INAUGURAZIONE DELLA X ASSEMBLEA GENERALE DELLA CEI
OMELIA DI PAOLO VI
Lunedì, 11 giugno 1973
Venerati e diletti Confratelli,
Prima di proseguire nella celebrazione del sacro rito la norma stessa che lo regge ci obbliga ad una pausa di riflessione sul fatto che qui ci riunisce, sull’atto che stiamo compiendo, sul confronto della nostra singola vita con le parole evangeliche, testé ascoltate, sulla somma di questioni e di doveri a cui è impegnato il nostro ministero episcopale. Riflessione per ogni verso straripante, ma che ora cerchiamo di contenere nei limiti delle immediate finalità, che hanno dato occasione a questo incontro spirituale.
Due a noi sembrano essere queste finalità. La prima - perché tacerla? - è la vostra intenzione, veramente pia e fraterna, di ricordare il decennio, che si compie in questi giorni, del nostro Pontificato; l’altra è la riunione dell’Assemblea generale dell’Episcopato Italiano, la quale prende inizio appunto da questa straordinaria concelebrazione.
Quanto alla prima finalità, voi lo indovinate, Venerati Fratelli, noi avremmo preferito ch’essa passasse inosservata, o almeno senza alcun segno di particolare interesse da parte vostra. Voi ci obbligate a ripensare non solo davanti al Signore alle responsabilità conturbanti del nostro apostolico ufficio, ma altresì davanti a voi stessi, verso i quali ci sentiamo, per ogni riguardo, debitori ed inferiori ad ogni nostro dovere di esempio, di guida e di servizio, e tanto bisognosi della vostra indulgenza e della vostra collaborazione. Ma dal momento che il silenzio è rotto sopra questa decennale ricorrenza, non taceremo noi stessi la nostra viva e fraterna riconoscenza per il modo sacerdotale con cui avete voluto ricordare con noi la data decennale del nostro ministero apostolico, pregando insieme, anzi effondendo insieme, mediante l’offerta di questo sacrificio eucaristico, la carità che a Cristo ci unisce, e che ci rende fratelli nel solidale impegno pastorale verso il Popolo di Dio. Siate tutti ringraziati per codesta bontà e per codesta pietà, e voglia il Signore stesso, intorno al quale ci stringiamo per celebrare i suoi misteri e per implorare la sua misericordia, rimunerare un atto di tanta cortesia verso l’umile nostra persona, e di tanta fiducia nella incomparabile missione a noi affidata nella sua Chiesa, da sostenere e da edificare, con primaria e universale sollecitudine, nell’unità della fede e dell’amore, ispirante e suffragante lo Spirito Santo.
Quanto poi alla seconda finalità, ottenere una speciale assistenza divina sulla prossima vostra decima Assemblea generale, vi diremo, venerati Fratelli, che noi per primi ci sentiamo interessati al suo conseguimento. Un’assemblea come la vostra: cospicua per il numero dei suoi componenti, per la dignità delle sue persone, per il fervore dei suoi propositi, per la complessità dei suoi problemi, per la sofferenza delle sue difficoltà, ed anche per i vincoli canonici che ad essa ci uniscono, riempie il nostro animo di intensa commozione e di vivissima attenzione. Siate innanzi tutto salutati, ognuno personalmente, e quanti voi siete, collegialmente. Al vostro Presidente e Fratello nostro carissimo, il Signor Cardinale Antonio Poma, che alle gravi cure pastorali della sua Arcidiocesi, la storica e amatissima Bologna, aggiunge, per nostro mandato e vostro consenso, le molteplici e responsabili attività presidenziali della Conferenza Episcopale Italiana, esprimiamo la nostra devota accoglienza e la nostra cordiale e solidale collaborazione. Abbiamo il nuovo Segretario della Conferenza medesima, Monsignor Enrico Bartoletti, parimente da salutare in questo primo incontro comunitario nell’esercizio delle sue funzioni; la sua presenza ci ricorda la riconoscenza e la stima, che noi dobbiamo al suo valente predecessore, Monsignore Andrea Pangrazio; e ci fa pensare alla pronta generosità, con cui Monsignore Bartoletti, lasciando la sede eletta di Lucca, ha assunto, con la saggezza e l’alacrità che tutti conoscono, l’ufficio non semplice, né lieve della Segreteria della vostra Conferenza. Grazie e incoraggiamento anche a lui, ai Confratelli che hanno accettato di far parte delle varie Commissioni della Conferenza e a quanti vi prestano opera, favore e fiducia.
