DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI PENITENZIERI DELLE BASILICHE PATRIARCALI DI ROMA
Sabato, 21 marzo 1992
Signor Cardinale, Venerati fratelli Vescovi,
Cari Prelati e Officiali della Penitenzieria apostolica!
1. Mi è gradito accogliervi, oggi, per esprimervi anzitutto riconoscenza per il lavoro indefesso e riservato che, in applicazione alle norme e ai criteri impartiti dai Romani Pontefici, voi svolgete in codesto Dicastero per il bene delle anime, in materia che riguarda il foro interno della coscienza. Ringrazio l’Eminentissimo Penitenziere Maggiore, Cardinale William Baum, per le parole rivoltemi. Saluto con voi i Penitenzieri delle Basiliche Patriarcali dell’Urbe, grato per la loro assidua presenza nel confessionale a favore di tanti fedeli. La vostra presenza sta a significare l’importanza del Sacramento della Riconciliazione, mezzo di salvezza e di santificazione, istituito da Nostro Signore Gesù Cristo e affidato alla Chiesa, la quale è anche, e specialmente in rapporto all’Eucaristia, la Chiesa del giudizio e del perdono. Prendendo lo spunto dalle chiavi decussate che adornano il Palazzo apostolico Vaticano, rilevo che il ministero di Pietro può essere sintetizzato con espressione fondata sul Vangelo di Matteo, “Tibi dabo claves regni caelorum” (Mt 16, 19), quale “potestas clavium”. La nozione evangelica delle chiavi non solo include il potere giurisdizionale, ma anche l’autorità magisteriale. Ora, la potestà delle chiavi, conferita a Pietro, nella sua pienezza, si estende in varia misura, in relazione alla posizione gerarchica e agli uffici svolti nella Chiesa, a tutti i sacerdoti; ma l’ufficio della remissione dei peccati, esercitato nel Sacramento della Penitenza, è appunto contenuto nella “potestas clavium”. È dunque certo che il sacerdote, nell’amministrare il Sacramento della Penitenza, esercita anche un compito di magistero ecclesiale.
2. Nei miei precedenti incontri con la Penitenzieria e con i Padri Penitenzieri ho messo in rilievo altri aspetti dello stesso sacramento. In quello del 1981 sottolineavo che “il Sacramento della Riconciliazione costruisce le coscienze cristiane” e riaffermavo che “i fedeli hanno il diritto alla propria confessione privata”; in quello del 1989 invitavo istantemente i sacerdoti a riservare “al servizio della Confessione un ruolo privilegiato nella gerarchia dei loro doveri”; in quello dell’anno scorso mettevo in luce “il senso pasquale della Penitenza: in essa si rinnova la risurrezione spirituale”. Il Sacramento della Riconciliazione, infatti, “secunda tabula salutis post baptismum”, in connessione col suo carattere battesimale, rinnova o perfeziona l’inserzione dei fedeli nel mistero pasquale del Cristo, nuovo Adamo, dal quale deriva nell’uomo redento il ripristino, anzi, il perfezionamento della giustizia originale: “Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita” (1 Cor 15, 45), e in essa della conoscenza piena della verità. Ma se il sacramento della Penitenza, agendo “ex opere operato” infonde, o perfeziona, l’abito della fede e i connessi doni dello Spirito Santo, appartiene all’opera personale del ministro di esplicitare i contenuti della verità con particolare riferimento a quelli concernenti l’ordine morale. Già relativamente al figurale sacerdozio dell’Antico Testamento questa funzione di soprannaturale pedagogia era stata affermata: “Un insegnamento fedele era sulla sua bocca... e ha trattenuto molti dal male. Infatti le labbra del sacerdote devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca l’istruzione, perché egli è messaggero del Signore degli eserciti” (Ml 2, 6-7) e parallelamente era risuonata la terribile condanna del Signore per i sacerdoti colpevoli di non aver adempiuto all’ufficio del magistero della verità: “Voi, invece, vi siete allontanati dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti con il vostro insegnamento... Perciò anch’io vi ho reso spregevoli e abbietti... perché non avete osservato le mie disposizioni e avete usato parzialità riguardo alla legge” (Ml 2, 8-8). Ma, dalle parole di Gesù, che enunciano la potestà di rimettere i peccati nel Sacramento della Penitenza, risulta con ogni evidenza che l’atto sacramentale è intrinsecamente connesso a un giudizio, e perciò stesso a un magistero di verità: “Accipite Spiritum Sanctum: quorum remiseritis peccata, remissa sunt eis; quorum retinueritis retenta sunt” (Gv 20, 22-23). In realtà lo Spirito Santo è “Spiritus veritatis” che “deducet vos in omnem veritatem” (Gv 16, 13), e la decisione del sacerdote di rimettere o di ritenere, non potendo essere arbitraria, perché è funzione strumentale al servizio del Dio della verità, presuppone un retto giudizio (cf. Concilio Tridentino, Sessione 14, cap. 2, cap. 5 e can. 9).
