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[ IT  - LA ]

ENCICLICA
RESPICIENTES EA
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO IX

 

A tutti i Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi ed altri Ordinari aventi grazia e comunione con la Sede Apostolica.
Il Papa Pio IX. Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione. 

Considerando tutto ciò che il Governo Subalpino fa già da parecchi anni, con continue macchinazioni, per abbattere il Principato civile concesso per singolare provvidenza di Dio a questa Apostolica Sede, affinché i successori del beato Pietro avessero la piena libertà e la sicurezza necessarie nell’esercizio della loro giurisdizione spirituale, Ci è impossibile, Venerabili Fratelli, non sentirci il cuore commosso da profondo dolore per così grande cospirazione contro la Chiesa di Dio e contro questa Santa Sede, in questo luttuoso momento, nel quale lo stesso Governo, seguendo i consigli delle sette di perdizione, compì contro ogni legge, con la violenza e con le armi, quella sacrilega invasione, che già da gran tempo meditava, dell’alma Nostra città e delle altre città di cui ancora Ci rimaneva il dominio dopo la precedente usurpazione. Mentre Noi, umilmente prostrati davanti a Dio, ne veneriamo gli arcani disegni, siamo costretti a prorompere in quelle parole del profeta: “Io sto piangendo e l’occhio mio sta spargendo lacrime, perché lungi da me andò il consolatore che ristora l’anima mia; i figli miei divennero smarriti, perché prevalse il nemico” (Lam 1,16).

Per certo, Venerabili Fratelli, fu da Noi esposta sufficientemente, e già da gran tempo manifestata al mondo cattolico, la storia di questa nefanda guerra, e ciò facemmo con parecchie Nostre Allocuzioni, Encicliche e Brevi, fatti o dati in diverso tempo, cioè nei giorni 1 novembre 1850, 22 gennaio e 26 luglio 1855, 18 e 28 giugno e 26 settembre 1859, 19 gennaio 1860, e con la Lettera Apostolica del 26 marzo 1860, poi con le Allocuzioni del 28 settembre 1860, 18 marzo e 30 settembre 1861, e 20 settembre, 17 ottobre e 14 novembre 1867. Dalla serie di questi documenti si chiariscono e si comprendono le gravissime ingiurie recate all’autorità Nostra suprema e di questa Santa Sede dal Governo Subalpino già prima della stessa occupazione del dominio ecclesiastico, incominciata negli anni passati; ingiurie recate sia con le leggi sancite contro ogni diritto naturale, divino ed ecclesiastico, sia con l’aver sottoposto ad indegna vessazione i sacri ministri, le famiglie religiose e gli stessi Vescovi, sia col rompere l’accordo stipulato con solenni patti stretti con questa Apostolica Sede, e negandone ostinatamente l’inviolabile diritto, in quello stesso tempo in cui manifestava di voler aprire con Noi nuovi negoziati. Dagli stessi documenti appare pienamente, Venerabili Fratelli – e tutta la posterità vedrà –, con quali arti e con quanto astute ed indegne macchinazioni il medesimo Governo arrivò ad opprimere la giustizia e la santità dei diritti di questa Sede Apostolica; ed insieme si conoscerà quali cure avessimo per rintuzzare, per quanto potevamo, la sua audacia crescente ogni giorno di più, e per difendere la causa della Chiesa. Ben conoscete che nell’anno 1859 dalla stessa potestà subalpina le città principali dell’Emilia vennero eccitate alla ribellione con segreti scritti, cospirazioni, armi e danaro; e poco dopo, intimati i comizi del popolo e comprati i suffragi, si fece un plebiscito, e con quella simulazione e sotto tale pretesto si strapparono, invano ripugnandone i buoni, dal Nostro paterno impero le Nostre province poste in quella regione. È pure noto che l’anno seguente lo stesso Governo, al fine di impadronirsi di altre province di questa Santa Sede poste nel Piceno, nell’Umbria e nel Patrimonio, addotti fallaci pretesti, con improvviso impeto circondò con grandi truppe i Nostri soldati ed una schiera volontaria di gioventù cattolica che, mossa da spirito di religione e da pietà verso il comune Padre, era accorsa da tutto il mondo a Nostra difesa; e, mentre nulla sospettavano di così improvvisa irruzione, li oppresse in sanguinosa battaglia, da essi però impavidamente combattuta per la Religione.

