VISITA PASTORALE NELL’ARCIDIOCESI
DI SORRENTO-CASTELLAMMARE DI STABIA
DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI RAPPRESENTANTI DEL MONDO DEL LAVORO
NELLO STABILIMENTO DEI CANTIERI NAVALI
Castellammare di Stabia (Napoli)
Festività di San Giuseppe - Giovedì, 19 marzo 1992
1. Ringrazio, innanzitutto, Lei, Signor Sindaco di Castellammare di Stabia, per il gentile indirizzo di omaggio con cui ha voluto farsi interprete dei sentimenti di accoglienza di questa antica e bella Città. Saluto le Autorità presenti. Saluto ciascuno di voi, abitanti di Castellammare di Stabia. Ho ascoltato con attenzione le parole che poco fa mi sono state rivolte. Ho potuto comprendere come in questo periodo di particolari difficoltà per la vostra Regione, voi siete chiamati, operando uniti, a risolvere molteplici problemi: penso alla criminalità organizzata che continua purtroppo a mietere vittime, allo spettro della disoccupazione che assilla tanti operai e grava sul futuro dei giovani; agli aspetti del degrado urbano ed ecologico, dovuti a una cultura individualistica, già denunciata dai Vescovi italiani nel documento “Sviluppo nella solidarietà - Chiesa italiana e Mezzogiorno”; penso anche a una concezione della politica non sempre animata da quella forte dedizione al bene comune, che dovrebbe costituire il motivo stesso della politica e della vera democrazia. Se tali fenomeni vanno rilevati con realismo, occorre, al tempo stesso, reagire con coraggio e in modo fattivo. Realismo e coraggio da dimostrare nell’unità delle forze vive della Città per opporsi in maniera organica alla camorra sanguinaria, e a tutte le forme di criminalità e mafiosità che distruggono i valori umani sacrificando vite e beni all’illecito guadagno. Il male va vinto col bene. Occorre puntare al positivo, facendo leva sulle qualità e sulle risorse della comunità, per mettere in atto un percorso nuovo di sviluppo compiuto e autentico. Voi, cari lavoratori, occupate un posto di primaria importanza in questa strategia di rinnovamento sociale che non può non prevedere un serio recupero etico atto a ristabilire, nella coscienza e nei quotidiani impegni di vita, i valori che rendono migliore l’esistenza e la convivenza.
2. Il recupero etico a livello personale e a livello sociale risultano tra loro strettamente connessi. Le ingiustizie e i mali sociali, autentiche strutture di peccato o peccati sociali, come già avvertivo nell’Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia, derivano dall’accumulazione e concentrazione di molti peccati personali (n. 16; cf. anche Sollicitudo rei socialis, 36). C’è dunque una responsabilità alla quale nessuno può sottrarsi, adducendo il pretesto che le strutture del peccato oltrepassano le forze dei singoli. Come esistono le “strutture di peccato”, ci possono e ci debbono essere le “strutture del bene”, della giustizia, della solidarietà, del rispetto reciproco, della pace, esse pure frutto e concentrazione di atti personali. Gli uomini politici, i pubblici amministratori, non dimentichino mai che, per la loro speciale vocazione, sono chiamati a promuovere il bene comune. Si tratta di una responsabilità che consiste anzitutto nell’utilizzo appropriato delle risorse di natura, di cultura, di storia e delle potenzialità umane presenti sul territorio al fine di contribuire alla soluzione dei problemi sociali di cui soffre la Città, in un atteggiamento di vero servizio.