3. Nella Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia, le parole del Vangelo di Marco “Paenitemini et credite evangelio” (Mc 1, 15), riportate fin dall’inizio del documento, richiamano il concetto della intrinseca connessione tra la verità del Sacramento e l’adesione alla verità rivelata. È per altro evidente che la funzione del giudice delle coscienze riposa sulla potestà delle chiavi, che propriamente appartiene alla Chiesa come tale: “Quaecumque alligaveritis super terram, erunt ligata in caelo, et quaecumque solveritis super terram, erunt soluta in caelo” (Mt 18, 15). Infatti, nella citata Esortazione apostolica, al n. 12, osservavo che la “Missione riconciliatrice è propria di tutta la Chiesa”, e soggiungevo che nell’adempierla la Chiesa svolge un compito magisteriale: “Discepola dell’unico Maestro, Gesù Cristo, la Chiesa a sua volta, come Madre e Maestra, non si stanca di proporre agli uomini la riconciliazione e non esita a denunciare la malizia del peccato, a proclamare la necessità della conversione”. Più avanti, al N. 29, riferendomi in particolare al sacerdote ministro del Sacramento della Penitenza, scrivevo: “Come all’altare dove celebra l’Eucaristia e come in ciascuno dei Sacramenti, il Sacerdote, ministro della Penitenza, opera “in persona Christi”. Il Cristo, che da lui è reso presente e che per suo mezzo attua il mistero della remissione dei peccati, è colui che appare come fratello dell’uomo, pontefice misericordioso... pastore... medico... maestro unico che insegna la verità e indica le vie di Dio, giudice dei vivi e dei morti, che giudica secondo la verità e non secondo le apparenze”. Di qui l’ineludibile conseguenza che il sacerdote, nel ministero della Penitenza, deve enunziare non le sue private opinioni, ma la dottrina di Cristo e della Chiesa. Enunziare opinioni personali in contrasto col Magistero della Chiesa, sia solenne sia ordinario, è, perciò, non solo tradire le anime, esponendole a pericoli spirituali gravissimi e facendo subire loro un angoscioso tormento Nel richiamare questa verità e questa gravissima responsabilità so bene che moltissimi sacerdoti, fedeli al loro ministero, realizzano nel confessionale la divina missione della Chiesa: “Euntes ergo docete omnes gentes... docentes eos servare omnia quaecumque mandavi vobis” (Mt 28, 19-20) e offrono in tal modo alle anime la via della salvezza: “Qui crediderit... salvus erit” (Mc 16, 16). Certamente tutti voi avete come criterio dottrinale e pastorale l’insegnamento della Sede di Pietro. Perciò, per voi si eleva la mia preghiera di ringraziamento a Dio: infatti, voi sacerdoti siete, e voi prossimi candidati al sacerdozio sarete, operatori di verità e di santità, fedeli dispensatori dei misteri di Dio.
Con questi sentimenti, a voi e a quanti in tutta la Chiesa degnamente si dedicano al ministero della Riconciliazione sacramentale, di cuore imparto la benedizione apostolica.
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