CONVEGNO ECCLESIALE «EVANGELIZZAZIONE E PROMOZIONE UMANA»
OMELIA DI PAOLO VI
Domenica, 31 ottobre 1976
Salute a Voi, Fratelli e Figli carissimi, che siete venuti a questo Convegno, e che ne intuite il significato ovvio e profondo, quello d’una chiamata, che ripercuote nella nostra la voce divina, amica, penetrante e imperiosa di Gesù, il Cristo: «Venite con me; vi farò pescatori di uomini» (Matth. 4, 19).
Perché si tratta di questo, voi lo sapete: di evangelizzazione e di promozione umana. La Chiesa vi invita e vi impegna ad un ripensamento della sua missione nel mondo contemporaneo, ad una coscienza religiosa autentica e nuova, ad un confronto col vertiginoso mondo moderno, anzi ad un dialogo di salvezza per chi assume la non facile missione di aprirlo, e per chi abbia la felice sorte di accoglierlo.
Ora in questo primo momento del nostro convegno, momento religioso, momento liturgico, noi tutti avvertiamo il bisogno, il dovere d’una introspezione, d’un colloquio di ciascuno con la propria coscienza, primo, per valutare l’esistenza e l’importanza della scelta ch’è stata fatta di noi invitandoci a così singolare assemblea, e poi per rispondere ciascuno per sé alla domanda interiore: qual è il senso di questa mia presenza, qui, su la tomba di San Pietro, qui nel cuore operativo e mistico della Chiesa, qui per misurare la mia personale disponibilità ai due temi formidabili che in questi giorni mi saranno proposti nelle cento facce della loro possibile presentazione: evangelizzazione e promozione umana? si tratta d’una semplice assistenza ad un torneo accademico, ad un’ascoltazione passiva, informativa, istruttiva, sì, ma non impegnativa? Ovvero questo convegno, questa individuale presenza di ciascuno di noi, presuppone una preventiva adesione alla idea-madre, che qua ci ha chiamati: l’evangelizzazione? Noi, qui radunati siamo, per grazia di Dio, già credenti, e non ci soffermiamo questa volta a discutere circa la nostra fede cattolica, ma la professiamo, e ne consideriamo una sua essenziale esigenza, quella di annunciarla, all’interno del perimetro delle nostre rispettive comunità locali, e poi all’esterno alla più larga cerchia della società profana che ci avvolge e tanto ci stimola e ci turba con la sua vertiginosa e complessa evoluzione, e che sembra mostrarsi refrattaria al nostro abituale tentativo d’interessarla al nostro tema religioso, indebitamente giudicato superfluo, estraneo, ostile, superato per la vita moderna, mentre, al tempo stesso, conserva, forse inconsciamente e spesso angosciosamente, una gemente avidità dell’ineffabile o vitale Verità che noi tutti abbiamo il responsabile privilegio di possedere (Cfr. Rom. 8, 19-22).
Perché, Fratelli e Figli nostri, questa è la nostra sorte stupenda e drammatica, quella d’essere coinvolti in un mirabile disegno divino, che ci vuole non solo favoriti e partecipi del regno di Dio, ma testimoni e diffusori altresì; il Vangelo non è un annuncio che si spegne stagnante in chi lo riceve, ma una voce che rimbalza e si fa eco, voce a sua volta, grido! Gesù ce lo insegnò: «quello che Io vi dico nelle tenebre, voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio, voi predicatelo sopra i tetti» (Matth. 10, 27). Non è un episodio; è un programma, che invade la terra e si fa storia. Cristo riassume e conclude così la sua predicazione agli apostoli: «Andate e istruite tutte le genti» (Ibid. 28, 19). La fede vivente è una fede irradiante. La Chiesa credente è Madre e Maestra, e con la dottrina del Concilio ci conferma e ci ammonisce che quanti siamo suoi figli dobbiamo essere fieri del nome cristiano, e testimoni di quanto questo nome significa e ci insegna (Cfr. Lumen Gentium, 33). La perenne attualità del Vangelo si afferma oggi così!
È questo dunque il momento, è questa la sede in cui ciascuno di noi, secondo la forma e la misura delle proprie condizioni, deve lasciarsi penetrare dalla coscienza di questo dovere, che ci investe in profondità, e che San Paolo, al livello ch’è suo fa discendere a quello, anche umilissimo, di ciascuno di noi: «è un dovere – egli scrive - per me! Guai a me se non predicassi il Vangelo» (1 Cor. 9, 16).
Ed è questo, Fratelli e Figli carissimi, un segno maiuscolo del tempo nostro. Il risveglio della vocazione apostolica, missionaria e operativa in seno alla Chiesa, in certe situazioni, quasi repressa, ovvero assopita nel suo sforzo evangelizzatore, secolare e costante, l’ansia cioè dell’apostolato non solo ministeriale e gerarchico, ma altresì comune, e pur sacro e benedetto di tutto il Popolo di Dio (Cfr. 1 Petr. 2, 5; Lumen Gentium, 10), caratterizza questo nostro secolo inebriato per le sue conquiste, ma folle e stanco e miope nel suo rischioso cammino. «È venuta l’ora ed è questa» ci ripete il Signore (Io. 4, 23), in cui la rivelazione evangelica del rapporto religioso col Padre nostro che sta nei cieli, lungi dall’affievolirsi e dallo spegnersi per il progresso positivo, o per la decadenza negativa dell’umanità, può riaprirsi con luce mattutina e sfolgorare nello splendore di nuove virtù spirituali ed umane, per la gloria di Dio, ed anche, con inattesa novità, per la promozione dell’uomo.
E prima che questa semplice esortazione si concluda e la celebrazione del santo sacrificio della Messa riprenda il suo sempre misterioso svolgimento e che poi le vostre relazioni e discussioni abbiano a cominciare, lasciate che vi sia raccomandata dall’altare una disposizione d’animo, una virtù anzi, propria del cristiano, propria di chi si sa e si sente membro della Chiesa, che di lei vive e per lei prega, opera e soffre. La fiducia! La fiducia nel piano dell’amorosa economia divina, in cui la nostra esistenza cristiana è inserita e la nostra azione si svolge. La nostra fiducia si fonda su la fede: «Non si turbi il vostro cuore - ci ammonisce il Signore Gesù -; abbiate fede in Dio; ed anche di me fidatevi» (Ibid. 14, 1). È una forza d’animo e comporta una magnanimità di spirito, ci ricorda Maestro Tommaso (S. THOMAE Summa Theologiae, II-IIæ, 129, 6). Per evangelizzare occorre essere coraggiosi; non avere paura di nulla e di nessuno (Cfr. Matth. 10, 28). Il che non vuol dire essere spregiudicati e temerari, come oggi è pur troppo costume per alcuni, ma umili e forti, audaci e leali con tutti. E ricordare che anche le sventure e le difficoltà possono giovare alla causa del Vangelo, alla nostra e a quella di coloro per cui vogliamo promuovere il bene. «Noi sappiamo - dice una ben nota parola di San Paolo - che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno» (Rom. 8, 28). E poi noi dobbiamo rifornire la nostra fiducia nella comunione dei Santi, nella protezione della Madonna specialmente. Così il genio inventivo e operativo della promozione umana, che scaturisce dal Vangelo e da questa assistenza celeste, trovi nella fiducia cristiana, non altrove, quella «vehemens opinio» (S. THOMAE Summa Theologiae, II-IIæ, 129, 6), quella energica convinzione che lo rende efficace. Cosi sia, Fratelli e Figli, così sia.
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