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FESTA DELLA PRESENTAZIONE DEL SIGNORE AL TEMPIO

OMELIA DI PAOLO VI

Mercoledì, 2 febbraio 1972

 

La festa, che oggi la Chiesa ci invita a celebrare, è complessa per il duplice fatto registrato nel Vangelo di San Luca (Luc. 2, 22, ss.) della Purificazione di Maria e della Presentazione di Gesù al Tempio, secondo il rituale ebraico (Cfr. Lev. 12, 2-8; Ex. 13, 2), e per lo sviluppo liturgico e popolare, che la commemorazione di tale fatto assunse, in forme e in tempi diversi, nella tradizione cristiana (Cfr. P. RADÒ, Ench. Lit. II, 1138, ss.), così che si presta a diverse considerazioni spirituali. Rimase per noi caratteristico di questa festa il rito della benedizione delle candele, forse derivato dalla solennità che a questa celebrazione era data, fin dalla fine del IV secolo a Gerusalemme (si veda la celebre Peregrinatio Etheriae, a. 395), o forse a causa della processione notturna, istituita da Papa Gelasio (492-496) per sostituirla nel costume cristiano a quelle lustrali pagane, solite a compiersi nel mese di febbraio (Cfr. M. RIGHETTI, Manuale di St. Lit. II, 84). Oggi il rito si evolve, e prende forma e significato di offerta, che voi state compiendo, ed a cui noi vogliamo attribuire il suo valore altamente espressivo: il cero si fa simbolo d’un’oblazione sacra, la quale, per un verso, vuole connettersi con quella di Gesù Cristo bambino, presentato a Dio in riconoscimento dell’ossequio voluto da Dio circa ogni primogenito, per un altro verso intende professare l’omaggio di obbedienza e di fedeltà all’Apostolo Pietro, nella persona del suo successore, Vescovo di Roma.

«UN CERO È UNA LUCE»

Se vogliamo pertanto fermare un istante l’attenzione su questo aspetto della singolare e tradizionale cerimonia, noi dobbiamo oggi entrare nell’intenzione e nello spirito d’un’oblazione. Un’oblazione, la quale ha nel cero il suo simbolo, il suo linguaggio, così semplice così profondo. Che cosa è un cero, nell’uso e nella mentalità liturgica? Qui si potrebbe fare una bella escursione nella spiritualità religiosa cattolica, la quale non rifiuta di servirsi di segni materiali, ma ne fa alfabeto sacramentale, artistico perciò, e di più misterioso e sacro. Un cero è una luce. Ricordate il triplice grido della liturgia del Sabato santo, quando la processione, entrando nella chiesa buia e deserta della presenza di Cristo, vibra di stupore e di gioia alla voce del diacono, che grida, alla accensione del cero: lumen Christi? E così la luce è tutto lo spazio della vita cristiana, della rivelazione divina, che risplende nelle tenebre dell’universo cosmico e della cecità sconfinata dello spirito umano. È una luce, che stabilisce una relazione dell’uomo con le cose, con gli altri uomini, con il tempo, con ciò che è e ciò che si muove, con la vita. Rileggete nel cuore il prologo di S. Giovanni: «la vita era la luce» (Io. 1, 4). E poi tutti ricordate la teologia evangelica della luce. La luce è Cristo. «Mentre io sono nel mondo, dice Cristo stesso, sono la luce del Mondo» (Io. 9, 5). E la luce siamo noi, noi stessi se la riceviamo da Lui: «Voi siete la luce del mondo» (Matth. 5, 14) ci dice il Maestro. Ma come la riceviamo, come la facciamo risplendere? Ancora il cero ce lo dice: ardendo, e ardendo consumandosi. Un lampo di fuoco, un raggio d’amore, un’inevitabile immolazione si celebrano sopra quella candela pura e diritta, mentre essa, effondendo il suo dono di luce, esaurisce se stessa in silenzioso sacrificio (Cfr. GUARDINI, I santi segni, p. 56, ss.). Dove trovare riflessa con più lirica e drammatica evidenza la storia della vita cristiana? dove riscontrare più aperto e vissuto quel «sacerdozio regale» (1 Petr. 2, 9), che il Concilio ha ricordato alla nostra fede e alla nostra pietà, riscoprendolo in ogni cristiano rigenerato dal battesimo, e che si fa manifesto mediante il cero sacro a lui, il nuovo cristiano, subito consegnato, dopo la sua inserzione nel Corpo mistico di Cristo, la Chiesa, da questa medesima Madre e Maestra?

