PAOLO VI
UDIENZA GENERALE
Basilica Vaticana
Mercoledì, 26 marzo 1975
Dolore e ansia del Santo Padre per la tragedia del popolo vietnamita
All’inizio di questa Udienza non possiamo trattenere la voce per richiamare l’attenzione del mondo sul dramma, tragico e doloroso, del Vietnam. In questo momento, mentre i nostri cuori si preparano alla gioia delle feste pasquali, un popolo soffre un’agonia indicibile di lacrime e di sangue, in un esodo spaventoso che ha assunto veramente proporzioni molto gravi. Dopo gli accordi di Parigi, stipulati con tanti sforzi, si credeva che, con un’equa intesa affidata alla leale osservanza delle parti in conflitto, fosse giunta la fine di una già troppo prolungata sofferenza; ora invece si vede che tutto ciò a nulla è servito: si ricomincia da capo! Si ricomincia col sangue!
Nel nome di Colui che è venuto a salvare gli uomini, noi esprimiamo il nostro dolore, la nostra ansia per tutte quelle care popolazioni.
Fratelli, figli, nell’attesa della prossima Pasqua, sapendo che migliaia di uomini e di donne, di bambini e di innocenti, stanno soffrendo, facciamo il possibile per alleviare la tragedia di quei popoli e per fare loro giungere la prova che il nostro mondo non è indifferente al pianto dei fratelli.
Congiungiamo i nostri sforzi nella solidarietà universale. E preghiamo il Signore, nelle cui mani stanno le sorti degli uomini, affinché conforti pene così immani, e faccia brillare una luce in quest’ora così triste e pericolosa per l’umanità.
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Aula delle Udienze
La celebrazione liturgica della Settimana Santa esige da noi fedeli (ma potremmo dire: da ogni persona intelligente), una riflessione introduttiva sul significato oggettivo dell’avvenimento, che tale celebrazione vuole non solo rievocare e rappresentare, ma in un certo senso rivivere.
È questo il primo aspetto dell’atto liturgico, che s’impone alla nostra attenzione, aspetto sommamente interessante, che la mentalità religiosa, educata al senso trascendente e estratemporale dei rapporti con Dio, trova ovvio e attraente: è proprio della religione conferire ai fatti religiosi, caratterizzati da una divina presenza, anzi da un divino disegno, una virtualità permanente. « Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo; non bisogna dormire durante questo tempo », dice Pascal (Cfr. PASCAL, Le mystère de Jésus). Il mistero pasquale continua misticamente nel tempo; esso si compie oggi.
Perciò è a noi concesso non solo di assistere alle cerimonie celebrative della Liturgia, ma altresì ci è consentito, anzi raccomandato di prendervi parte. La partecipazione alla Liturgia, sempre insegnata dalla Chiesa, è diventata un programma favorito dal recente Concilio. Noi possiamo, sì, assistere come spettatori al rito liturgico; ma se siamo veramente compresi del suo significato e delle sue finalità, noi dobbiamo in certo modo esserne attori, o almeno dobbiamo metterci in sintonia con l’azione celebrativa da trasferire la nostra psicologia religiosa al momento e alla scena, che vi diede origine. Dovremo così considerarci commensali dell’ultima Cena, presenti alla Via Crucis, folgorati dalle misteriose apparizioni di Gesù risorto. Il linguaggio liturgico vuol essere un diaframma trasparente, che consente alla nostra fisica ed attuale umanità di associarci agli avvenimenti e ai sentimenti ai quali esso si riferisce. Noi oggi siamo tosi presi da una specie di incantesimo, al quale l’incessante invadenza dello spettacolo moderno, sia teatrale che cinematografico, ci abitua con soverchiante interesse; ma con questa essenziale differenza, rispetto alla rappresentazione liturgica: che lo spettacolo profano, ben lo sappiamo, ci diverte, ci assorbe forse, ma