3. Di tali problemi, una chiave, anzi probabilmente la chiave più importante è il lavoro, come già dicevo nella Laborem exercens (n. 3). La solennità di San Giuseppe, patrono e modello dei lavoratori, che ho voluto festeggiare quest’anno insieme a voi, ci offre l’opportunità di riflettere sul vero senso del lavoro. Non basta infatti lavorare, anche se è già molto riuscire a soddisfare tale elementare diritto umano. Bisogna sapere perché e per cosa si lavora, al di là degli immediati benefici che da esso si ricavano. “Mediante il suo lavoro l’uomo si impegna non solo per se stesso, ma anche per gli altri e con gli altri: ciascuno collabora al lavoro e al bene altrui. L’uomo lavora per sovvenire ai bisogni della sua famiglia, della comunità di cui fa parte, della Nazione e, in definitiva, dell’umanità tutta” (Centesimus annus, 43). Cari amici lavoratori, ho desiderato tanto, in questa ricorrenza, un incontro speciale con voi e sono lieto che esso abbia luogo in questi Cantieri navali, simbolo della industre laboriosità della Città e del circondario. Sono grato alla Fincantieri e all’IRI per aver assecondato il mio desiderio; ringrazio e saluto tutti i dirigenti nella persona del Presidente Nobili, per le parole di stima e di cortesia rivoltemi; saluto e ringrazio voi, lavoratori dei Cantieri e di altre fabbriche e categorie, e in maniera speciale, il vostro rappresentante che mi ha indirizzato, a vostro nome, un cordiale benvenuto. Qui, come negli altri ambienti di lavoro da cui provenite, voi spendete quotidianamente una parte notevole del vostro tempo; investite il meglio delle forze, dell’intelligenza e della capacità professionale. Qui portate le ansie, le preoccupazioni, il peso di una situazione economica globale nient’affatto prospera, che addensa sul futuro di molti di voi le nubi della disoccupazione specialmente personale, generando un senso di sgomento e di smarrimento per l’avvenire dei figli. Qui, in sintesi, si gioca in un certo senso la vostra vita presente e futura. Sono venuto per manifestarvi la mia profonda comprensione e la mia solidarietà. Come voi, sono stato anch’io operaio; conosco la vostra vita, per così dire, dal di dentro.
4. Guardiamo ora alla figura di San Giuseppe, uomo giusto, sposo di Maria, padre putativo di Gesù. Il Vangelo ce lo presenta come lavoratore. Di Gesù, infatti, si diceva, per definire la sua identità sociale: “Non è egli forse il figlio del carpentiere?” (Mt 13, 55). Il lavoro di carpentiere non costituì per lui soltanto il modo di contribuire al sostentamento del Figlio di Dio e della Vergine Madre, ma creò l’ambiente stesso della vita della Santa Famiglia. Il lavoro è entrato così, nel mistero dell’Incarnazione divenendo strumento di Redenzione. “Grazie al banco di lavoro presso il quale esercitava il suo mestiere con Gesù, Giuseppe avvicinò il lavoro umano al mistero della Redenzione” (Redemptoris custos, 22). È da qui che bisogna partire, se si vuole cogliere il più profondo significato del lavoro umano. Dio stesso ha voluto farlo suo. Avvenimenti sorprendenti si vanno svolgendo in questi anni sotto i nostri occhi, e tuttavia, mai come oggi, la storia sta rivelando le sue ambiguità: contrasti di luce e di ombre, enormi progressi della tecnologia e crescente estensione della schiera di poveri. È crollato nei Paesi dell’Est europeo il sistema marxista, che aveva promesso uguaglianza e giustizia sradicando Dio dal cuore dell’uomo, mentre nuove problematiche si affacciano all’orizzonte di quei popoli. Non si può restare tranquilli, poi, di fronte al sistema capitalista, quando esso si racchiude in “un’idea radicale... la quale rifiuta persino di prendere in considerazione” i “fenomeni di alienazione umana” e “ne affida fideisticamente la soluzione al libero sviluppo delle forze di mercato” (Centesimus annus, 42).
