OMELIA DI PAOLO VI
Giovedì Santo, 15 aprile 1965
Venerati Confratelli,
Figli diletti!
Ora scenda il silenzio nei nostri spiriti, e grande raccoglimento ci renda capaci di ascoltare la voce stessa di Cristo. Viene a noi da lontano, dalla notte ultima della vita temporale di Lui, come un saluto estremo a chi gli è discepolo e seguace, come un testamento che sempre deve durare, come un precetto che il tempo non deve consumare, ma compiere. Ciò che Egli disse e ora noi ascoltiamo è un memoriale, una parola ch'Egli volle non fosse mai più dimenticata per tutto l'intervallo di anni e di secoli, che intercede da quel momento, da Lui intensamente desiderato (Luc. 22, 15) come epilogo d'una storia uscente dalla penombra di un significato figurativo, e come principio d'un'epoca nuova caratterizzata da un realismo soprannaturale, il regno di Dio, ma anch'esso tuttora espresso in simboli ed in enigmi, comprensibili solo alla fede, e preludio d'una futura luminosa e meravigliosa palingenesi escatologica, fino al momento in cui Gesù, visibile e trionfante, al termine della storia, ritornerà: donec veniat; finché Egli non venga (1 Cor. 11, 26).
Preghiamo, affinché non solo l'eco, ma la virtù di quella parola sia da noi accolta, con la trepidazione e con la confidenza degli umili. Preghiamo, affinché la parola pasquale di Cristo sia così viva ed operante nelle nostre anime da farle partecipi ai misteri che Egli in essa racchiuse non soltanto perché ne rimanesse perenne ricordo, ma perché ne derivasse in noi comunione. Preghiamo, affinché la fortuna d'essere noi uditori di quella parola divina semplice e misteriosa, non ci trovi distratti e sordi, non dubbiosi e renitenti, non indolenti e soddisfatti, ma pronti ad accoglierla, a viverla, ad annunciarla a nostra volta come un segreto di rinascita e d'immortalità. E preghiamo, affinché ascoltata ed accolta qui, in questa Chiesa centrale di tutte le Chiese, quella parola a tutte le Chiese si irradi con fraterna e felice franchezza, e da tutte le Chiese in comunione con questa qua ritorni con eco fedele e corale, e dica a noi, dica al mondo: Cristo vivo è con noi.
Ecco: la voce, quella voce di Lui, Noi la ripeteremo tra poco compiendo questo santissimo rito, suona così: "Prendete e mangiate, questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi; fate questo in ricordo mio. . . Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, e quante volte ne beviate fatelo in mia memoria" (1 Cor. 11, 24-25).
Come sono brevi, come sono dense, come sono semplici, come sono profonde queste parole! Vorremmo subito renderci conto del loro significato immediato: sono parole trasformatrici; vorremmo renderci conto del loro significato intenzionale: sono parole conviviali, che invitano alla cena del Signore, per la quale Egli ha preparato alimento sorprendente, quasi sconcertante: il suo corpo, il suo sangue, Lui stesso cioè; ma che cosa vuol dire un convito in cui tale cibo e tale bevanda sono offerti, tale presenza è realizzata, se non la oblazione d'una vittima, d'un sacrificio? Ma come è possibile farci un concetto almeno simbolico di così inaudita realtà? Il Signore sembra risponderci: fermate lo sguardo alle apparenze sensibili, alle specie sacramentali, cui tuttora lascio rivestire i nuovi misteri che io vi ho posti davanti; e mediante queste apparenze, pane e vino, sollevate a valore di segni, cercate, cercate di qualche cosa comprendere, e di molto sapere, di molto adorare, di molto credere, di molto amare (cfr. S. Th. III, 61, 1).
Fratelli e Figli e Fedeli e uomini tutti! A questo punto si pronuncia una crisi. Noi non comprendiamo più con la nostra sola ragione. Noi vorremmo comprendere! Ma il discorso di Cristo, così limpido e piano, a chi vi pensa si è fatto duro. "Durus est hic sermo" (Io. 6, 60). Avviene una ribellione interiore nello spirito umano. Allora ecco chi se ne va scuotendo il capo, e tutto geloso di conservare la sua rispettabile, ma piccola dignità, la sua preziosa, ma modesta razionalità; ma uscendo dal cenacolo del banchetto eucaristico sacrificale non si avvede, e se ne accorgerà poi, di camminare nella notte. È più buio fuori, che dentro. "Erat autem nox" (Io. 13, 30).
Altri lotta e cerca di vincere mediante facili raffronti del racconto scritturale con le leggende fantastiche dei misteri antichi del paganesimo; vano e punto scientifico sfoggio di erudizione, che fa di se stesso velo alla rivelazione evangelica. E vi è chi cerca di ridurre la pienezza della parola divina: si tratta d'una semplice cena rituale, ovvero si tratta non d'una presenza reale, ma solo simbolica; o anche d'un'elevazione di cose familiari a significati superiori. Il mistero, nel senso della oscurità a comprendere, così rimane e cresce; il mistero nel senso della realtà divina presente e nascosta, così si dilegua. E si dilegua e svanisce la parola di Cristo.
La sua parola divina, la sua parola onnipotente. La sua parola amica, che a noi domanda un'offerta sola, uno sforzo nostro, d'intelligenza non umiliata, ma docile, d'intelligenza vigilante e amorosa; domanda la fede. Chi crede nella parola di Cristo raggiunge la realtà di Cristo. Chi accetta la sua verità, avrà la propria salvezza. La crisi che dicevamo, solo si risolve in un sincero e intelligente atto di fede.
E noi, questa sera, celebrando questo rito, sacro e soave fra tutti, veramente umano e divino, siamo invitati a emettere questo atto decisivo davanti al "mysterium fidei" per eccellenza; a rinnovare il nostro atto di fede. Quell'atto di fede che lascia entrare, come da finestra aperta, la luce della parola di Cristo nelle nostre anime, e porta in noi, foriera della sua presenza reale e sacramentale, la sua presenza concettuale e spirituale. Quell'atto di fede, che riassume le nostre regali facoltà di conoscere e di volere, di sentire e di esprimere, la nostra personalità, e ne fa omaggio a Lui, il Maestro, il Signore, il Salvatore. Quell'atto di fede, che rende il nostro pensiero ed il nostro cuore di uomini di questo secolo ribelle e spregiudicato, ma sempre derivato dai secoli che lo precedono, solidale e coerente con la storia del Cristianesimo, con la Tradizione che ci affratella ai Santi e ai Maestri ed ai figli del Popolo di Dio, che ci precedettero e nel sonno della pace attendono, in virtù del Pane dell'immortalità di cui si nutrirono, il risveglio nel secolo eterno. Quell'atto di fede che ci distingue, si, da quei Fratelli, che ancora non lo sanno con noi pronunciare, ma che ci rende altrettanto amorosi al Cristo vivo e vero, che portiamo con noi, quanto amorosi e solleciti di condividere con loro tanta fortuna, tanta pace, tanta felicità.
Quell'atto di fede, che ci consente in questa veglia benedetta, di celebrare insieme la Pasqua di nostro Signore Gesù Cristo, e di saperlo, con ineffabile certezza, di sentirlo quasi, sotto la convergenza di tanti segni eloquenti e di tante significative esperienze, di sentirlo qui, con noi, e di udire ancora la sua voce amplissima e dolcissima: "Ecce vobiscum sum; ecco Io sono con voi" (Matth. 28, 20).
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