DISCORSO DI PAOLO VI
AI BRESCIANI RESIDENTI A ROMA
Sabato, 15 febbraio 1964
Il Santo Padre è lieto di ricevere i carissimi bresciani di Roma, di accogliere ben volentieri le espressioni così alte e così appropriate del Presidente del loro Sodalizio, e di intrattenersi qualche minuto in affabile conversazione con quanti sono Suoi concittadini di origine, concittadini a Roma, e figli e fratelli nella comune confessione cristiana.
L’incontro, come al solito, suscita i ricordi anche dell’Opera, con la quale peraltro negli anni che il Santo Padre è vissuto a Roma non ha avuto grande relazione, perché, quando cominciava ad avere degli incontri con l’attuale presidente in carica e, prima ancora, con il predecessore, la Provvidenza, nel 1954, lo inviò lontano dalla Città eterna. Però, la consuetudine con tanti bresciani, che è stata, con alcuni, di grande amicizia e quasi familiare, ha accompagnato tutto il suo lungo soggiorno di vita romana e lo ha sempre confortato con esempi edificanti, benedetti, come Egli invoca nella preghiera, dal Signore.
Ci si domanda - aggiunge Sua Santità - se sia bene che in una metropoli esistano gruppi, che non si lasciano diluire nella popolazione, ma che si conservano omogenei, compatti: e se una città capitale, come Roma, debba presentare una unità profonda e completa, ovvero un agglomerato, quasi un mosaico di genti diverse.
La questione interessa i sociologi ed anche coloro che si occupano di assistenza culturale e spirituale; ma sembra al Santo Padre che ambedue le cose siano possibili e buone. Chi vive a Roma deve essere romano e tendere ad assimilarsi alla popolazione, ai costumi, all’indole, al genio della città nella quale dimora. Non si deve rimanere forestieri, ma dare adesione cordiale e completa. Nello stesso tempo, però, è bene conservare i caratteri propri, di origine e di costume e, se si vuole, anche di usi e di linguaggio, che hanno distinto la originaria formazione e la propria spiritualità. I due complessi di elementi possono armonizzarsi.
E allora sorgono due interrogativi. Che cosa Roma può dare a dei forestieri che diventano suoi cittadini, come già i presenti sono o stanno per esserlo; che cosa essi assorbiranno di Roma per essere autenticamente Romani?
La domanda non è del tutto oziosa, perché nella storia di Roma, anche recente, si parla sempre di due aspetti: il primo concerne la grandezza dell’Urbe, la sua maestà, l’alto grado di pensiero, cultura, arte, i suoi gloriosi annali della fede; un secondo aspetto, come in ogni città, è meno lodevole, impari al concetto, all’altezza, al programma insito nel nome stesso di Roma.
Pertanto, quando un ospite dell’Urbe dice a se stesso: «divento Romano», deve scegliere le autentiche grandezze di Roma, cioè quelle che, sia dal lato umano sia da quello civile, incantano il nostro spirito: e cioè la sua storia, la sua capacità di dare ordine alle vicende del tempo, la connaturata vocazione al diritto, e precipuamente la sua eletta tradizione religiosa e cattolica. Questa deve essere cara, carissima anzi, per chi affluisce nella Città eterna con giusta valutazione dei suoi valori più cospicui ed insigni, sì da sostenerli e difenderli, da riconoscerli e farli propri, manifestarli e diffonderli. In altri termini bisogna essere cittadini perfetti e cattolici esemplari; mettere in evidenza le virtù di questa città, comprendere i disegni che la Provvidenza ha impresso nella sua storia e nella sua missione; ed assecondarli come alunni, dapprima, per poi esserne veri militanti.
In secondo luogo, si presenta la domanda: che cosa dare a Roma di quello che si possiede? Ecco, allora, che i diletti bresciani possono chiedersi: abbiamo noi qualcosa di caratteristico da offrire? o siamo così poveri da non aver alcunché da arricchire il patrimonio stesso della metropoli, del centro della Cristianità? E potranno ancora aggiungere: abbiamo fatto il bilancio delle virtù bresciane, dei doni che abbiamo ricevuto dalla nostra educazione provinciale e paesana e della quale dobbiamo pure gloriarci perché molto ci è stato donato? Infatti, pur divenuti romani, ci vantiamo sempre di essere stati e di essere tuttora bresciani; non abbiamo rossore di appartenere ad un ceppo storico e spirituale di evidente bellezza ed integrità, tanto civile e cristiano.
Tutti, infatti, abbiamo qualcosa da offrire a Roma; e ognuno dei presenti potrà dire che c’è qualcosa di così bello e genuino nella propria terra che merita di essere inserito nell’intreccio di meraviglie che fanno grande ed ammirata Roma, sintesi, oltre che fonte, delle virtù umane e cristiane.
A chi fa questo ragionamento, il Santo Padre suggerirà di considerare soprattutto una delle virtù bresciane, che a Lui sembra quella, a cui i Suoi concittadini tengono maggiormente, tanto che ha ispirato perfino il nome dialettale dato al ragazzo: «s-ciet», che vuol dire schietto.
Ecco dunque la virtù della schiettezza, la sincerità, che è unione interiore tra il pensiero e la parola, e capacità di congiungere l’uno e l’altra in espressioni sincere, e di comunicarle agli altri con piena veracità, con amabilità e franchezza, sì da rendere immediatamente i rapporti agevoli e felici.
E allora il Papa augura ai Suoi concittadini d’essere capaci di diffondere ovunque e largamente questa dote della schiettezza bresciana; ed a Roma che sappia apprezzare gli ospiti anche sotto questo aspetto, incoraggiandoli ad essere simultaneamente bravi romani e bravi bresciani.
Il Santo Padre chiede al Signore di fortificare tali propositi, di inserirli nel cuore delle nuove generazioni, dei giovani, le cui famiglie siano, domani, tanto esemplari da diffondere la pace, la giustizia, la concordia: i beni di cui il mondo necessita.
E perché questo avvenga, il Papa imparte agli ascoltatori ed invia a tutti i bresciani, propiziatrice delle grazie e delle assistenze divine, la Benedizione Apostolica.
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