«MISSA IN AURORA» NELLA PARROCCHIA DI SANTA MARIA REGINA MUNDI
A TORRE SPACCATA
OMELIA DEL SANTO PADRE PAOLO VI*
Roma
Santo Natale, 25 dicembre 1971
Fratelli e figli carissimi: perché sono venuto fra voi? Sono molte le ragioni, anche semplici, salvo una che semplice non è. Dunque sono venuto prima di tutto per conoscervi e per farmi conoscere: forse molti di voi non hanno visto ancora da vicino il Papa. Eccolo qua: è così lontano?
No! Vuole essere vicino, vicino al popolo che il Signore gli ha dato che è il popolo di Roma. E sono quindi venuto per salutarvi e salutarvi tutti.
Vedete abbiamo qui il cardinale Dell’Acqua, che è colui che fa le nostre veci per la vita pastorale in Roma e pubblicamente, davanti a lui, conoscendo il suo zelo e conoscendo quanto lui si prodiga per il bene della popolazione romana, io lo ringrazio nel nome del Signore che oggi celebriamo: lo incoraggio e lo benedico. E con lui i vescovi, vedete, sono qui i vescovi ausiliari, quelli che condividono con lui questa grande opera di evangelizzare e predicare la Parola del Signore, di assistere spiritualmente tutta questa grande città che continua a crescere e a dilatarsi e aumentare di popolazione, e abbiamo — io per primo e loro con me — il dovere e l’onore di servirvi, di essere vicini, di curare i vostri interessi spirituali e perciò io ringrazio e saluto quelli che in questa grande opera, che è l’opera di Dio, prestano il loro aiuto.
Primo fra essi chi è? È il vostro parroco. Come lo chiamate voi? Padre Nazareno? Nazareno Mauri? Ecco, lo salutiamo davanti a voi, perché gli vogliate bene, perché cercate di assecondare le sue cure, perché abbiate cuore a chiedergli di assistervi: «Ci faccia pregare, ci insegni, ci renda buoni, ci renda cristiani, ci santifichi, ci renda degni del grande destino che a noi è prefisso, quello di andare tutti in Paradiso».
Se non abbiamo chi ci dà una mano, chi ci dà questo ministero, questo servizio di Dio potremmo smarrirci, potremmo restare senza il grande scopo della nostra vita che è quello di salvare le nostre anime. E quindi anche lui, il vostro parroco, lo ringraziamo di dare tutto se stesso al vostro servizio, al vostro bene, e lo incoraggiamo, lui e i suoi confratelli, che lo aiutano in questa non piccola ma tanto degna fatica, e con lui estendiamo il nostro saluto reverente e grato a tutta la famiglia dei Padri Carmelitani dell’Antica Osservanza, che hanno loro affidato il servizio pastorale, il ministero parrocchiale di questa borgata.
Io avrei tanto da dire su questi cari religiosi, perché? Ma perché la loro casa, come dire, centrale qui a Roma è San Martino ai Monti, e San Martino ai Monti era il titolo che Papa Giovanni aveva dato a me quando volle che fossi anch’io associato al Sacro Collegio, cioè diventato cardinale mi disse: «Tu avrai per titolo San Martino ai Monti» che è la chiesa dei carmelitani, che vi prestano servizio. E poi sono nostri amici perché hanno la chiesa della Traspontina, che è a due passi dal Vaticano e quindi siamo in stretta comunicazione, tanto che qualcuno di loro, e anche il vostro parroco per un tempo ha prestato servizio presso il nostro ufficio centrale, diciamo così, la Segreteria di Stato, e quindi è tutta la grande famiglia carmelitana — anche alle carmelitane, vero — a tutte queste anime che si stringono intorno al Carmelo, diamo il nostro saluto e la nostra benedizione questa mattina.
Dicevo: sono venuto per conoscervi e conosco un po’ la vostra parrocchia. So che siete già una comunità. Che sarebbe una parrocchia se fosse una folla senza legame, senza coscienza della propria unità, senza gli organi che la debbono tenere insieme, che sono le associazioni?
