DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
ALLA SOLENNE COMMEMORAZIONE DEL
XX ANNIVERSARIO DELLA «POPULORUM PROGRESSIO»
Aula del Sinodo dei Vescovi - Martedì, 24 marzo 1987
Signori Cardinali,
cari fratelli nell’episcopato,
illustri Rappresentanti del Corpo Diplomatico,
Signore e Signori.
1. Siamo qui riuniti oggi per commemorare, in seduta solenne, il ventesimo anniversario dell’enciclica Populorum Progressio, promulgata dal mio venerato predecessore Paolo VI il 26 marzo 1967. Sono molto lieto di trovarmi qui con voi, per contribuire alla commemorazione dell’importante documento con alcune riflessioni che la circostanza suscita nel mio animo. Ringrazio il signor Cardinale Etchegaray e il signor Rafael Caldera per le profonde riflessioni che ci hanno proposto.
Rivolgo a tutti un cordiale saluto, mentre desidero esprimere il mio vivo compiacimento per questa iniziativa opportunamente promossa dalla Pontificia Commissione “Iustitia et Pax” e mi auguro che essa possa suscitare una maggiore attenzione per gli insegnamenti sociali della Chiesa.
Vorrei innanzitutto con voi ringraziare il Signore, per aver concesso alla Chiesa e a Papa Paolo VI di poter rispondere con questa enciclica alle attese e alle speranze, ed anche alle angosce, anzi alle “grida” (cf. Paolo VI, Populorum Progressio, 30) di tantissimi uomini e donne di ogni ceto e condizione sociale, di ogni origine etnica e di ogni fede religiosa, che si sono così sentiti interpretati dal tenore dell’enciclica, gli uni per ricavarne nuove forze e ragioni per vivere, gli altri per meglio capire responsabilità che noi tutti, senza eccezione, abbiamo nei confronti dei nostri fratelli e sorelle in condizioni più bisognose.
Ringraziamo il Signore anche perché, nel corso di questi anni, gli insegnamenti dell’enciclica hanno spesso trovato un terreno fertile ed hanno prodotto frutto abbondante.
Dio solo sa quante iniziative e quante opere, nella Chiesa cattolica e al di fuori di essa, sono state messe in moto dall’insegnamento della Populorum Progressio. Sia ringraziato e benedetto per questo.
2. L’eco suscitata dall’enciclica mostra quanto il messaggio in essa contenuto fosse attuale e necessario.
Noi ricordiamo infatti che, in quegli anni, vi era una certa euforia, illusoriamente ottimistica, circa il “progresso” e lo sviluppo. Si parlava, con un certo ingenuo compiacimento di diversi “miracoli” economici. Nonostante, però, un innegabile progresso economico e sociale in molti ambienti e una più diffusa consapevolezza che i criteri economici non sono gli unici per determinare il valore della vita, in realtà le piaghe, nascoste ma non guarite, restavano in tante regioni del mondo con tutto il loro drammatico potenziale di morte. Anzi più il “miracolo” sembrava luccicare, più si preparava la manifestazione delle sue ombre e carenze. Il mondo era diventato piccolo; questo era appunto uno degli effetti del “miracolo”. Ma in conseguenza di ciò Lazzaro non era più, come prima, distante ed invisibile, bensì vicino alla porta dell’uomo ricco; e vi era “coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco” (cf. Lc 16, 19-21). Era vicino insomma alla nostra porta.
“La questione sociale”, osservava dal canto suo l’enciclica con realismo, “ha acquistato una dimensione mondiale” (Paolo VI, Populorum Progressio, 3.9).
Infatti, alcuni mesi dopo la sua promulgazione, sarebbero esplose a catena, una dopo l’altra, tante manifestazioni violente, specie tra i giovani, delusi, disgustati e insofferenti. E queste manifestazioni, con i loro dolorosi strascichi, sarebbero scoppiate in quella parte del mondo dove il “miracolo” economico si era apparentemente avverato.
3. Non emerge forse, già, da questo fatto, un notevole indizio delle carenze e dei limiti di quel cosiddetto “miracolo” e del prezzo che per esso si è dovuto pagare?
Se, quindi, in quel movimentato contesto storico, l’enciclica Populorum Progressio ha incontrato un’eco positiva, che perdura fino ad oggi, ciò si deve, indubbiamente, al fatto che essa è riuscita a capire il vero dramma di quel momento della storia: il progresso di molti, la miseria dei più, lo scandalo della giustapposizione della una situazione con l’altra e, in cima a tutto, la dolorosa sensazione che un certo tipo di sviluppo non recava con sé l’agognata felicità.