Nessuno ignora la grande impudenza e l’ipocrisia dello stesso Governo, con cui, a diminuire l’onta di questa sacrilega usurpazione, non esitò a proclamare che aveva invaso quelle province per restaurarvi i principi dell’ordine morale, mentre invece di fatto favorì dappertutto la diffusione ed il culto di ogni falsa dottrina, ovunque allentò le briglie alle passioni ed all’empietà, punendo altresì immeritatamente quei sacri prelati, personaggi ecclesiastici di qualunque grado, che cacciò in carcere e lasciò vessare con pubbliche contumelie, mentre frattanto consentiva l’impunità ai persecutori ed a coloro che non risparmiavano neppure la dignità del supremo Pontificato nella persona dell’umiltà Nostra. È noto inoltre che Noi, adempiendo al Nostro dovere, non solo Ci opponemmo sempre ai replicati consigli e alle domande fatteci, con cui si voleva che Noi, vergognosamente, tradissimo l’ufficio Nostro abbandonando e consegnando i diritti e i domini della Chiesa, o stipulando con gli usurpatori una nefanda conciliazione, ma, di più, Noi, a questi iniqui ardimenti e misfatti perpetrati contro ogni diritto umano e divino, opponemmo solenni proteste davanti a Dio e agli uomini, e dichiarammo incorsi nelle censure ecclesiastiche i loro autori e fautori, e, quando fu necessario, li fulminammo con le stesse censure.

Infine è certo che il predetto Governo nondimeno persistette nella sua contumacia e nelle sue macchinazioni, e fece in modo di promuovere, senza darsi mai tregua, la ribellione nelle restanti Nostre province, e specialmente in Roma, mandandovi perturbatori con arti d’ogni genere. Ma, poiché tutti questi tentativi non riuscivano mai al loro scopo per l’inconcussa fedeltà dei Nostri soldati, e per l’amore e la riverenza solennemente e costantemente dimostratici dai Nostri popoli, scoppiò infine nell’anno 1867 contro di Noi quel furioso turbine, allorché nell’autunno furono rovesciate sui Nostri confini e su questa città schiere d’uomini scelleratissimi, infiammate da empietà e furore e aiutate coi sussidi dello stesso Governo; parecchi di tali uomini già prima si erano occultati in questa città, sicché Noi e i Nostri dilettissimi sudditi dovevamo temere dalla loro violenza, dalla loro crudeltà e dalle loro armi ogni più duro e sanguinoso misfatto, come chiaramente era manifesto, se Dio misericordioso non avesse reso vani i loro attacchi sia col valore delle Nostre truppe, sia col valido aiuto di soldati mandatici dall’inclita nazione francese.

Ma in tanti combattimenti, in tanta serie di pericoli, di sollecitudini e di amarezze, la divina Provvidenza Ci recava una grandissima consolazione con la segnalata vostra pietà e riverenza, che voi, Venerabili Fratelli, e i vostri fedeli costantemente manifestaste verso Noi e questa Apostolica Sede con insigni e pubbliche dimostrazioni e con opere di carità cattolica. E quantunque i gravissimi pericoli nei quali Ci trovavamo Ci lasciassero appena qualche po’ di tregua, mai, per il divino conforto, trascurammo alcuna cura che riguardasse il mantenimento della prosperità temporale dei Nostri sudditi; e quante fossero presso di Noi le ragioni di tranquillità e di pubblica sicurezza, quale la condizione d’ogni più importante scienza ed arte, quale la fedeltà e l’affetto dei Nostri popoli verso di Noi, fu noto facilmente a tutte le nazioni, dalle quali in ogni tempo vennero a frotte in questa città moltissimi forestieri, specialmente in occasione di parecchie commemorazioni e solennità che abbiamo celebrato.

Orbene, stando così le cose e godendo i Nostri popoli di una pace tranquilla, il Re subalpino e il suo Governo, approfittando della grandissima guerra accesa fra due potentissime nazioni d’Europa, con una delle quali avevano fatto patto di conservare inviolato il presente Stato del dominio ecclesiastico e di non permettere che tale patto si violasse dai faziosi, repentinamente deliberarono d’invadere il resto delle terre del Nostro dominio e questa stessa Nostra Sede e di ridurla in loro potere. Ma perché questa ostile invasione, quali motivi se ne adducevano? Certamente sono notissime a tutti quelle cose che si dicono nella lettera del Re, mandataci in data dell’8 settembre scorso e consegnataci dal suo inviato, nella quale con lungo e ingannevole giro di parole e di frasi, ostentando i nomi di figlio amoroso e di uomo cattolico, con falso pretesto di salvare l’ordine pubblico, lo stesso Pontificato e la persona Nostra, domandava che Noi non volessimo considerare come un ostile misfatto la distruzione del Nostro potere temporale, e che inoltre cedessimo la Nostra stessa potestà, confidando nelle futili promesse da lui medesimo fatte, con le quali si concilierebbero i voti, come egli diceva, dei popoli d’Italia col supremo diritto e con la libertà spirituale del Romano Pontefice.