Noi non intendiamo in questo momento entrare nel merito o nel commento dei vostri prossimi lavori. Vi basti in questa sede sapere che noi li abbiamo presenti durante quest’ora di preghiera, nei loro programmi, i quali sembrano a noi bene studiati ed elaborati e promettenti felici risultati; come abbiamo presenti i primi saggi della vostra nuova attività liturgica e catechistica; e, come lo sono a noi, ci compiacciamo di rilevare che sono a voi presenti i temi di comune e continuo interesse, come i Consigli Presbiterali e Pastorali, come le vocazioni sacerdotali, la formazione liturgica dei fedeli, il canto sacro del popolo, le associazioni cattoliche; come l’assistenza al mondo del lavoro, la diffusione della stampa cattolica; come lo studio dei grandi temi programmatici circa i problemi della Famiglia, l’Evangelizzazione e Sacramenti, la Pastorale dell’iniziazione cristiana, eccetera. Tutto dice il vostro zelo e dice l’intelligenza dei bisogni spirituali e morali del nostro tempo. Noi fin d’ora benediciamo i vostri lavori.
Ci piace piuttosto in questo momento cogliere alcuni aspetti spirituali di codesta attività, aspetti che confortano la nostra presente meditazione e danno stimolo alla nostra azione sacrificale.
Il primo aspetto dell’attività della Conferenza Episcopale Italiana siete voi stessi, cari e venerati Confratelli. È la vostra presenza, è la vostra Assemblea. È l’affermazione ordinata e progressiva dell’Episcopato Italiano, come corpo coscientemente, fraternamente unito ed operante, consapevole della sua responsabilità collettiva, disposto a sommare le proprie forze per un lavoro programmato ed organico, e convinto di poter non solo conservare, ma stimolare altresì in ciascun Vescovo la sua personalità ecclesiale, la sua relativa autonomia, il suo spirito d’iniziativa locale, la sua originale derivazione apostolica. È la celebrazione della collegialità, che ci riporta all’ammirazione teologica e all’attuazione pratica della ecclesiologia, che il recente Concilio ha messo in migliore evidenza, senza nulla derogare alla sua costituzione unitaria, quale lo stesso antico Cipriano aveva delineato (Cfr. De Unitate Ecclesiae: PL 4, 515). L’istituzione delle Conferenze Episcopali, dove ancora non esistevano, è grande merito del Concilio ed è grande progresso non soltanto organizzativo e canonico della Chiesa, ma istituzionale e mistico, che deve accrescere la nostra fiducia e la nostra affezione verso la Chiesa e la sua meravigliosa compagine. Non indarno ciascuno di noi potrà soffermarsi in Cuor suo a contemplare con gaudio interiore il fenomeno umano e spirituale di un’Assemblea come la vostra, vera espressione di fraternità, di unità, di carità, dove la presenza di Cristo, immancabile fra coloro che sono congregati nel suo nome (Cfr. Matth. 18, 20), ci dà l’ineffabile conforto della nostra missione e del nostro destino.
