LETTERA DI PAOLO VI
AL CARDINALE GIOVANNI COLOMBO,
ARCIVESCOVO DI MILANO,
NEL XVI CENTENARIO DELL'ORDINAZIONE EPISCOPALE
DI SANT'AMBROGIO
Al Signor Cardinale Giovanni Colombo
Arcivescovo di Milano
Gratissima a noi è giunta la notizia, che Ella, Signor Cardinale, ci ha cortesemente comunicata, essere sua intenzione, assecondata dalle istituzioni culturali milanesi, dal Clero e dal Popolo, di voler ricordare e celebrare il XVI centenario dell’ordinazione episcopale avvenuta il 7 dicembre 374, di Sant’Ambrogio, il celebre Vescovo milanese e Dottore della Chiesa universale. Godiamo moltissimo di tale proposito, quasi fosse da noi pure concepito, sempre assorti come siamo dal commovente ricordo d’aver noi avuto, dal 1955 al 1963, l’esaltante e opprimente ventura di sedere, centoventinovesimo e minimo successore, sulla medesima cattedra episcopale di quel grande Pastore. Avremmo voluto maggiormente onorare, sia con l’umile ossequio della nostra parola, sia con la filiale imitazione del nostro esempio, quell’incomparabile Predecessore; esulta perciò l’animo nostro nell’attesa della degna commemorazione, che, auspice ed autore Lei, Signor Cardinale, Milano dilettissima si appresta a tributare al suo Santo Patrono; e già fin d’ora noi esprimiamo il voto che la rievocazione di quella elettissima figura sia pari al merito che a tanto uomo deve la storia, deve la Chiesa e deve l’assillo della nostra spiritualità contemporanea. Egli non appartiene solo al passato, appartiene al presente; egli è ben degno di essere tuttora con noi, con la sua Milano specialmente, come incomparabile educatore e maestro, e come tipo esemplare e permanente della sua Chiesa, e perciò chiamata ambrosiana, e gloria caratteristica del Popolo, che del suo nome, della sua scuola, della sua fama porta ancor oggi l’impronta.
A chi si limitasse a fissare lo sguardo sull’immagine sua, quale ci è rappresentata nel mosaico, presumibilmente fedele, della Cappella di San Vittore in Ciel d’Oro, contigua alla basilica dedicata appunto a Sant’Ambrogio in Milano, potrebbe sfuggire la dimensione morale del grande Vescovo, stentando forse a riconoscere l’Uomo e il Santo ch’Egli è; infatti il personaggio vi appare smunto e modesto, senza alcuna vigoria fisica e senza alcuna apparente maestà; uomo, si direbbe, timido e debole, impari a funzioni di magistero e di governo; a vederlo così raffigurato, sembra facile credergli quando egli, il predicatore instancabile, accusa la sua voce fiacca e malsicura. Ma poi, solo a conoscerla un po’, la sua figura s’innalza nobile e forte, e si aderge poderosa, campione della sua stirpe, di sangue e di genio veramente romana; figura che cammina tranquilla, quale quella d’un capo, nella storia d’un’età difforme ed inquieta, e che si commisura impavida e saggia nel confronto con i potenti del suo tempo; figura circonfusa dalla fama di vasto sapere, in cui si fondono i tesori del pensiero antico e dell’arte classica con quelli, per lui attuali, per noi perenni, dei Dottori cristiani erompenti nella cultura del quarto secolo; figura subito esaltata dalla raffinata e soave eloquenza e dall’insonne attività, che finalmente rivela in lui il prestigio dell’alta scuola del magistrato civile, e subito manifesta, quasi ad essa connaturato e, quasi ne fosse per virtù nativa versatile interprete, il più semplice, il più grave, il più sacro stile pastorale. Così S. Ambrogio sta dinanzi al suo secolo, e sta ancora dinanzi a noi, diritto nella sua vera statura, quella del Vescovo. Per chi sa, è detto molto, è detto assai.
Ma resta ancora ben altro da dire su S. Ambrogio. Su la sua persona che, secondo la testimonianza del suo più grande discepolo, S. Agostino, pare diffondesse d’intorno a sé un fascino particolare, quello di farsi ascoltare, quello di farsi amare. Fu il suo carisma. E la sua finissima sensibilità umana, espressa negli affetti fraterni più intensi e più dolci nella compassione verso il dolore, nell’emozione verso il mistero della morte, e poi nel culto ch’egli ebbe per il canto e per la poesia, per il dialogo popolare e per l’eloquenza dal profondo respiro, per l'ammirazione descrittiva ed incantevole della natura, ha lasciato nella vita e negli scritti di lui echi tuttora squillanti. E che cosa dire dell’opera sua che, nella veste del maestro, ci lascia vedere l’esegeta, il moralista, il teologo, il mistico, sempre intento a cogliere nell’analisi del testo biblico un senso allegorico e trascendente, che dalla visione onnipresente di Cristo sembra attingere la sua luce e la sua beatitudine.
Troppo, sì, ancora rimarrebbe da dire, anche solo per indicare le linee schematiche di questa grande e complessa figura. Ma l’imminente e sinfonica commemorazione, a noi annunciata, dell’anno ambrosiano, saprà certamente, come ne dà promessa il programma, tutto degnamente rievocare su S. Ambrogio; e noi auguriamo che non solo la Chiesa locale milanese ne abbia edificazione e conforto, ma tutta la Chiesa cattolica, quasi in spirituale preparazione alla auspicata reviviscenza religiosa dell’Anno Santo, successivo a quello Ambrosiano, ne possa trarre stimolo e godimento; anzi noi facciamo voti che anche il mondo a noi circostante, profano, così detto, ma per tanti titoli accessibile ai carismi dello Spirito, felicemente si apra alle sempre vive lezioni di quel tanto maestro.
Ci sia consentito concludere questi nostri auspici ricordando la ricorrente menzione che S. Ambrogio propone della Chiesa nella sua mistica e concreta realtà; e ripetendo le notissime, ma densissime sue parole, sintesi e conferma della sua comunione con questa nostra sede apostolica: Ubi Petrus, ibi Ecclesia; ubi Ecclesia nulla mors, sed vita aeterna (Enar. in Ps. 40: PL 14, 1134).
E con questo illuminante accenno si abbia, caro e venerato Signor Cardinale, per la sua persona, per il suo ministero, e per tutta la gloriosa e fedele Chiesa Ambrosiana, la nostra Apostolica Benedizione.
Dal Vaticano, 3 dicembre 1973
PAULUS PP. VI
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