III DOMENICA DOPO LA PENTECOSTE
OMELIA DI PAOLO VI
Domenica, 4 giugno 1967
Avete ascoltato le parole del Signore? Le conoscete certo; e forse esse non avranno suscitato in voi l’impressione che meritano, tanto sono diventate abituali nei vostri spirituali colloqui.
IMMAGINARE IL VOLTO DI CRISTO
Eppure c’è molto da approfondire. Immaginiamo che a ciascuno di noi fosse proposto il tema: descrivete la fisionomia di Cristo; fate il ritratto di Gesù, anche sensibile; tracciate il suo profilo, la sua immagine. Verrebbe spontaneo un rilievo. Quante ne abbiamo viste di queste immagini! Tutti gli artisti si sono misurati a tradurre, nei colori e nelle forme, il volto divino di Gesù. E non ne restiamo soddisfatti. Forse la sola immagine della Sacra Sindone ci dà qualche cosa del mistero di questa figura umana e divina. Ma noi quel Volto santissimo vorremmo vederlo vivo; e allora dobbiamo concludere che i tratti sensibili restano indescrivibili: non riusciremo mai in questa impresa. Un giorno, finalmente potremo, Dio voglia, conseguire la infinita felicità di contemplarlo faccia a faccia. Ma, intanto, proviamo a definire il volto di Gesù concettualmente, cioè a notare quali sono i tratti salienti del suo aspetto. Se dovessimo scrivere un brano su questo soggetto ci troveremmo in grande imbarazzo perché il volto morale del Signore è molto complesso, profondo e vario. Lo preferiremmo come l’ha visto, nella tremenda maestà, Michelangelo dipingendo il suo affresco famoso alla Sistina, o lo vorremmo vedere nei lineamenti di talune devote immagini forse un po’ convenzionali: oppure come il profeta che parla delle cose arcane e future: Gesù che predica alle folle dall’alto della montagna? In una parola: qual è il tratto caratteristico a cui Egli ha tenuto? Troviamo la risposta nella definizione di Sé quando ha detto: imparate da me che sono mite ed umile di cuore. Per questa via noi riusciremo a scorgere qualche cosa della sua vera, storica e spirituale figura.
IL BUON PASTORE CUSTODISCE E CERCA
Soffermiamoci a quanto ci espone il Vangelo. Gesù ha tratteggiato un paragone che, si può dire, riassume l’intero suo insegnamento quando ha detto: Io sono il Buon Pastore. Gesù ha voluto assimilarsi questa semplice figura agreste che, meditata in chiave simbolica, ci dice un’immensità di cose. Ora proprio questo pensiero ritroviamo nella pagina evangelica di oggi, e quasi in fase polemica.
Avevano rimproverato al Divino Maestro di conversare con gente assai discussa, con i pubblicani, i peccatori; di arrivare persino ad assidersi a mensa con loro. Non così doveva agire un profeta. Come fa a chiamarsi il Cristo chi discende all’ultimo livello dei rapporti sociali? Allora Gesù, per difendersi, ricorre ai due paragoni: del pastore, il quale, avendo smarrita una pecora, lascia nel sicuro recinto le novantanove che non corrono pericolo e va in cerca della centesima, e non desiste dalla fatica sin quando non la riporta all’ovile. Il secondo raffronto è molto curioso. Gesù si paragona a una dorma di casa la quale cerca con ansia una moneta cadutale dal gruzzolo, e rovista ovunque sin quando riesce a ritrovarla. In questi affanni Gesù raffigura Sé stesso. Incontriamo, così, nel racconto, il tratto saliente della fisionomia umana e morale di Cristo.
APPARTENIAMO A DIO
Gesù si è voluto raffigurare in un ricercatore, poiché viene a recuperare gli uomini perduti. Gesù insegue un essere, un tesoro che gli è sfuggito di mano e si rappresenta nell’ansia di chi sta appunto esplicando la ricerca febbrile di ciò che per lui è inestimabile bene. Il Figlio di Dio ricercatore degli uomini!
Ciò vuoi dire - qui incomincia la riflessione in profondità della pagina del Vangelo - che gli uomini, e siamo noi, appartengono a Lui; sono sua proprietà. Ancor prima di aprirmi alla coscienza e alla vita, io sono già nel Cuore di Cristo, l'’Uomo-Dio; sono il suo gregge, il suo avere, la sua ricchezza.