Al di là di ogni teoria economica specifica, anzi in margine ad una lettura dei fatti in chiave politica, il grande merito di Paolo VI sta nell’aver colto l’appello che da questa situazione drammatica veniva lanciato ad ogni coscienza umana ed anzitutto ad ogni coscienza cristiana.
L’analisi, del resto, che permetteva a questo appello di esprimersi e di farsi sentire, non era poi così difficile da fare, né si richiedeva a questo scopo una speciale metodologia sociologica.
4. Bastavano infatti per essa due chiavi di lettura delle quali il Papa fece uso sapiente. La prima era la parola di Dio, alla cui luce la Chiesa ed i suoi pastori sono chiamati a leggere il senso degli avvenimenti che ci circondano ed in cui siamo immersi, a leggere, cioè, i cosiddetti “segni dei tempi”.
E l’altra era l’esperienza stessa della Chiesa, “esperta in umanità”, come disse Paolo VI: esperienza che viene autorevolmente espressa, per quanto riguarda la vocazione dell’uomo nella società, dal magistero sociale della Chiesa.
In questo senso, e tenuto ben conto di queste due fonti di luce, l’enciclica Populorum Progressio merita certamente la qualifica di “evangelica”. Essa infatti non è l’esclusivo risultato di uno studio fatto con l’aiuto delle scienze sociali, per quanto queste abbiano contribuito alla sua preparazione. È invece anzitutto il frutto di una approfondita meditazione pastorale sulla realtà umana del mondo di quegli anni, sotto la guida magnanima ma esigente del Vangelo e della tradizione della Chiesa in materia sociale.
5. La Populorum Progressio è riuscita ad interpretare, grazie alla sua fedeltà alla parola di Dio e alla sua continuità col magistero sociale precedente, i timori e le attese di migliaia e migliaia di uomini e donne, ravvivando le speranze, svegliando i cuori e le menti intorpidite, spronando a nuovi e decisivi impegni, segnando più umani, solidali traguardi.
Se taluni poi, in quel momento, e forse tuttora, hanno reagito con una certa insofferenza, pensando che il magistero della Chiesa trattando di certi argomenti, sconfini dalla propria competenza, non sarà forse inutile che considerino appunto le due fonti d’ispirazione testé riferite: il Vangelo e l’esperienza storica della Chiesa stessa.
Essa, nel promulgare un documento come l’enciclica Populorum Progressio, non ha fatto altro che applicare alla realtà concreta di un determinato frangente storico la luce che riceve dalla parola di Dio e dalla propria riflessione su di essa.
6. L’enciclica si inserisce così in un ormai lungo cammino magisteriale, mediante il quale la Chiesa, ed in particolare la Santa Sede, fondandosi sulla missione ricevuta da Cristo Signore, intende rispondere alle questioni che toccano la vita concreta degli uomini e delle donne di questo mondo, in quanto portatori dell’immagine divina e quindi soggetti di diritti inalienabili, chiamati ad un destino eterno di comunione con Dio e tra di loro, ma anche a quella misura di terreno benessere che è richiesta dalla loro comune dignità.
In questo cammino, che, dopo la fondamentale tappa dell’enciclica Rerum Novarum, si snoda attraverso la Quadragesimo Anno e la Mater et Magistra fino alla Evangelii Nuntiandi e alla Laborem Exercens, la Populorum Progressio segna una fase particolarmente significativa.
Essa infatti ha avuto come effetto immediato di porre agli uomini di questi ultimi vent’anni la questione difficile, ma inevitabile, del senso e della nozione del vero progresso.
Sembra infatti oramai acquisita, non senza amarezze e delusioni, l’esperienza della non linearità e della crescita non indefinita dello sviluppo. Tutti siamo così diventati consapevoli dei limiti intrinseci ed estrinseci che ad esso sono posti dalla finitezza della natura, dalle esigenze etiche, ed in fondo dalla vera vocazione umana e dalla sua finalità. Un certo tipo di progresso viene messo, in questo modo, radicalmente in questione (cf. Paolo VI, Populorum Progressio, 14ss.).