non ci inganna circa la sua sostanziale estraneità, e, per lo più, circa la sua gratuita irrealtà; tocca i sensi, invade la fantasia, commuove forse lo spirito; ma siamo consapevoli che esso non ci riguarda in realtà; lo spettatore vi è passivo e libero sempre di sottrarsi al fascino di quel « divertimento », nel senso etimologico di diversione, di distrazione dalla realtà concreta da noi vissuta (Cfr. ancora PASCAL, 11; cfr. BOSSUET, Sur la Comédie, CEuvres XII, 237). Invece nella rappresentazione liturgica non è soltanto rievocata la memoria dei fatti e delle parole di Cristo, ma è resa operante la sua azione salvatrice (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae, III, 56, 1 ad 3; VAGAGGINI, Il senso teologico della liturgia, p. 98 ss.). È parimente ben diversa la memoria, anche degnissima, presentata circa una grande personalità (p. es. di Socrate), da quella umana divina di Cristo, in quanto Egli è principio sempre operante della nostra salvezza; tale memoria rivive in effetti suoi propri, sia esemplari, sia reali (Cfr. Mediator Dei, 161), che conferiscono alla celebrazione liturgica un carattere suo proprio, una dignità incomparabile; è una rappresentazione « sui generis », che si inserisce nella attualità, nella vita vissuta.
Così che il senso della distanza e dell’estraneità non esiste nel fedele, che partecipa alla Liturgia. E allora, celebrando la Pasqua, il fedele è invaso, sopraffatto anzi, dalla drammaticità dell’« ora » vissuta da Cristo, la « sua ora », come Egli la chiamò (Cfr. Io. 2, 4; 12, 23; 17, 1; etc.).
Ed allora la drammaticità, veramente superlativa ed unica, della rievocazione liturgica, esplode nella sua incomparabile violenza. Che cosa è un dramma, si chiede un Autore moderno espertissimo in materia (il compianto e sagace Silvio D’Amico)? « Dramma si potrebbe definire: la rappresentazione scenica d’un conflitto » (Storia del Teatro drammatico, 1, 23); e se il conflitto segna l’urto mortale di forze trascendenti e immanenti non è forse tragedia? E la tragedia non registra forse graduazioni che ne classificano la violenza, la grandezza, la fatalità, il mistero? « Non può essere personaggio tragico, commenta un critico acuto e indiscusso, pure lui compianto (Renato Simoni), quello che non partecipa pienamente . . . del dolore umano. Per questo sono sì tragici il grido di Gesù: Padre, se è possibile, allontana da me questo calice amaro!, e quel ” consummatum est ” che con la più eroica angoscia, riassume la più grande delle catastrofi » (Storia del Teatro drammatico, 11-12). Che cosa diremo noi allora quando sappiamo (oh! più nelle parole, più nei testi teologici, che nella incommensurabile realtà spirituale, ontologica, cosmica) che la tragedia, di cui Cristo è protagonista, si chiama redenzione, il mistero che la dottrina cattolica qualifica fra tutti il più difficile, dove il duello della morte e della vita si combatte in modo sbalorditivo (Cfr. seq. pasch.: mors et vita duello conflixere mirando), dove la profondità abissale del male, il peccato nella sua totalità negatrice e mortifera, si misura con la profondità eccelsa dell’Amore, nella sua onnipotenza vivificante e risuscitante?
Veramente vi è di che rimanere esterrefatti e quasi paralizzati, se nello svolgimento di questa ineffabile vicenda noi non sapessimo che Gesù è morto e risuscitato con noi, per noi, in noi! (Cfr. L. BOUYER, Le mystère pascale, 11.12; G. BEVILACQUA , L’uomo che conosce il soffrire; S. AUGUSTINI Ad Galatas, 28; etc).
Conclusione: colpevoli responsabili, spettatori, partecipi, salvati dal mistero pasquale, non sia indarno per noi celebrato in quest’anno di grazia! con la nostra Apostolica Benedizione.
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