Sappiano di tutti quelli che appartengono alle associazioni parrocchiali, che sono tante, è vero: c’è l’Azione Cattolica, ci sono quelle spirituali, religiose, eccetera, quelle che si occupano degli altri, ci sono i catechisti mi dicono. Ebbene a tutti quelli che sono appunto in questa organizzazione e in questa nervatura che tiene insieme e fa corpo della vostra grande popolazione, io do un saluto speciale e incoraggiamento. Sento il dovere di ringraziare anche loro e di incoraggiarli, perché anche essi sono innestati nel grande sforzo che si fa per arrivare a tutti.
Siete, mi dicono, qui quasi 30.000! Oh quanti… quanti! E qui non c’entrano neanche tutti; se tutti fossero qui. Voi porterete il mio saluto anche a quelli che sono rimasti a casa e che sono fuori. A tutto questo corpo. E ricordate che non abbiamo gli occhi chiusi neanche per quelli che hanno ancora bisogno delle cose elementari e indispensabili per la vita: la casa, il lavoro. Per tutti questi che sono qui, in questo quartiere, voglio lasciare un saluto e una benedizione e potrei anche lasciare una promessa, e cioè di fare quello che si può perché siano consolati e assistiti e siano lieti. Abbiamo qui anche le autorità cittadine che vengono appunto per attestare la loro buona volontà.
Credetelo: vogliono fare per voi tutto quello che possono. È vero? E allora ringraziamo e benediciamo appunto quelli che impegnano il loro tempo, la loro vita, la loro capacità per aiutare la popolazione di Roma, specialmente quella che ha maggior bisogno di questo soccorso, che non è facile e lo sapete, ma credete però che dietro a questa difficoltà c’è un volere preciso, assoluto ed espresso di fare quanto è possibile per venire in aiuto di tutti. Ecco perché sono venuto.
Sono venuto, vi confiderò una cosa, anche per consolare me stesso, cioè per fare un Natale bello; voglio dire che anche il Papa deve fare un buon Natale e il mio Natale più bello è quando posso essere insieme a quelli che il Signore mi ha dato per fratelli e per figli. Essere insieme nella mia famiglia spirituale: voi siete una parte di questa famiglia, avete una bella chiesa nuova. Non è ancora del tutta finita ma indica già, anche qui, uno sforzo per fare le cose nuove, proporzionate ai bisogni e tutto questo per me è una grande, una grande consolazione.
Voi forse immaginate che il Papa sia l’uomo più felice di questa terra? Non è vero: beh, «felice come un Papa» si dice. Se sapeste! Perché? Ma perché tutti i dolori di questo mondo, tutte le necessità, le guerre, le controversie fra gli uomini, e soprattutto il vedere tanti che sono lontani dal Signore, che tanti lo combattono, lo negano, lo offendono, e tutto questo viene a finire nel nostro cuore.
E allora trovare una comunità come la vostra: migliaia di fedeli, di gente buona, di gente che spera e crede nel Signore, per me è una grandissima gioia, è una grandissima consolazione e perciò non siete voi che dovete ringraziare me di questa visita, ma sono io che debbo ringraziare voi per avermi accolto questa mattina per augurare a tutti proprio con il cuore aperto l’augurio di buon Natale … di buon Natale.
È qui che si incentra la ragione precisa per la quale io sono venuto fra voi: per celebrare il Natale. Io vorrei avere qui alcuni ragazzi del catechismo per sentire da loro se sanno che cosa è il Natale. Beh, sì che lo sanno: c’è qui un bel presepio, sanno subito che Natale è la festa che commemora la nascita di Gesù, e fino a qui ci arriviamo tutti, anche i bambini del catechismo, i più piccoli possono dire: «Oggi è Natale, è venuto Gesù Bambino».
Ma se io vado avanti con le domande: «Ma chi era Gesù Bambino?», «Gesù bambino è il figliolo della Madonna, è il figlio di Maria». Ed è tutto? Ecco, la grande cosa che dobbiamo avere presente nell’anima, facciamo uno sforzo, un po’, non dico per capire, ma almeno per farvi attenzione: Gesù, quel Gesù che vediamo nel presepio, quel bambino che vagisce lì, che non ha nessuna forza, nessuna espressione di sé, proprio perché è un bambino appena nato: quel Gesù è Figlio di Dio!
