OMELIA DEL SANTO PADRE PAOLO VI
Domenica, 22 settembre 1974
Salute Fratelli!
Ripetiamo il saluto, col quale si i: iniziata questa straordinaria celebrazione: Gratis Domini nostri Iesu Christi et caritas Dei et communicatio sancti Spiritus sit cum omnibus vobis (2 Cor. 13, 13).
Salute a voi, the venuti a Roma per confortare nella fede, nella speranza, nella carità i vostri animi di Pastori della Chiesa di Dio in un Paese grande e moderno, date a noi, e certamente anche a voi stessi un moment0 di stupenda esperienza veramente cattolica, nell’amore evangelico, mediante il. quale, come il nostro Capo e Maestro ci ha insegnato in quell’ultima Cena, di cui noi ora celebriamo la memoria e rinnoviamo la misteriosa realtà, noi autentichiamo la nostra derivazione di discepoli del Signore, come Egli con solenne semplicita proclami,: In hoc cognoscent omnes quia discipuli mei estis, si dilectionem habueritis ad invicem (Io. 13, 34; 15, 12).
E mentre noi cerchiamo ora di realizzare in noi stessi questa parola del Signore non possiamo eludere l’impressione the noi attestiamo in forma concreta e evidente, quasi apologetica, un aspetto della Chiesa, ieri e ancora oggi tanto contestato da molti cristiani, purtroppo da noi separati, e cioè la visibilità della Chiesa, la sua concretezza umana e sociale, il suo corpo composto di persone vive e reali, viventi in questo mondo e nella sua storia fenomenica; e poi un altro aspetto della Chiesa risulta affermato dalla celebrazione di questa santa Messa, come identica e autentica proiezione della Cena del Signore; e cioè l’aspetto istituzionale, organizzato, gerarchico della Chiesa è qui messo in una evidenza, che la difende dalla tendenza di altri fratelli contestatori, contrari al riconoscimento d’una Chiesa giuridica, quasi che fosse possibile immaginare una Chiesa della carità, liberata dalle sue strutture organiche e ministeriali.
Chiesa reale, Chiesa viva, Chiesa nostra e di tutti i suoi aderenti, che cattolici, cioè universalisti sono chiamati, è ora celebrata nel rito consueto, ma sempre nuovo e originale di questa messa, resa, per di più irradiante di più pieno ed eloquente significato dalla vostra presenza, Fratelli miei, dalla nostra magnifica comunione.
Sono cose sublimi e semplici. Ma non sono forse meritevoli d’essere ora e qui ricordate, quasi per inserire il cuore nello studio teologico e spirituale, che voi, pellegrini verso questa Sede apostolica state compiendo.
E non è forse simultaneamente esaltato l’elemento mistico e soprannaturale della Chiesa proprio nel momento in cui noi, umili eredi degli Apostoli, ne affermiamo la sua inequivocabile esistenza fisica, visibile e gerarchica? La Chiesa, lo sappiamo, è il Corpo mistico di Cristo (Col. 1, 24; Eph. 1, 22), che, nella sua infrangibile ed armonica unità, reclama una complessità di funzioni complementari, che, ecco, ci riguarda direttamente, per quell’opus ministerii (Eph. 4, 12), che a noi, Vescovi della Chiesa di Dio, è specificamente assegnato.
Qual è il ministero a noi assegnato? Ben lo sappiamo, è il ministero dell’autorità, della exousia, della potestà, di cui tanto spesso ci parla il Nuovo Testamento, non solo in rapporto a Cristo, ma anche in rapporto agli Apostoli, in ordine cioè alla missione a cui essi sono inviati, e alla opera di istruzione, di santificazione e di guida, a cui sono destinati.
Noi daremo la massima attenzione a questa parola, potestà, che suona capacità di agire e di reclamare l’obbedienza ecclesiale, che vuol dire amorosa, di coloro ai quali questa parola è rivolta, perché esprime un pensiero divino, una concezione precisa circa l’ecclesiologia, che deve riconoscere i due quadri che la compongono: i pastori ed il gregge; i due aspetti costituzionali, che la definiscono: la società gerarchica e la comunità di grazia. E ammireremo in questa realtà, che configura divinamente nell’ordine, nella vitalità, nella bellezza, nell’amore, il volto della Chiesa, e ne benediremo il Signore, con il proposito di riconoscere fedelmente e coraggiosamente le conseguenze, che derivano dal disegno divino della Chiesa.