TRIBUTO DI SUDDITANZA A CRISTO E ALLA CHIESA

Ma il cero, in questa cerimonia, esprime qualche altra cosa, come dicevamo, cioè l’oblazione dell’offerente a Cristo e alla sua Chiesa. Esso vuol essere un tributo di sudditanza. E allora il cero, simbolo di un’offerta della propria vita, integra il simbolo della luce; lo integra con quello d’una testimonianza, con quello d’un programma di vita, con quello d’una scelta, che decide dell’orientamento e dell’impiego della propria esistenza. Questo dono vuol dire: ecco, io riconosco sopra di me il dominio assoluto di Dio, la possessione di Cristo, l’autorità della Chiesa.

È un atto di umiltà, di fedeltà, di obbedienza, che prende figura nell’offerta del cero. Se volessimo approfondire quest’analisi, forse ci troveremmo sconcertati dal timore di compiere un gesto falso e insincero, perché contrario a quella coscienza della propria autonomia, della propria libertà adulta, della propria dignità personale, oggi dominante nella psicologia moderna. Anche fra noi, discepoli della dottrina di Cristo, questo sentimento di indipendenza e di autogoverno è così penetrato, che duriamo fatica, a prima vista, a scoprire come l’ossequio religioso e canonico, che ci è richiesto nell’economia ecclesiale, non solo si accorda con la vera libertà dei figli di Dio, ma ne è il fondamento e la garanzia. Abbiamo paura di essere asserviti ad una teocrazia anacronistica e insopportabile.

PARTECIPAZIONE ALLA COMUNIONE ECCLESIALE

Mentre invece non ci deve essere difficile, né ingrato, rivedere, alla luce meridiana della nostra fede, come la sudditanza, a noi richiesta da questo ordinamento teologico ed esistenziale, è alla base del nostro essere di uomini, di cristiani, di cattolici, di eletti alla sequela di Cristo. Servire Deo regnare est: non è questo un semplice proverbio ascetico; è la sintesi d’una metafisica religiosa, la quale discopre la sua ragionevolezza, anzi la sua beatitudine, quando, come nella casa di Dio, alla quale per via di fede e di grazia siamo stati ammessi, noi sperimentiamo come questo servizio che vogliamo professare verso Dio e verso ciò che a Dio ci conduce, non è schiavitù, non è degradazione, non è perdita della propria libertà, ma è piuttosto l’impiego più alto di questa libertà, è l’elevazione al livello superiore della conquista e del godimento dei valori superiori della vita, è associazione all’amore di quel Dio ch’è Padre e che Amore si definisce; ed è sequela di Cristo, e partecipazione a quella comunione che definisce la Chiesa.

L'ATTESA DEI GIOVANI

È servizio, sì. Ma quale significato di reale grandezza riacquista oggi questo decaduto ed ora riabilitato vocabolo, se riferito alla coscienza ideale della vita e a quella sociale del nostro tempo! Diventa vocazione. L’uomo ha bisogno di servire una causa per la quale valga la pena di dare questa vita presente. Forse tanta gente, oggi, si agita e si ribella, perché non sa chi e che cosa meriti davvero d’essere servito. La leggenda di S. Cristoforo dovrebbe essere raccontata di nuovo alla nostra generazione. Forse tanti giovani, inconsciamente non attendono che una chiamata potente a consacrare la propria vita, vuota altrimenti ed egoista e condannata a finale delusione, ad un ideale, ad una realtà che impegni tutte le loro energie e le esalti nel dono magnanimo ed eroico di sé; alla Croce, porta dolorosa e gloriosa della vera risurrezione.

Anche qui il discorso potrebbe prolungarsi. Ma qui lo fermiamo, nella convinzione e nella soddisfazione che l’offerta dei ceri vuol significare tutto questo. E in verità lo significa, con la nostra Apostolica Benedizione.

                                



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