Da dove viene? Ma viene dal cielo, dove, lo diremo adesso, fra poco cantando il Credo: descendit de caelis, «è disceso dal cielo», ha questa prerogativa, questa singolarità unica, misteriosa e immensa, che racchiude in sé due figliolanze: è Figlio di Maria e quindi è fratello nostro, è uomo, ed è figlio di Dio, è figlio di Dio! Viene dal cielo, in lui vive la divinità.
Colui che ha creato il cielo e la terra, colui che è sempre stato e sempre sarà, colui che è la ragione, il principio dell’essere di tutte le cose, della nostra vita, della nostra esistenza, colui che conosce tutto, che vede nei nostri pensieri, colui che è presente a noi più che noi stessi, quello che si chiama Figlio di Dio, è venuto a farsi insieme figlio dell’uomo e allora la meraviglia deve essere la caratteristica di questa festività: siamo meravigliati, siamo ammirati, siamo sorpresi, siamo incantati per questo fatto che Dio si è fatto uomo, e che è in mezzo a noi.
Tenetelo bene a mente, perché questo è quello che io vi volevo dire venendo fra voi.
Il Natale è la visita fatta, non dal Papa che viene in mezzo a noi, non è che un simbolo questo, non è che un segno. È la visita, è la venuta di Cristo tra noi e Cristo è il Figlio di Dio fatto uomo. È la discesa di Dio in mezzo a noi. Come è lontano Iddio, cioè come è misterioso, come è inaccessibile, come è incomprensibile. Tanta gente non ci crede, perché? Ma perché non lo vede con gli occhi, perché non lo sente, perché non capisce, perché comprende una cosa: che se c’è Dio, Dio è un mistero senza confini e viene da questo mistero senza confini, da questo Dio nella profondità del tempo e dello spazio.
Avete mai guardato il cielo? Avete mai pensato ai secoli che sono passati? Tutti gli esperimenti recenti di questi astronauti che vanno alla Luna ci hanno almeno abituati a guardare un po’ di più la volta stellata che sta sopra di noi. E pensare a queste distanze immense, a questi secoli senza numero, che segnano l’età dell’universo e quindi il Dio di questo universo. Ebbene il Dio di queste profondità, il Dio infinito, il Dio che sta nei cieli. «Padre nostro che sei nei cieli», che sei in questo tuo ... in questo immenso, immenso mistero; questo Dio che è inafferrabile ai nostri occhi, e così poco pensabile anche ai nostri cervelli, questo Dio vero.
Lui è venuto in mezzo a noi e per farsi conoscere, per farsi direi afferrare da noi si è fatto nostro fratello, si è fatto uno di noi, si è rivestito di carne umana, si è fatto uomo, per venire proprio a essere nostro amico, nostro collega, nostro compagno. Per darci confidenza!
Dio avrebbe potuto venire vestito di gloria, di splendore, di luce, di potenza, a farci paura, a farci sbarrare gli occhi dalla meraviglia. No, no! È venuto come il più piccolo degli esseri, il più fragile, il più debole. Perché questo? Ma perché nessuno avesse vergogna ad avvicinarlo, perché nessuno avesse timore, perché tutti lo potessero proprio avere vicino, andargli vicino, non avere più nessuna distanza fra noi e lui.
C’è stato da parte di Dio uno sforzo di inabissarsi, di sprofondarsi dentro di noi, perché ciascuno, dico ciascuno di voi, possa dargli del tu, possa avere confidenza, possa avvicinarlo, possa sentirsi da lui pensato, da lui amato… da lui amato: guardate che questa è una grande parola! Se voi capite questo, se voi ricordate questo che vi sto dicendo, voi avete capito tutto il Cristianesimo.
Che cosa è il Cristianesimo? Che cos’è questa nostra religione che ci fa costruire queste case, che ci organizza in parrocchie, che ci fa una famiglia sola, che ci fa diventare Chiesa sua? Che cosa è? È l’amore di Dio per noi. La capite questa parola: Dio ci ama, dilexit nos, ci ha voluto bene ancora prima che nascessimo; ha riconosciuto le nostre cose, e ha avuto un occhio, ha avuto un raggio di bontà e si è fermato sopra ciascuno di noi.
