ambito della vita ulteriore che egli - “primogenito fra molti fratelli” (Rm 8, 29) - ha inaugurato per noi. Il mistero della Pasqua non riguarda soltanto lui, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo: riguarda anche noi, figli degli uomini, che in lui siamo diventati figli di Dio. La forza della sua risurrezione già opera nel mondo come dinamismo vittorioso, che sospinge quanti l’accettano nella fede verso il traguardo supremo della vita piena al di là della morte.

Quale carica di ottimismo non si sprigiona da un simile messaggio! La vita, per chi ha fede, si prospetta al termine della vicenda umana, come radioso approdo oltre l’oscuro gorgo della morte. Il bene porta in sé l’assicurazione della finale vittoria sul male. La felicità si annuncia come aspirazione realizzabile ed in misura sovreminente, quale il nostro cuore neppure riesce ad immaginare (cf. 1 Cor 2, 9).

E che spinta alla generosità ed all’impegno non deriva da tale annuncio a coloro che vogliono recare il proprio contributo al progresso dell’umanità! Essi sanno di poter contare sullo Spirito, che il Cristo risorto ha donato alla Chiesa (cf. Gv 20, 22), perché susciti dalla città terrestre e mortale quella celeste ed immortale, vivificando e sostenendo la dedizione di quanti si sforzano di orientare l’ordine temporale verso la libertà e la giustizia, verso l’unità e la concordia, verso l’amore reciproco e la pace operosa.

Lasciatevi pervadere, carissimi, dalla gioia che scaturisce dal messaggio pasquale, così che essa si irradi da ogni vostra parola e da ogni vostro atteggiamento.

3. Questa è, appunto, la seconda parola che desidero oggi affidarvi: siate dei testimoni. Testimoni della speranza che ha le sue radici nella fede. Testimoni dell’invisibile in una società secolarizzata, che esclude troppo spesso ogni dimensione trascendente.

Sì, carissimi sacerdoti, religiosi, anime consacrate: in mezzo agli uomini di questa generazione, così immersa nel relativo, voi dovete essere voci che parlano di assoluto. Non avete voi forse gettato, per così dire, tutte le vostre risorse sulla bilancia del mondo, per far sì che essa pieghi felicemente verso Dio ed i beni da lui promessi? La vostra è stata una scelta decisiva sulla vostra vita: avete optato per la generosità e per il dono di fronte alla cupidigia ed al calcolo; avete scelto di contare sull’amore e sulla grazia, sfidando quanti vi reputano per questo ingenui e inconcludenti; avete puntato ogni vostra speranza sul Regno dei cieli, quando molti intorno a voi non si affannano che per assicurarsi una confortevole dimora sulla terra.

A voi, ora, di essere coerenti, nonostante ogni difficoltà. Il destino spirituale di tante anime è legato alla vostra fede e alla vostra coerenza.

Di tale destino, che si svolge nel tempo ma che ha per mèta l’eterno, voi dovete essere il costante richiamo, testimoniando con la parola, e più con la vita, il necessario orientamento verso Colui che costituisce l’ineludibile approdo della nostra parabola esistenziale. La vostra vocazione vi pone come scolte avanzate dell’umanità in cammino: nella vostra preghiera e nella vostra fatica, nella vostra gioia e nella vostra sofferenza, nei vostri successi e nelle vostre prove, l’umanità deve poter trovare il modello e l’anticipazione di quello che anch’essa è chiamata ad essere, nonostante le proprie pesantezze ed i propri compromessi.

4. In questo contesto, vorrei dire una particolare parola a coloro che l’ordinazione sacra deputa ad una specifica missione nel piano della salvezza. Molte sono state, in questi anni, le discussioni circa la natura del presbiterato e circa la funzione che ad esso compete nella Chiesa. Non pochi sacerdoti hanno subìto, in conseguenza, una “crisi di identità”, che ne ha frenato l’impegno. È tempo ormai di riscoprire la grandezza del dono che Cristo ha fatto alla Chiesa, istituendo il sacerdozio ministeriale. È tempo, soprattutto, di ritrovare lo slancio generoso nel corrispondere alla sua chiamata e nell’accogliere dalle sue labbra la consegna: “Andate nel mondo intero e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16, 15).

Questa è, infatti, la missione essenziale del sacerdote. Egli è l’annunciatore della Parola di Dio, quale è risonata da ultimo e in modo definitivo in Gesù Cristo. È la parola dell’amore di Dio per tutti gli uomini, da lui chiamati a formare una sola famiglia: una parola che chiede di tradursi in azioni concrete ed anche in istituzioni sociali nuove e migliori. Tali conseguenze sociali innovatrici, tuttavia, non sarà di regola il sacerdote a doverle trarre: questo impegno infatti costituisce la missione propria dei laici (cf. Lumen Gentium, 31; Apostolicam Actuositatem, 7; Ad Gentes, 21).

Così pure: la parola del messaggio evangelico, affidata al sacerdote, è parola di perdono, che libera dalla alienazione del peccato e riaccende nel cuore la speranza. Non v’è dubbio che essa esplichi un’azione lenitiva sulle ferite che la colpa può aver lasciato nella psiche di chi se n’è reso responsabile: non sarà tuttavia il sacerdote a doversi far carico d’una specifica terapia psicologica, che miri a risolvere i traumi conseguenti ad errate esperienze del passato (cf. Monitum Supremae Sacrae Congregationis S. Officii, 3, die 15 iul. 1961: AAS 53 [1961] 571).

