PAOLO VI
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 17 marzo 1971
Saggezza della penitenza che corregge e riabilita
Rettificare il cammino della nostra vita. Questa è una delle sollecitudini principali della Chiesa in quanto maestra del nostro operare. E lo è specialmente nel periodo che precede la Pasqua, lo è con quella disciplina che sottopone le nostre coscienze ad una riflessione e ad una conseguente revisione della nostra condotta. La vita deve avere un suo orientamento, un suo polo direttivo, che in ultima analisi, anzi in prima intenzione, è Dio, al Quale Cristo ci guida e ci unisce. Deve avere un suo stile, una perfezione; la quale, quando noi abbiamo riconosciuto la definizione del nostro essere e del nostro destino, diventa al tempo stesso amata ed esigente, come per chi è stato educato alla musica e ne gusta il fascino non è tollerabile alcuna stonatura. «Tutti nella Chiesa, dice il Concilio, sono chiamati alla santità» (Lumen Gentium, 39).
Deve essere questo comportamento una delle norme fondamentali della nostra personalità. L’uomo dev’essere così: retto, giusto, diritto, cioè onesto, cioè morale. Riflettendo, qui sorge uno dei più importanti problemi, che invade, si può dire, ogni coscienza, e domina il costume del mondo in cui viviamo; e cioè quello della nostra libertà personale. Oggi sarà ben raro trovare chi ne nega l’esistenza, in nome d’un determinismo psicologico, che vorrebbe fare dell’uomo un automa; è certamente assai progredita, anche se non sempre ammissibile, l’analisi degli impulsi istintivi e sugli stati psicologici, che influiscono sull’operare dell’uomo; ma nessuno nega ch’egli, in condizioni normali, sia interiormente arbitro di se stesso, cioè libero; anzi oggi l’esistenzialismo, quello letterario e artistico specialmente, giunge ad affermazioni estreme, come questa: «. . . io sono un uomo, e ogni uomo deve inventare il proprio cammino . . . L’uomo s’impegna nella sua vita, disegna la propria figura, e al di fuori di questa figura, non v’è nulla» (Cfr. J. M. AUBERT, citando Sartre, nella monografia: Pour une redécouverte du sens du péché). Noi possiamo essere d’accordo affermando, e rivendicando, se occorre, la libertà propria dell’uomo. Ma quale libertà? la libertà fisica, la libertà della volontà umana, considerata in se stessa; è questa una prerogativa che fa dell’uomo «causa sui», padrone delle proprie scelte, delle proprie azioni, e che riflette sul suo volto un riflesso dell’immagine divina. Ma la libertà, a bene osservare, ha interiormente dei vincoli, che sono quelli della verità: non siamo liberi di violare le leggi del pensiero, pena la deformazione della nostra stessa persona; è la volontà che è libera, non l’intelletto, il quale è di natura sua fatto per la verità. Ora avviene che, nel dinamismo interiore dell’operare umano, l’intelletto propone alla volontà una verità, la quale da speculativa si fa pratica, si fa «dovere»; il quale vincola moralmente, ma non fisicamente; non è coazione; e la volontà può accettare e può rifiutare di uniformare la sua scelta all’imperativo dell’intelletto: se essa accetta abbiamo l’ordine, la grandezza, la bellezza dell’organismo spirituale e vitale dell’uomo; se invece rifiuta, abbiamo il disordine, cioè un dissidio intrinseco all’uomo, che lo deturpa e poi lo disturba, lo affligge, lo disorienta, lo degrada, lo spinge o alla follia, o al disprezzo di sé. Fate attenzione: se la verità proposta al libero volere fosse, per caso (come avviene comunemente) derivata da un pensiero imperativo estraneo, e superiore al soggetto umano, fosse cioè una legge, il rifiuto volontario a questa verità produrrebbe un disordine che va al di là del soggetto umano stesso, avremmo una trasgressione, una colpa, che è diretta contro il legislatore. Se la legge è quella civile, avremo una colpa sociale, che l’autorità civile giudica e, se crede, punisce. E qui si ferma oggi, ordinariamente, il giudizio morale della sfera secolare.
Ma se quella legge fosse divina? L’offesa prodotta allora dalla sua inosservanza sarebbe rivolta all’Autore della legge divina; mostruosa cosa, se davvero l’inosservanza è avvertita e voluta, ed è relativa a cosa seria e importante; avremmo una colpa grave, avremmo un peccato.
Grande parola! Grande dramma! Grande rovina! La Chiesa non cessa mai di fare uso di questa terribile parola, che investe, come un’eredità infelice, la stessa natura umana, dichiarandola colpita da una disgrazia proveniente, senza colpa personale, ma come una sventura fatale; è il peccato originale. E che denuncia poi una responsabilità personale, quando il peccato è cosciente e deliberato. È dottrina da tutti saputa. Ma che oggi tutti, vittime d’una secolarizzazione limite a se stessa, tentano di dimenticare. Ne abbiamo parlato altra volta (Cfr. Insegnamenti, II, 1171; ecc.). Non si parla più di peccato, perché questa tristissima e realissima condizione dell’uomo peccatore, implica l’idea di Dio. Implica l’idea dell’offesa fatta a Dio. Implica l’avvertenza della rottura del rapporto vivificante e reale con Lui; implica la coscienza d’un intollerabile disordine nell’uomo delinquente; implica il terrore della sanzione collegata col peccato, la riprovazione eterna, l’inferno; implica il bisogno assoluto d’una salvezza, anzi di un Salvatore.
Se viene meno la fede, viene meno simultaneamente il senso del peccato con quello di tutte le sue disastrose conseguenze. Praticamente possiamo dire che si sfascia tutto il castello morale del cristianesimo. Ma la realtà resta. La mancanza di fede non distrugge il piano divino nel quale si svolge il nostro vivere; essa potrà alterare le ripercussioni che questo piano stabilisce per i nostri destini, aggravandole, se la fede è rifiutata o spenta per responsabilità voluta; rimettendole al mistero della bontà di Dio, se essa è ignorata senza colpa; ma, ripetiamo, il piano reale divino, che avvolge l’essere nostro, rimane; e costituisce un assoluto, un necessario, al quale non possiamo sfuggire. Non lo possiamo, in certa misura, anche come semplici uomini, perché la legge divina, in certe sue impreteribili esigenze, parla nel cuore d’ogni uomo cosciente, con la logica del diritto naturale, con l’imperativo dell’obbligazione morale. Non lo possiamo sfuggire noi cristiani, ai quali è data la luce della dottrina del Vangelo, dove peccato e redenzione formano una trama che non possiamo mai dimenticare.
Dobbiamo, fratelli e figli carissimi, pensare al significato profondo e riassuntivo della nostra esistenza nel tempo: è una prova, è un esame. Guai sbagliare, guai fallire. È in gioco una sorte eterna, beata o dannata. Ecco il perché dell’ordine morale, della rettitudine del nostro operare. Ecco la sapienza dell’esame di coscienza. Ecco il senso salutare del bene e del male, dell’onestà e del peccato. Ecco il bisogno impellente di Cristo Salvatore. Ecco la provvidenza della croce, strumento della nostra salvezza e segno d’un misericordioso amore infinito. Ecco la saggezza della penitenza che espia, corregge e riabilita. Ed ecco la fortuna del sacramento della penitenza, della confessione, vera celebrazione nelle anime umili e sincere del mistero pasquale, della nostra risurrezione. Oh! nessuno rimanga estraneo ed escluso da tanta grazia e da tanta beatitudine!
Con la Nostra Benedizione Apostolica.
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