Mi dite chi di voi può dire: «Io non sono amato da Dio». Un malato? Ma se il Signore è venuto per quelli che soffrono. Un bambino? Ma se si è fatto bambino. Una povera donna di famiglia? Ma se è venuto anche lui per vivere in questa nostra famiglia umana. Un povero? Ma se ha voluto essere anche lui un povero. Un operaio? Ma se è voluto essere lui un povero falegname in un piccolissimo paese, Nazareth, dove ha passato trent’anni della sua vita, la maggior parte, per essere nostro compagno, per condividere con noi questa fatica della esistenza umana.
Gesù ha voluto venire tra di noi — Dio fatto uomo — perché comprendessimo il suo linguaggio, la sua parola divina, ma pronunciata non nel linguaggio misterioso con cui parla agli angeli e con cui parla nel silenzio degli spazi e dei secoli. Ha voluto assumere le nostra labbra per farsi capire e diventare… Come lo chiamiamo Gesù di solito? Maestro! È venuto per parlarci, per effondere la sua scienza, la sua sapienza. E come? Chissà che parole difficili che ha detto.
Ma no! Sono parole fatte apposta per i nostri poveri cervelli, per la nostra povera intelligenza, ma sono sempre parole divine, immense, che scoppiano quando noi le riceviamo nella nostra anima, tanto sono grandi e ha detto il suo grande messaggio che è come un programma di tutto il Vangelo: «Beati voi poveri, perché di voi è il mio regno, beati voi che piangete e soffrite perché io sono venuto a consolarvi, beati voi che amate e soffrite per la giustizia, perché io vi sfamerò, vi darò questa giustizia, e beati voi puri di cuore perché voi vedrete Dio, avrete la simpatia e l’intuizione di che cosa sono le cose divine».
Questo è il linguaggio che ha usato il Signore e si è fatto quindi maestro, senza sedere sulla cattedra, ma in mezzo al popolo, seduto per terra, passeggiando con i suoi discepoli.
E poi? Tutto qui? Guardate: è venuto Gesù, è venuto per dare la sua vita per noi. Non capiremo mai abbastanza Nostro Signore Gesù Cristo, se non comprenderemo questa sua intenzione, questo destino che segna davvero il perimetro della sua vita. Gesù è venuto per morire, ecco, è venuto per salvarci.
Se uno di voi fosse stato salvato da un incidente che, ahimè, succede spesso sulla strada, avreste gratitudine per quel coraggioso che si è esposto al pericolo per salvare voi?
Avete sentito la storia di quello che abbiamo beatificato qualche settimana fa, padre Kolbe? Forse sì. Però fatevela raccontare lo stesso, perché è tanto bella: un religioso francescano polacco, molto bravo, che ha fatto tanto bene parlare di sé per le opere grandi, riguardo la stampa specialmente, viene preso dai tedeschi e messo in un campo di concentramento.
Un prigioniero fugge, non si trova dove sia questo, e allora — come era metodo di questa inumana gente — il sistema prevede: «Noi ne uccideremo dieci, per vendicarci di questo che è scappato». Ne hanno trovati nove. Il decimo era un padre di famiglia, che io ho veduto, sapete. Quando ho fatto la beatificazione in San Pietro lui c’era. «Sono stato io salvato da Massimiliano Kolbe».
Perché? Perché questo prigioniero è uscito dalle file e si è presentato all’ufficiale e gli ha detto: «Questo è un povero padre di famiglia, lo lasci andare, prenda me», e hanno preso lui. Ed è morto per salvare questo polacco: è un gesto eroico, gratuito, spontaneo, senza nessuna gloria, senza nessuna ricompensa. Ebbene è morto per salvare questo padre di famiglia e Gesù è morto per salvare ciascuno di noi: Diléxit nos, et trádidit semetípsum pro nobis. Ha dato se stesso per noi.
Io vorrei che vi restasse nel cuore, per ricordo di questo Natale, proprio questo pensiero. Se siamo stati amati da Cristo, da Dio in Cristo che dobbiamo fare? Rispondete voi. È una cosa che sembra semplice, ma comprende tutta la nostra vita: dobbiamo dare anche noi. Se è così ricco per noi, se è così buono con noi, se è stato così generoso con noi, se ha dato la sua vita per noi, allora gli vorrò bene, mi guarderò anch’io di volergli bene, mi sentirò cristiano, cioè legato dalla gratitudine, da riconoscenza, da amore a questo Gesù che ha dato la sua vita per me.