Noi certamente non potemmo fare a meno di meravigliarci assai vedendo con quale pretesto si voleva coprire e dissimulare la violenza che si stava per muovere contro di Noi, né potemmo non dolerci nel più profondo dell’animo della sorte dello stesso Re, che, spinto da iniqui consigli, arreca sempre nuove ferite alla Chiesa, e tenendo più conto degli uomini che di Dio, non pensa esservi in cielo il Re dei Re, ed il Dominatore dei Dominanti, il quale non “risparmierà chicchessia, e non avrà riguardo alla grandezza di alcuno, perché Egli fece il piccolo e il grande, ed ai maggiori maggior supplizio sovrasta” (Sap 6,8-9).

In quanto a ciò, poi, che riguarda le domande che Ci sono state poste, non credemmo di dovere esitare neppure un istante a seguire – obbedendo alle leggi del dovere e della coscienza – gli esempi dei Nostri Predecessori, e specialmente di Pio VII di felice memoria, i sentimenti del cui animo invitto, da lui espressi in situazione del tutto simile alla Nostra e a Noi comuni, qui Ci giova prendere a prestito e manifestare: “Ricordavamo con sant’Ambrogio [De Basilica tradenda, n. 17] la storia di quel sant’uomo di Naboth, che possedeva una vigna, al quale il re aveva chiesto di cedergliela affinché – tagliate le viti – vi potesse seminare il vile cavolo; ed egli rispose: “Lungi da me che io ceda l’eredità dei miei padri””. Noi ritenemmo che non Ci fosse assolutamente lecito abbandonare un’eredità tanto sacra e tanto antica (ossia il temporale dominio di questa Santa Sede, posseduto non senza un evidente disegno della Divina Provvidenza in così lunga serie di secoli dai Nostri Predecessori) né accettare col silenzio che qualcuno s’impadronisse della principale città del mondo cattolico per poi (una volta sovvertita e distrutta la santissima forma di governo che Gesù Cristo affidò alla sua Chiesa, e che fu strutturata sui sacri canoni emanati dallo Spirito di Dio) introdurvi un codice contrario e ripugnante non solo ai sacri canoni ma agli stessi precetti evangelici; insomma, trasferirvi, come è d’abitudine, un nuovo ordine delle cose che tende palesemente ad uniformare e a confondere la Chiesa Cattolica con tutte le altre sette e superstizioni.

Naboth difese le sue vigne col proprio sangue [De Basilica tradenda, n. 17]. Potevamo dunque Noi, qualunque cosa stesse per capitarci, tralasciare di difendere i diritti ed i possessi di Santa Romana Chiesa, a conservare i quali, per quanto sta in Noi, siamo obbligati dalla solennità di un giuramento? Ovvero, potevamo non rivendicare la libertà della Sede Apostolica, strettamente legata alla libertà ed alla utilità della Chiesa universale?

E quanto grande sia l’opportunità di questo dominio temporale e quanto esso sia necessario per garantire al Capo supremo della Chiesa il libero e sicuro esercizio dell’attività spirituale, la cui responsabilità gli fu affidata dal cielo per tutto il mondo, anche se altre ragioni mancassero, lo dimostra fin troppo chiaramente ciò che sta accadendo adesso” [Litt. Apost. 10 Iun. 1809].

Aderendo dunque a questi sentimenti, che in molte Nostre Allocuzioni abbiamo già espressi, nella Nostra risposta data al Re riprovammo le ingiuste sue domande, in modo tuttavia da mostrare l’acerbo Nostro dolore congiunto alla paterna carità, che non sa allontanare dalla sua sollecitudine neppure gli stessi figli che imitano il ribelle Assalonne. Non era ancora recata questa lettera al Re, che già furono occupate dal suo esercito le città finora lasciate intatte e tranquille di questo Nostro dominio pontificio, con facile vittoria sui soldati di guarnigione, dove questi tentavano di resistere. Poco dopo spuntò quell’infausto giorno 20 dello scorso settembre in cui vedemmo assediata da molte migliaia d’armati questa città, sede del Principe degli Apostoli, centro della Religione Cattolica e rifugio di tutte le genti. È stata fatta una breccia alle mura. Abbiamo dovuto compiangere la città spaventata dal terrore delle bombe ed espugnata con la forza e con le armi, per ordine di colui che poco prima così altamente aveva dichiarato di nutrire un filiale affetto verso di Noi e un animo fedele verso la Religione.