5. Di fronte a tutti i pericoli di alienazione umana che attraversano la cultura e l’economia del mondo d’oggi, la Chiesa non esita a dichiarare la sua scelta: sta dalla parte dell’uomo, sempre, ma soprattutto quando esso viene dimenticato, maltrattato e vilipeso, perché l’uomo visto nella luce di Cristo è la principale via della Chiesa (Redemptor hominis, 13; Centesimus annus, 53). Il lavoro umano è compreso dalla Chiesa in questa logica. Come ho avuto modo di illustrare nell’Enciclica Laborem exercens, l’attività lavorativa dell’uomo, prima di essere considerata dal suo lato oggettivo quale processo di produzione all’interno di una prospettiva tecnico-economica, va vista dal lato della soggettività: è l’uomo a dare senso al lavoro (Laborem exercens, 6). L’uomo che lavora non è, né mai può diventare, la ruota di un ingranaggio. Lavorando realizza il suo essere immagine di Dio, vive la sua vocazione di collaboratore del Creatore, sperimenta la potenza salvifica del mistero pasquale. Nel lavoro e mediante il lavoro, l’uomo e la donna realizzano la specifica loro vocazione umana. Lo Stato e la società, cioè tutti noi, siamo tenuti a riconoscere questa loro dignità e nobiltà. Cari amici lavoratori, so quanto siano serie le vostre ansie per il futuro del lavoro e per il problema della disoccupazione giovanile, che attanaglia tante famiglie. È un problema grave in se stesso, specialmente per l’incidenza che viene ad avere sui fenomeni della devianza giovanile, e particolarmente sul funesto e deprecabile fenomeno della violenza organizzata. Nella Centesimus annus, ho scritto: “Una società in cui il diritto al lavoro sia sistematicamente negato, in cui le misure di politica economica non consentono ai lavoratori di raggiungere livelli soddisfacenti di occupazione non può conseguire né la sua legittimazione etica né la pace sociale” (n. 43). Dobbiamo riconoscere di essere, in proposito, di fronte a una situazione preoccupante che interpella l’intera società. Rivolgo perciò, un appello ai Responsabili della cosa pubblica, ai politici, agli amministratori perché facciano quanto è in loro potere per la soluzione di così gravi problemi. Un particolare invito rivolgo anche agli imprenditori perché diano il loro apporto indispensabile, ricordando che “come la persona realizza pienamente se stessa nel libero dono di sé, così la proprietà si giustifica moralmente nel creare, nei modi e nei tempi dovuti, occasioni di lavoro e crescita umana per tutti” (Centesimus annus, 43). Quest’appello è tanto più pressante quanto più precarie risultano le necessità in cui versano alcuni fra di voi, e quanto più insidiosa e diffusa è la tendenza di chi si trova in condizioni agiate a ritenere, senza fondamento, di aver fatto tutto il possibile.
6. Carissimi amici, l’obbligo che abbiamo di guadagnare il pane col sudore della fronte, secondo il precetto divino (cf. Gen 3, 19) che Gesù stesso ha voluto adempiere, può essere soddisfatto in modo pienamente umano solo all’interno di una spiritualità del lavoro nel senso cristiano dell’espressione. In parole più semplici, occorre che per noi credenti il lavoro sia realmente un cammino di santificazione. Fate, pertanto, del vostro lavoro, a imitazione del carpentiere di Nazaret, una liturgia, un atto di culto con il quale offrite a Dio gioiosamente la vostra fatica, spesso dura, mantenendo un atteggiamento di servizio e di dedizione verso la famiglia e la società. Alla dimensione umana, spirituale, economica, sociale e culturale del lavoro si aggiunge, allora, la dimensione cristiana, che trova un vivo esempio in San Giuseppe, nella Vergine Maria e in Gesù Cristo lavoratore; anzi, trova il suo ultimo riferimento nel Creatore stesso che, come ci insegna la Genesi “portò a termine il lavoro che aveva fatto” (Gen 2, 2) e - afferma San Giovanni - “opera sempre” (Gv 5, 17). Non si riuscirà, dunque, a capire adeguatamente la dignità del lavoro, né da parte di chi lo esegue, né della società, se non considerandolo in questa luce. Ecco perché nella tradizione della Chiesa esso è stato costantemente associato alla preghiera; “ora et labora”. Carissimi amici possa il nostro spirito, aiutato pure da queste riflessioni, trovare un’ulteriore energia spirituale per dare all’attività lavorativa il suo giusto valore nella nostra vita. Possa ciascuno, sentirsi responsabile dell’intera comunità in uno spirito solidale e fraterno (cf. Sollicitudo rei socialis, 38). In particolare, chi ha e può di più si senta responsabile di chi è meno fortunato o non ha nulla. Vi accompagni in tale impegno anche il mio incoraggiamento, avvalorato da una speciale benedizione. Infine, voglio ancora ringraziare tutti voi per i diversi doni che ho ricevuto, ma soprattutto per questo dono, il più significativo, del crocifisso fatto da un artista operaio. È un dono che ci dice molto, ci spiega, direi, tutta la teologia del lavoro, perché la teologia del lavoro culmina nella croce di Cristo.