Ed è tutto. Quelli che rispondono a questo amore sono cristiani.
E avviene un secondo fatto. Se davvero siamo stati tutti amati in Gesù Cristo eccoci qua! Ci troviamo insieme, si produce una comunità, si produce una comunità, si produce una simultaneità, si produce un corpus, si produce una società: come si chiama? Si chiama Chiesa. Siamo noi la Chiesa. Noi che siamo i salvati di Cristo.
Quindi due conseguenze da tutta questa meditazione.
Primo: bisogna che davvero comprendiamo meglio, non essere distratti. Non siamo gente che dimentica e non siamo degli ingrati, perché la cosa più grave, più generale della nostra povera umanità è questa, di non avere la gratitudine, quanta dovrebbe avere per Dio che così ci ha amati. E amare Gesù vuol dire pregarlo, vuol dire venire in chiesa, vuol dire davvero essere religiosi, per via di amore.
Tanti vedono nella religione una cosa che opprime, una cosa difficile, una cosa incomprensibile, una cosa noiosa: no! La religione, l’essere a contatto con Cristo e con Dio è una cosa che ci riempie di felicità, di gioia. Perché? Perché è l’amore.
Il primo, il grande comandamento che il Signore ci ha lasciato è questo: ama, ama Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e tutte le tue forze. Anzi ha detto una parola che sembra, a me fa sempre tanta impressione e che anche a voi certo la farà: se ci pensate: «Amatevi». Come? Quel come che fa cascare le braccia: «Come io vi ho amato». Ma come è possibile amare come il Signore ci ha amato?
Dov’è il nostro piccolo cuore, lui che ha il cuore che comprende tutto il mondo, lui che ci ha dato questo saggio di generosità, che è infinita, questa donazione eroica di sé. Ma posso io amare in questa misura?
La misura no, ma l’esempio sì: come Signore tu hai amato me, io cercherò di amare te, la mia vita sarà tesa in questo desiderio di rispondenza, in questo desiderio di dialogo, di incontro, di amore con te. Voi sapete che cosa è l’amore, questo sentimento fondamentale della nostra vita verso Cristo e verso Dio. Siete cristiani che sarete salvati.
E in secondo luogo su questo «amate ancora come io ho amato», Gesù ha amato tutti gli uomini, Gesù non ha detto di no a nessuno. Gesù non ha avuto odio nemmeno per colui che lo ha tradito, Giuda. Ha udito parole amare di condanna e quando Giuda col bacio, con la profanazione, con la ipocrisia più fiera e più crudele, lo ha tradito, Gesù che cosa ha detto? «Amico, amico, con un bacio tradisci il figlio dell’uomo», cioè Lui. Vedete chi è Gesù: lo conoscete adesso questo cuore di Cristo? Ebbene noi dovremmo imitare il cuore del Signore, cioè essere capaci anche noi di amare tutti.
Vorrei fare delle domande e poi finisco. Per celebrate il Natale: avete fatto qualche opera buona? Avete perdonato a qualcheduno? Avete pregato per qualcheduno che ne ha bisogno? Avete detto una buona parola per consolare qualcuno? Avete dato un po’ di gioia a qualche bambino, a qualche parente o a qualche persona? Avete cercato di effondere e di trovare in fondo al vostro cuore un po’ di calore, un po’ di dolcezza da dare intorno a voi? Avete fatto un atto di amore per questa vostra comunità, questa nostra società spirituale, che è la parrocchia? Beh, fatelo con me adesso! Noi celebreremo la Messa proprio per questa parrocchia, perché diventi davvero una famiglia in Cristo, perché l’amore di Cristo regni, trionfi nella vostra comunità parrocchiale.
L’amore deve essere il sole che illumina la nostra vita, il sole che scende e che dirige il nostro amore dal senso verticale al senso orizzontale: amiamo Dio e amiamo il prossimo.
Se abbiamo capito questa chiave, questa sintesi del Cristianesimo, allora possiamo andare vicino al presepio, chiudere gli occhi e pensare a questo bambino che è venuto per essere il nostro Salvatore.
* L'Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.293, 24/12/2014
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