Noi, iniziando la vita, siamo già parte di questo patrimonio: esso è inestimabile. C’è la grande parola scritturale che dice di Dio: «Ipse prior dilexit nos» . Il Signore ci ha amato personalmente prima che noi potessimo pensare alla nostra sorte, al nostro destino. Siamo nati in un ordine, quello della nostra esistenza, che ci pone in un rapporto di amore verso Chi crea la vita: Dio; e verso Cristo, il Salvatore della vita.
Noi apparteniamo a Dio. E non basta: il miracolo di questa scoperta procede in una rivelazione che non ci aspetteremmo e che sembra illogica. Quegli che è la creatura, a un tratto sfugge, si perde. Questo fatto quale reazione provoca? Noi penseremmo: di collera, condanna, anatema. Chi lascia la fonte stessa della vita si condanna da sé. È come un ramo staccato dall’albero: cade nella morte. Nel Vangelo, invece - ecco la sublime novità - questo distacco che, col Catechismo alla mano, chiamiamo peccato (la più grande disgrazia che l’uomo può infliggere a se stesso, poiché lo separa dalla vita), invece di provocare un abbandono, una condanna, suscita affanno ed amore anche più intensi. Sembrerebbe trattarsi di un paradosso: invece è così. «Ubi abundavit delictum superabundavit gratia».
SCONFITTA LA DISPERAZIONE
È San Paolo che lo dice: dove il delitto, il peccato, la nostra miseria, la nostra sciagurata possibilità di ribellarci a Dio, si pronuncia e diventa subito enorme, con abbondanza di malizia e stupidità, immediatamente si presenta una sovrabbondanza di grazia e di bontà. Felix culpa! canta la Liturgia nella Veglia di Pasqua e S. Ambrogio dichiara : il Signore creò tutte le cose e si fermò all’uomo, perché «finalmente aveva qualcuno a cui perdonare, a cui mostrare il suo cuore, la sua misericordia». Siamo all’ineffabile mistero celato dai secoli e manifestato a noi: la carità di Dio vuole inondare il mondo e raggiungere tutte le anime anche le lontane e perdute.
Ora, se adunque riflettiamo che quelle anime siamo noi, che noi siamo l’oggetto d’una trama divina, di questa attenzione che si concentra su di noi e ci insegue e persegue e ci vuole - dov’è colui da me creato per il mio Amore? dove è finita quella coscienza, quell’anima che Io plasmavo quasi risposta alla mia grande interrogazione: tu mi ami? - coglieremo appieno il contenuto della pagina di Vangelo che stiamo meditando.
L’uomo se ne va; si allontana. E Dio, rincorrendolo e ritrovandolo, disvela la meraviglia della sua grandezza più nel perdonare i fuggiaschi, nel colmare l’abisso di nullità prodotta dal peccato che non nella stessa creazione. C’è un Oremus che indica ciò in maniera esattissima: O Dio, che hai manifestato la grandezza della tua potenza nel perdonare, e nell’avere misericordia . . .
Giunti a questo punto, una ulteriore considerazione si impone. Abbiamo mai pensato quanto noi valiamo? Certo, per le nostre tendenze, abbiamo moltissima stima di noi stessi, e la nostra vanità ci riempie di grosse parole atte a inorgoglire quella che chiamiamo la nostra personalità: eppure non raggiungeremo la vera stima del nostro valore se non aprendo il Vangelo.
Noi siamo oggetto, e tanto più reale quanto meno degno, dell’Amore di Dio. Ora se Dio ci ama è segno che l’essere umano, la nostra vita, è d’un valore incalcolabile. Il Signore ha dato Sé stesso per recuperarci. Dovremmo avere la coscienza piena della nostra dignità: «Agnosce, o Christiane, dignitatem tuam»; e sappi che la sorte, la ventura di vivere è una cosa meravigliosa, immensa, sublime. L’essere viventi vuol dire essere oggetto dell’amore e della stima di Dio.
CI ACCOGLIE SEMPRE L’AMORE INFINITO
C’è ancora di più. Nonostante questo nostro dramma di incoscienza e di malizia col quale dissipiamo il tesoro datoci dal Signore per vivere la sua luce e la sua grazia, noi possiamo essere reintegrati nella dilezione di Dio. Come la pecorella smarrita, la moneta perduta. Siamo fatti per il salutare ritorno. Di questa rivelazione del Vangelo dovremmo ringraziare, con le lacrime agli occhi, il Signore, poiché concerne il destino di ciascuno di noi. Io sono salvabile: dunque non v’è più alcun motivo di disperazione.