La parola, che il sacerdote annuncia, raggiunge il suo vertice nel Sacrificio eucaristico nel quale il Pane, che è il Corpo di Cristo, viene “spezzato” e “dato” per gli uomini. Chi non vede in tale gesto un chiaro invito alla condivisione di tutti quegli altri beni che il Creatore ha posto sulla “mensa” della terra per gli uomini, che sono tutti egualmente suoi figli? E tuttavia l’impegno concreto per una più equa distribuzione, fra singoli e nazioni, delle risorse disponibili è compito che chiama direttamente in causa non il sacerdote, ma i responsabili della vita economica e politica nell’ambito della città, della nazione, del mondo intero (cf. Lumen Gentium, 36; Apostolicam Actuositatem, 14; Gaudium et Spes, 69).

È forse questo un discorso pavido e rinunciatario? Vi si deve forse riconoscere una fuga nell’impegno concreto? Può pensare così soltanto chi non ha misurato in tutta la sua ampiezza il personale coinvolgimento, che dal prete esige la missione, a lui affidata, di “annunciare la Parola”. Se a certi compiti egli deve rinunciare, è solo per poter svolgere fino in fondo il compito che gli è proprio: essere il portatore di un messaggio, che non si identifica con nessun ruolo particolare, ma che ogni ruolo giudica e richiama alla radicale serietà della norma suprema: “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15, 12).

Per poter annunciare la “parola di salvezza” (At 13, 26) con la superiore libertà, che gli deriva dal non essere “parte in causa” nelle tensioni presenti nella Comunità e nel mondo, il sacerdote deve sottoporre se stesso ad un continuo autocontrollo ed affrontare anche il disagio di sentirsi a volte incompreso, o addirittura contestato e respinto. La generosa dedizione al proprio compito non mancherà di ottenergli da Dio quella “parresia” (cf. At 4, 29.31; 28, 31), che consentì al primi apostoli di affrontare un mondo ancora totalmente pagano e di trasformarlo.

5. “Annunciare la Parola”, questa è la vostra missione specifica, carissimi sacerdoti. Qui sta la radice del vostro quotidiano assillo, qui la fonte inesauribile della vostra più autentica gioia. Come ministri della Parola, però - è questo l’ultimo pensiero che vi lascio - voi dovete conoscere sia il contenuto del messaggio che ci è affidato, sia la mentalità delle persone alle quali esso è destinato. Questo significa che voi dovete sforzarvi di essere uomini di cultura e, in particolare, veri teologi.

Mi piace richiamare questo impegno, qui, in una Regione che ha al suo centro una città come Bologna che, in fatto di cultura, ha brillato nei secoli come faro di luce splendidissima. A voi la fierezza di tenere fede ad una così nobile tradizione, sia curando il costante adeguamento delle strutture formative centrali e periferiche, sia impegnandovi personalmente in quella approfondita riflessione sulla Parola di Dio nel contesto degli interrogativi emergenti dall’esperienza, che costituisce l’anima di ogni vera teologia.

Sarà grazie a tale sforzo che voi eviterete di essere o ripetitori sbiaditi di formule in sé giuste ma non calate nella problematica odierna, oppure innovatori spericolati che sanno, sì, recepire gli umori del momento, ma non valutarli con maturo “discernimento” (la “diàkrisis” di cui parla san Paolo) (cf. 1 Cor 12, 10), alla luce del supremo criterio, che è e resterà sempre la Parola di Dio. Il rischio di essere infantilmente “sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina” (Ef 4, 13) non è solo del passato, ma investe ogni epoca della storia, quella nostra non esclusa.

È necessario quindi “dedicarsi alla lettura” (1 Tm 4, 13), approfondendo la conoscenza delle Scritture, le quali possono “istruire per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù” (2 Tm 3, 15) e proclamare poi con fedeltà quanto in esse è proposto, non limitando l’annuncio a ciò che è gradito al proprio cuore, forse ancora troppo “indurito”, o a ciò che si pensa possa incontrare il plauso o, almeno, il benevolo accoglimento dell’ambiente. Anche oggi, infatti, come ieri e come sempre, resta vero che il Vangelo della Croce è “scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati . . . potenza di Dio e sapienza di Dio” (1 Cor 1, 23-24).

6. Carissimi, nell’accomiatarmi da voi, desidero rinnovare l’esortazione alla fiducia ed all’ottimismo, con cui ho esordito. Non ci è stato ripetuto proprio oggi dalla Liturgia che nella nostra fede sta “la vittoria che ha sconfitto il mondo” (1 Gv 5, 4)? Abbiate fede, dunque, “pur non avendo visto” (Gv 20, 29) ed ogni problema sarà alla fine risolto e superato.

La Vergine santa, che di tale fede coraggiosa è modello insuperabile, vi sia accanto col suo costante aiuto e vi accompagni lungo le strade del vostro servizio ecclesiale, affinché possiate spargere a piene mani nell’animo di tanti fratelli e sorelle il seme della speranza che “non delude” (Rm 5, 5). Nel nome suo, a tutti imparto di cuore la mia apostolica benedizione. 

                                                   



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