7. L’analisi del progresso materiale, e specialmente di quello economico, non può fare a meno di queste fondamentali considerazioni. Non si può concepire ed attuare il progresso come se ciò che conta fosse soltanto l’arricchimento materiale ed egoistico, a costo di esaurire le risorse naturali, di rovinare l’ambiente ecologico, di non attendere alle necessità umane di ogni lavoratore e alla giusta gerarchia dei beni e dei fini.
In questo senso, il richiamo dell’enciclica al principio di antica tradizione cristiana della destinazione universale dei beni (cf. Paolo VI, Populorum Progressio, 22), già ricordato, ed in termini non meno forti, dalla costituzione pastorale Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II (cf. Gaudium et Spes, 69), nella linea dei Padri della Chiesa e dei Dottori medievali, rimane un caposaldo della dottrina sociale e della nozione stessa di progresso.
E ancora, quando l’enciclica fa presente, con chiare espressioni, che il progresso va concepito come transito da condizioni meno umane a condizioni più umane di vita, si deve dire che essa dà alla nozione di progresso un nuovo e più profondo contenuto.
Tale nozione di progresso, richiesta dalla vocazione propria dell’uomo e dalla sua finalità temporale, ed eterna, svolge una critica penetrante sia delle varie forme di capitalismo liberale, sia dei sistemi totalitari, ispirati al collettivismo. Anche in questi, infatti, il valore economico è visto come supremo con la conseguenza che ad esso e al tipo di sviluppo che ne deriva l’uomo e la vocazione sua propria vengono fatti servire. Alla luce della profonda analisi proposta dall’enciclica, è dato vedere come, per certi versi, i due sistemi che, almeno nelle loro forme più rigide, oggi si dividono il mondo, hanno certe convergenze che il confronto politico tende a dissimulare.
8. Da questo punto di vista. è doveroso dire che l’enciclica ha chiarito come le divisioni che lacerano il tessuto della umanità non sono soltanto quelle ideologico-politiche, esistenti tra Est ed Ovest, ma anche quelle economico-sociali, rilevabili tra Nord e Sud; e che le prime non sono poi del tutto indipendenti dalle seconde. Per ricucire queste lacerazioni non bisogna dimenticarne nessuna, ma cercare di superarle tutte, sia pur con metodi diversi.
L’enciclica, in uno dei suoi asserti, divenuto ormai proverbiale, indica appunto come queste diverse lacerazioni incidano l’una sull’altra, e si aggravino a vicenda, affermando che “lo sviluppo è il nuovo nome della pace” (Paolo VI, Populorum Progressio, 73).
Ciò significa, tra l’altro, che il divario tra una parte del mondo, ricca di beni, e l’altra, povera e carente influisce sulle divisioni politiche e ne accentua il carattere conflittuale e la potenziale esplosività. Non a caso lo stesso Paolo VI, a Bogotà, l’anno seguente (1968), parlava delle “rivoluzioni esplosive della disperazione” (cf. Paolo VI, Homilia christifidelibus columbianis atque peregrinis habita, qui Sacro interfuerunt peracto die progressioni provehendae dicato, die 23 oct. 1968: Insegnamenti di Paolo VI, VI [1968] 388).
A venti anni di distanza, queste parole appaiono dotate di valore profetico. Chi oserebbe oggi mettere in dubbio l’intrinseca connessione tra la realtà lacerante della denutrizione, della mortalità infantile, della fame, della disoccupazione, della speranza di vita limitata, dell’indebitamento internazionale, dello sviluppo ostacolato di intere nazioni, e la precarietà di ogni forma di pace a livello locale, regionale e mondiale?
L’enciclica Populorum Progressio ha avuto il merito insigne di porre la questione in questi termini precisi alla coscienza dell’umanità.
9. Sì, i tempi sono cambiati, e di molto. Al ritmo accelerato con cui attualmente i mutamenti sociali si succedono tra loro, venti anni sono già molti. E d’altronde, siamo ormai alle soglie di quella scadenza, convenzionale quanto si vuole, ma ciò nonostante significativa ed in sé importante, che è l’anno 2000.
Se la questione sociale ha oggi l’ampiezza del mondo, quali dimensioni avrà, per quella data, ormai vicina?
Nel 1967 era iniziata da alcuni anni la conquista dello spazio. Da allora abbiamo visto il progressivo perfezionarsi della tecnologia che ha raggiunto traguardi fino a ieri inimmaginabili, giungendo a manipolare le sorgenti stesse della vita. La rete sottile di sistemi globali di informazione, dal canto suo, ci avvolge da ogni parte e penetra anche nella nostra vita privata.