Questa pagina del Vangelo cancella, quindi, la disgrazia più grande che possa toccare alla umanità: appunto il ritenersi abbandonati, reietti; il disperare. Quando si pensa agli scritti di gran parte della letteratura moderna, che terminano con asserzioni desolate sulla impossibilità del ricupero, del tornare, del riprendere, del rivivere, del risorgere, bisogna proclamare che il Vangelo sconfigge tali orrori, supera l’abisso e proclama: tu puoi, tu devi sperare. Voltati indietro: guarda Chi ti insegue: Dio ti è vicino. Gesù ti ama: è il Salvatore. Basta aprire le braccia, abbandonarti fiducioso sul suo Cuore. Egli non ti farà aspettare. Ti desidera proprio in questo atteggiamento di umiltà e intende svelarsi a te nel supremo dono della sua bontà. Tu eri morto e il Signore ti resuscita.
Quanto si potrebbe ancora meditare su questo portento di salvezza operato da Cristo! Ma soffermiamoci su di un solo tratto, quello che ci proponevamo di cogliere per imprimere nel nostro cuore l’immagine di Cristo. È il tratto che lo definisce di più. Ricordatevi, o figli, o fratelli, che Cristo è buono: anzi è la Bontà inesauribile; è l’Amore infinito.
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Un saluto speciale alla Gioventù dell’Azione Cattolica Italiana, che ha promosso un convegno molto singolare, almeno nella storia dell’Azione Cattolica, secondo quanto afferma il Presidente, e cioè: questi giovani lavoratori e giovani lavoratrici stanno studiando insieme il tema: «Prepararsi all’amore».
UNA MISSIONE DELL'INTELLETTO E DEL CUORE
Grande argomento e nuova pedagogia nelle nostre associazioni. E se pur si rimane riflessivi e cauti di fronte a tale novità, sorge l’augurio che i risultati siano buoni. Infatti il convegno vuol proprio mettere in evidenza non solo la realtà delle cose: la gioventù chiamata, quasi da una vocazione, all’amore; ma la vuol porre nella sua evidenza migliore e più alta, più nobile, responsabile, cosciente e quindi meglio guidata da quella intelligenza, da quei propositi, da quella fede cristiana che devono dare all’amore la sua vera espressione, il suo volto, quale Iddio stesso ha stabilito nell’infonderlo nel cuore dell’uomo e della donna.
Ed ecco che voi - prosegue il Santo Padre - diventate alunni di questa scuola. Lasciateci riferire un istante alla piccola meditazione presentata, or ora, durante la Messa. Voi state riflettendo come imparare ad amarsi: Noi abbiamo poco fa insegnato come imparare ad essere amati; come, cioè, ricevere l’amore di Dio, che diventa la nostra scuola, l’energia e la luce per tutta la nostra vita. Perciò, se riceviamo pioggia d’amore sopra di noi, diverremo anche capaci di esercitare l’amore nella maniera più conforme alle disposizioni di Dio; di esprimere intorno a noi tale sentimento dopo averlo da Lui ricevuto.
Quando si riceve l’amore del Signore e davvero si è convinti della assoluta verità che Iddio ci ama, si procede bene verso le manifestazioni d’amore, con dovizia di sapienza e di propositi, necessari per dare a questa espressione provvida e stupenda della vita umana la sua autenticità e la sua migliore manifestazione.
ASCENDERE SEMPRE VERSO LA DIGNITÀ PIÙ ELETTA
Il Papa, parlando ai diletti giovani di Azione Cattolica che affrontano con tanta semplicità e nobiltà di sentimenti un tema oltremodo importante della vita, si dice lieto per i loro intenti, poiché è sicuro che essi hanno già appreso una prima nozione rilevantissima: la polivalenza - per usare un termine oggi ricorrente - della parola amore.
Questa parola indica tante cose. Si potrebbe erigere come una scala dei suoi significati, e notare come, dai gradini più bassi, ci si può innalzare sino a pervenire a quelli più eccelsi. Se si resta negli strati inferiori, l’amore è passione, è istinto; tante volte è vizio, offesa all’ordine, ai buoni sentimenti e, soprattutto, quando diviene rapporto a due, offesa al rispetto dovuto all’una e all’altra persona. Ma se si ascende, ecco l’amore diventare ricerca, integrazione, complemento naturale dell’esistenza.