Noi lavoriamo per costruire una terra migliore, una terra-abitazione nostra, umana, nei diversi Paesi e continenti, ma non possiamo mai dimenticare che dobbiamo anche costruirci una casa futura e, in questo, la croce di Cristo è protagonista. Cristo ci ha manifestato con il suo sacrificio come è vicino a ciascuno di noi, come egli è il vero Emmanuele che ha incominciato a Nazaret, vicino a Giuseppe, e ha terminato sulla croce. Così è rimasto nella storia di tutti gli uomini, è rimasto nella storia di tutti i popoli, di tutti i secoli. La sua croce ci rappresenta, ci presenta una dimensione trascendente e ci dice che tutti noi siamo coinvolti in questa trascendenza della Croce di Cristo. Per questo il dono della Croce fatta in questa officina, in questi cantieri navali, per me è un dono preziosissimo. Non è solamente opera artistica, ma è anche espressione profonda della vostra esistenza.
Al termine dell’incontro nella mensa dei cantieri navali
Voglio anch’io ringraziare. Ma non saprei farlo così brevemente come ha fatto il vostro collega. Vorrei confessare una cosa, non un peccato, ma una osservazione, una riflessione che mi è venuta quando ho visitato i vostri cantieri, quando ho assistito, sotto la guida del vostro Presidente, al processo di produzione di una nave. Ho pensato: certamente il banco di lavoro, il “cantiere” del carpentiere di Nazaret era molto più povero, semplice, possiamo dire primitivo. Quale sviluppo, quale progresso immenso dal banco di lavoro di Nazaret a questo grande banco di lavoro, a questi cantieri navali! Ma una cosa è rimasta identica: la presenza e il ruolo della persona umana. Là c’era la persona di Giuseppe. Accanto a lui la persona non umana ma divina - benché nella natura umana - di Gesù. E questo elemento del lavoro è rimasto identico, lo stesso. Anzi, da questo punto di vista possiamo dire che Nazaret rappresenta il vertice di tutto il processo lavorativo durante la storia umana, perché è l’unica volta che accanto a questo banco di lavoro ha lavorato Dio fattosi uomo. Questa riflessione che mi è venuta qui appartiene alla vostra comunità. E volevo subito dire, esprimere questa riflessione, perché è un po’ un bene comune: mio è vostro, vostro e mio.
Un’altra cosa non posso dimenticare, quando il mio accompagnatore mi diceva: “Questo non è solamente un lavoro delle mani, della professionalità, ma è un lavoro di tutta la persona umana, un lavoro che tocca il cuore”. E mi diceva: “Quando i nostri lavoratori arrivano al termine di una produzione e la nave scende nell’acqua, loro piangono...”. Dice molto questa constatazione, questa osservazione. Io la ricorderò per tutta la mia vita. Si poteva pensare che c’è una distanza fra l’uomo, la persona umana e il suo lavoro, specialmente se è un lavoro manuale, industriale. Invece no. Così ho scoperto che non è una pura analogia ma una verità il pensare di un tale ambiente, di una tale comunità di lavoro come di una famiglia che ha i suoi problemi, anche i suoi problemi duri, tragici, qualche volta. Ma ha anche legami profondi che passano non solamente attraverso i calcoli ma anche attraverso i cuori.
Vi ringrazio per questa comunità, per queste ore che ho potuto passare tra di voi il giorno di San Giuseppe. Vi ringrazio per questa possibilità che mi è stata offerta, almeno attraverso due, tre ore, di vivere in una comunità di lavoro. E alla fine vi ringrazio anche per questa mensa comune.
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