Purtroppo, queste sofisticatissime forme della tecnologia contemporanea, in se stesse buone, ma distribuite così disegualmente e da taluni utilizzate senza preoccupazioni di ordine etico, sono servite troppo spesso alla progettazione e alla realizzazione di interventi contrari alla vita e alla dignità dell’uomo.
E a questo panorama non certo roseo si aggiunge ancora la piaga della disoccupazione, della quale ho parlato nell’enciclica Laborem Exercens (Giovanni Paolo II, Laborem Exercens, 18).
10. Tale piaga, lungi dall’essere contenuta o ridotta, continua a dilagare a danno soprattutto delle giovani generazioni. È questo un sintomo estremamente preoccupante non soltanto dello stato della nostra società, ma anche delle condizioni dell’economia, la quale si rivela incapace di porvi rimedio.
Si potrebbe dire come rilevava la Populorum Progressio (cf. Paolo VI, Populorum Progressio, 3.9), che la questione sociale ha dimensioni mondiali, non soltanto in senso geografico, ma anche e forse soprattutto in senso intensivo, perché raggiunge e coinvolge tutte le categorie sociali, dai giovani agli anziani, dagli uomini alle donne, e persino ai bambini.
Questi anni hanno visto anche il riacutizzarsi e l’aggravarsi, in modo preoccupante, del debito internazionale, che, come una trama insidiosa, coinvolge tutti, paesi indebitati e paesi creditori, banche creditrici ed istituzioni internazionali. Ne parlava già l’enciclica che stiamo ricordando (cf. Paolo VI, Populorum Progressio, 54). Più recentemente, la Pontificia Commissione Iustitia et Pax ha pubblicato un documento su questo tema, che è ben noto a tutti voi.
11. Tutto questo concorre a provare, se ve ne fosse bisogno, che l’insegnamento evangelico dell’enciclica Populorum Progressio resta sempre valido ed attuale. Ed è ad esso, nel solco della grande tradizione del magistero sociale della Chiesa, precedente e seguente, che si deve far riferimento, per trovare il modo di far fronte, con idee e misure urgenti ed efficaci, alle ardue sfide del presente e del futuro.
Occorre pertanto riconoscere, oggi specialmente, che la Chiesa ha in questo campo un ruolo da svolgere. Tale ruolo non consiste certamente nel proporre dei piani tecnici particolareggiati, ma nell’individuare, alla luce dell’eredità evangelica, le esigenze etiche e le vere finalità, degne dell’uomo, che devono guidare tutta l’attività umana, personale e sociale, privata e pubblica, economica, politica, internazionale.
A tale ricerca può recare un valido contributo il colloquio, che in questa occasione è stato organizzato dalla Pontificia Commissione Iustitia et Pax, e che verrà inaugurato questo pomeriggio.
12. Non dubito che le analisi e le proposte che saranno presentate in tale colloquio sapranno attingere dall’insegnamento dell’enciclica e dal magistero sociale della Chiesa nuovi spunti e nuove applicazioni, allo scopo di aiutare gli uomini e le donne di questo mondo a cercare quel benessere, quella pace e quella libertà a cui hanno diritto.
L’enciclica Populorum Progressio, è in se stessa un “messaggio di liberazione” e una “parola di riconciliazione” (cf. 2 Cor 5, 19), i cui echi risuoneranno per lungo tempo ancora.
Nel servire a questi scopi, voi, e noi tutti, non facciamo altro che essere fedeli alla missione della Chiesa, così come è stata descritta dalla costituzione Lumen Gentium, 1: quella di essere “sacramento, cioè segno e strumento, dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”. Unione e unità che si realizzano anzitutto nella duplice e pur unica virtù della carità verso Dio e verso l’uomo (cf. Mt 22, 34-40). Sono scopi che inscindibilmente richiedono da parte nostra l’esercizio della giustizia e l’impegno per la pace, autentiche espressioni dell’amore a cui tende e verso cui si orienta il vero umano progresso, che così speriamo di ottenere, più che dalle nostre forze, dal dono misericordioso del Signore.
Con tali sentimenti ed auspici, benedico i vostri lavori, vi benedico tutti personalmente, insieme coi vostri collaboratori e con quanti seguiranno l’attività del colloquio.
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