Un autore inglese ha scritto: il Signore ci ha fatti uomini e donne per insegnarci ad amare. Ha impresso nella natura questa legge che è la sua finalità, il suo disegno. Vuole che l’uomo e la donna imparino ad amarsi per il fatto che essi sono complementari e cercano quella integrazione, unità e interpersonalità, che sarà domani, se Dio vuole, la famiglia.
Si proceda, dunque, sempre più in alto per la scala dell’amore. Solo in alto sono le espressioni molto nobili ed umane e quindi più responsabili.
«DEUS CARITAS EST»
Tuttavia, per ben raggiungere l’elevato traguardo, bisogna chiedersi: che cosa è l’amore? Qui troviamo il grande equivoco, la grande confusione: giacché non c’è alcuna parola che esprima l’egoismo umano, come l'amore; e non c’è nessuna parola che esprima la generosità umana, come l’amore. Il che vuol dire che l’amore può essere quanto di più gretto, egoista, ingrato, sterile e minaccioso può esservi per la vita umana, e, per altro verso, dimostrarsi quale ideale fecondo, sacro, eroico, sublime, e che avvicina a Dio.
Il Signore, anzi, si è riservato, proprio nella accezione. più alta e assoluta, il termine amore per definire Se stesso: Deus caritas est; Dio è Amore.
Dunque - così Sua Santità rivolto ai giovani che Lo ascoltano - voi salite questa scala per arrivare ai significati più veri e più sublimi del concetto di amore; ed arrivate a quel grado in cui è detto: bisogna che l’amore sia cosciente; cioè non sia fatto solo di istinto, passione, sentimento, ma contenga un atto riflesso di pensiero, di responsabilità, di grazia.
Volete che l’amore sia davvero conforme alle sue leggi fondamentali? Guardiamo alla testimonianza di tanta letteratura che, in genere, è sciagurata e desolata, perché si attarda ai gradi più deplorevoli. Viene, in un certo senso, a ribadire ciò che il cristiano afferma: l’amore tende ad essere esclusivo; tende ad essere perenne. Le due grandi basi su cui sorgerà, domani, una famiglia legittima e buona sono l’esclusività e la perennità, premesse della indissolubilità. Se non si accettano queste due caratteristiche essenziali dell’amore, esso è tradito, deformato, oppresso, perduto: procura soltanto infelicità. Bisogna essere permanentemente decisi nell’aspirare ad un amore unico che riempie il cuore ed è totale, ad un amore che non sarà mai rinnegato e non verrà mai meno: travalicherà anzi i confini del tempo presente per attingere quelli del Paradiso, dell’eternità.
Se voi siete incamminati su questa via, in questa pedagogia, figliuoli carissimi, state procedendo per una grande strada maestra e Noi vi auguriamo che, così, sappiate davvero conoscere ed attuare il vero e grande amore. Imparare ad amare; questa frase può sembrare paradossale: contraria ai moti naturali del cuore umano. E invece i giovani saggi, che vogliono vivere la propria fede cattolica, sono convinti che l’amore ha bisogno d’una grande scuola.
UN CAMMINO COSPARSO DI VIRTÙ
Occorre dunque imparare anche in questo campo. Non si deve amare per istinto, per passione, interesse, svago, capriccio. L’amore - se si vuole realmente che esso adempia la sua definizione e sia la fortuna, la gloria, la felicità della vita presente e futura - deve essere ricco di innumerevoli virtù. Non ì: sufficiente amare solo perché si è inclini a tale sentimento. Bisogna educarsi ad amare bene e si troveranno tante meraviglie spirituali in questo cammino, a cominciare dal rispetto reciproco, dalla attesa riverente, vigile ed orante. Splenderà alla fine il convincimento che non si può veramente amare se non si è disposti al dono dell’offerta totale, il che vuol dire abnegazione, sacrificio. E chi costruisce sopra questi fondamenti la propria regola di vita, è nel giusto.
Ma per guadagnare questo traguardo, quale fervore di anima, conoscenza della vita, dominio di sé è indispensabile; quante conversazioni con maestri e direttori di spirito; quali ponderati esami e quale scelta! Sì, l’amore è una scelta facile e difficile allo stesso tempo.
Di qui il voto del Padre, che vuol bene ai propri figli e null’altro desidera se non la loro perfezione e felicità. Vi auguriamo di saper scegliere, di saper scegliere bene; e che i vostri Angeli Custodi vi siano sempre vicini a consigliarvi, giacché la scelta deve essere coraggio, sia pur rischio e sacrificio. Sia, in una parola, il vero amore. E il Signore ve ne dia l’esperienza e la pienezza.
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