Sì, fedelmente e coraggiosamente. Perché sappiamo che nel linguaggio umano, e poi nella realtà storica quel nome di exousia, di potestà, si dimostra equivoco, nella sua duplice traduzione possibile, di dominio, e di servizio. E sappiamo che nostro Signore ha dato una soluzione molto chiara al possibile equivoco, per quanto riguarda i discepoli rivestiti d’autorità: qui maior est in vobis, fiat sicut minor; et qui praecessor est sicut ministrator (Luc. 22, 26). Così noi abbiamo ascoltato adesso la sua voce nella lettura del Vangelo. La nostra potestà non è un potere di dominio, è una potestà di servizio; è una diakonia, è una funzione destinata al ministero della comunità. È ben noto lo slogan di S. Agostino, riferito alla potestà ecclesiale: non tam praeesse quam prodesse delectet (PL, 38, 14841; che con S. Benedetto e S. Gregorio diventa una norma ricorrente nel linguaggio ecclesiastico; la riafferma il nostro venerato Predecessore Pio XII, a riguardo di questa Sede Romana (cfr. AAS 1951, p. 641; e cfr. CONGAR, L’Episcopat, Cerf 1962, p. 67 ss. e p. 106 ss.; S. Th. III, 80, 10. ad 5; ecc.).
E davanti all’interpretazione evangelica ed ecclesiale della nostra autorità nella comunità dei fedeli il nostro animo potrebbe rimanere timoroso e paralizzato: come potremo esercitare la nostra funzione se il senso suo proprio sembra capovolto? sarà la Chiesa governata dai fedeli, al cui servizio i Vescovi sono obbligati? No, lo sappiamo: i Vescovi sono posti dallo Spirito Santo per pascere la Chiesa di Dio. Pascere, poimaînein, parola risolutiva, che nella densità del suo significato fonde meravigliosamente il carisma giuridico dell’autorità con il carisma sovrano della carità, e dà al Pastore la sua vera fisionomia evangelica, quella della bontà, provvida e forte, e quella del discepolo di Cristo, posto nell’esercizio della cura animarum, che esige un completo dono di sé, un inesauribile spirito di sacrificio.
Questa è la carità nella sua più alta e piena espressione: la carità della verità (cfr. 2 Thess. 2, 10), mediante il docete omnes gentes (Matth. 28, 19) e la vigilanza sul « deposito » della fede da custodire (1 Tim. 4, 6; 6, 20; 2 Tim. 1, 14); la carità dispensatrice dei misteri di Dio (1 Cor. 4, 12; Eph. 3, 8); la carità che riversa l’amore sommo dovuto a Cristo nella guida saggia e indefessa al suo gregge (cfr. Io. 21, 15 ss.).
Nulla di nuovo per voi, venerati Fratelli, nel richiamo a questi insegnamenti; ma non è mai vano il loro ricordo, specialmente se esso avviene nelle circostanze, come quelle vostre presenti, mentre state ricercando di ravvivare nelle vostre anime la luce dello Spirito Santo, ricevuto al momento dell’ordinazione episcopale (2 Tim. 1, 6), e mentre state mettendo la vostra missione pastorale al confronto con le vostre benedette Chiese locali, e con il mondo immenso e fremente del nostro tempo.
Approfittiamo di questa lieta occasione per estendere altresì il nostro saluto nel Signore alle vostre popolazioni. Mediante le vostre persone, inviamo la nostra Benedizione Apostolica alle vostre chiese locali, e ringraziamo il vostro clero, i religiosi e il laicato per la loro viva comunione ecclesiale con voi e con noi e per la sollecita solidarietà che mostrano verso i fratelli e le sorelle delle altre Chiese locali sparse nel mondo. Come Successore di Pietro e in adempimento del nostro ufficio di servizio, noi vogliamo confermarvi nella fede in Cristo.
Così tutti ci assista e ci benedica Gesù Cristo, il Pastore dei Pastori!
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