Ne abbiamo bisogno, venerati Fratelli, perché mentre la Chiesa dispiega le sue tende nella storia contemporanea, quasi a segno della sua perenne vitalità, anzi della sua capacità ad effondersi in sempre nuova giovinezza, nuove difficoltà assediano la sua esistenza nel mondo contemporaneo. È questo un altro aspetto, che ci sembra scorgere nell’esercizio della vostra attività pastorale. Il buon Pastore, cioè il Vescovo e chi con lui condivide il suo ministero, oggi, non è affatto nella condizione arcadica e serena, che quel suo titolo sembra assicurargli. Tutto oggi è messo in questione; tutto è tensione, tutto è pressione. Ditelo voi: è facile oggi fare il Vescovo? Diciamo il Vescovo, che guida il suo gregge, aprendogli il cammino buono, non quello che riduce il proprio dovere a seguire il suo vagare secondo il vento che tira (Cfr. Eph. 4, 14), il Vescovo vigilante, maestro, educatore, rettore, santificatore; il Vescovo, che si sente, dentro e fuori della Chiesa, stimolato a dare alla sua vita uno stile, una virtù secondo il Vangelo; il Vescovo, che guarda e conosce il mondo nel suo aggressivo processo di secolarizzazione, che spoglia l’uomo non solo delle sue esteriori vestigia di costume cristiano, ma che lo corrode altresì in ogni superstite certezza morale e religiosa, e lo lascia, secondo un’equivoca terminologia di moda, «libero» come un cieco di andare dove vuole. Dov’è più nel figlio del secolo il senso di Dio, il fermo criterio discriminante fra il bene ed il male? ed anche nell’alunno e nel maestro di certe nostre scuole, dov’è la sicurezza di un’ermeneutica garante del contenuto autentico e stabile della rivelazione? dov’è la fiducia istituzionale per il messaggio evangelico nell’autorità dottrinale e direttiva della Chiesa? Custos, quid de nocte?, domanderemo a noi stessi con la parola del Profeta (Is. 21, 11): come vanno le cose? La vostra stessa presenza, venerati Fratelli, provoca la denuncia delle avverse condizioni della mentalità moderna nei riguardi del Vangelo, mentalità penetrata per tante vie anche nella psicologia delle nostre popolazioni; e ci lascia intravedere l’amarezza e la sterilità di tante vostre fatiche pastorali, così che spingendo la diagnosi della vita moderna rispetto alla vocazione cristiana tradizionale nella nostra gente dovremmo registrare risultati negativi, già allo stato attuale e tanto più a quello potenziale, dolorosamente impressionante. Il vento della metamorfosi sociale non sembra spirare in nostro favore. Quante statistiche stringono il cuore! Quanti fenomeni culturali e sociali, che sembrano ostili e irreversibili, ci darebbero la cattiva esperienza della sfiducia senza rimedio, se, da un lato, la nostra fiducia si appoggiasse sulle nostre povere forze umane, e dall’altro non avessimo a nostro conforto, anche umano, una quantità di sintomi positivi, derivanti da quello stesso mondo moderno donde hanno origine le nostre angustie, i quali ci accusano di poca fede, se non ne sappiamo scorgere la presenza, la fecondità e spesso la tacita implorazione dell’insostituibile opera nostra. La fiducia, che in altra occasione, in omaggio alla specifica nostra missione di «confermare i nostri fratelli» (Luc. 22, 32), vi abbiamo raccomandata come coefficiente indispensabile del nostro ministero, l’annunciamo ancora, più che come augurio, come dovere, dovere della fiducia; ma questa volta vi aggiungeremo un complemento, anch’esso indispensabile per l’efficacia dello stesso nostro ministero episcopale, complemento che noi già ammiriamo commossi nella vostra attività di pastori: lo spirito di sacrificio, che compenetra quello di amore e di servizio: «il buon pastore offre la vita sua per il suo gregge» (Cfr. Io. 10, 11).
Non turbetur cor vestrum, neque formidet, ci ha detto il Maestro Gesù nella pagina evangelica testé da noi ascoltata. Procureremo di ricordarla, svolgendo i paragrafi dei nostri programmi; ed ancor più sperimentando la drammatica e perenne dialettica del nostro essere nel mondo, ma non del mondo (Cfr. ibid. 17). L’inizio dell’Anno Santo, ieri dappertutto localmente inaugurato, ci offre appunto questa prospettiva di rinnovamento e di riconciliazione, nella sofferenza e nella speranza, nello sforzo sofferto e nell’ottimismo fin da ora goduto, nell’intelligenza dell’economia della salvezza, fondata sulla fecondità del grano che si dissolve per dare il suo frutto moltiplicato, sulla croce cioè e sulla risurrezione di Cristo; e di noi con Lui.
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