Che cosa di più doloroso in quel giorno poté riuscire a Noi e a tutti i buoni? Giorno in cui, essendo entrati i soldati in Roma ripiena d’una gran moltitudine di faziosi stranieri, vedemmo subito turbato e rovesciato l’ordine pubblico, vedemmo nella Nostra umile persona, con empie voci, insultata la dignità e santità dello stesso supremo Pontificato; vedemmo le fedelissime schiere dei Nostri soldati ingiuriate con ogni sorta di contumelie, vedemmo dominare dappertutto la sfrenata licenza e la petulanza dove poco prima risplendeva l’affetto dei figli desiderosi di confortare l’afflizione del Padre comune. Da quel giorno in poi avvennero sotto gli occhi Nostri tali cose che non si possono ricordare senza una ben giusta indignazione di tutti i buoni; cominciarono ad offrisi a poco prezzo ed a spargersi libri nefandi ripieni di menzogna, di turpitudine e d’empietà; a pubblicarsi molti giornali per corrompere le menti e gli onesti costumi, per disprezzare e calunniare la Religione, per eccitare contro di Noi e questa Sede Apostolica l’opinione pubblica; a spacciarsi sconce ed indegne immagini ed altre simili caricature, con le quali vengono esposte alla pubblica irrisione e vien fatto ludibrio d’ogni cosa e persona sacra.

Furono decretati onori e monumenti a coloro che in virtù delle leggi e dei magistrati avevano subìto gravissime pene per i loro delitti; i ministri della Chiesa, contro i quali si aizza ogni invidia, furono fatti segni d’ingiurie e alcuni proditoriamente feriti; alcune case religiose assoggettate ad ingiuste perquisizioni; fu violata la Nostra casa del Quirinale, e da questa, dove aveva sede, uno dei Cardinali della Santa Chiesa, obbligato ad uscirne prontamente e repentinamente con violento comando, ed altri ecclesiastici e familiari Nostri furono licenziati e molestati; furono pubblicati leggi e decreti che manifestamente offendono e conculcano la libertà, l’immunità e i diritti di proprietà della Chiesa di Dio: mali gravissimi che vediamo con dolore ancora progredire, se Dio non vi frappone pietosamente rimedio. Frattanto Noi, impediti dal ripararvi in qualsiasi modo per la condizione in cui Ci troviamo, ogni giorno sempre più restiamo avvertiti di quella prigionia che Ci colpì, e della mancanza di quella piena libertà che, con mendaci parole, si dice al mondo di averci lasciato nell’esercizio del Nostro ministero apostolico, e l’intruso Governo si vanta di voler confermare, com’esso dichiara, con le necessarie garanzie.

Né qui possiamo tralasciare l’enorme misfatto che voi certamente conoscete, Venerabili Fratelli. Infatti, quasi che potessero rimettere in discussione e in dubbio i possedimenti e i diritti della Sede Apostolica, per tanti titoli sacri ed inviolabili, e quasi che le gravissime censure nelle quali (ipso facto e senza alcuna nuova dichiarazione) incorrono i violatori dei predetti diritti e possedimenti, potessero perdere la loro efficacia per la ribellione e l’audacia del popolo, per giustificare la sacrilega spoliazione che abbiamo patito, in dispregio del comune diritto di natura e delle genti, si cercò quel dispositivo e quella beffarda forma di plebiscito già altre volte usata nelle province a Noi sottratte. Coloro che sogliono esultare per le cose pessime, in quest’occasione non arrossirono di portare per le città d’Italia, quasi con pompa trionfale, la ribellione ed il disprezzo delle censure ecclesiastiche, contro i fraterni sensi della grande maggioranza degli italiani, alla cui Religione, devozione e fede verso Noi e la Santa Chiesa s’impedisce di manifestarsi liberamente, comprimendole in mille modi.

Frattanto Noi, che da Dio fummo preposti a reggere e a governare tutta la Casa d’Israele e fummo stabiliti vindici supremi della Religione e della giustizia e difensori dei diritti della Chiesa, al fine di non essere rimproverati di aver taciuto davanti a Dio ed alla Chiesa, e col silenzio Nostro aver prestato l’assenso a sì iniqua perturbazione di cose, rinnovando e confermando quello che nelle succitate Allocuzioni, Encicliche, Brevi altre volte solennemente dichiarammo, ed ultimamente nella protesta, che per Nostro ordine ed in Nostro nome il Cardinale preposto ai pubblici affari lo stesso 20 settembre mandò agli inviati, ministri e incaricati d’affari delle nazioni straniere, accreditati presso Noi e questa Santa Sede, nel modo più solenne che possiamo, di nuovo davanti a voi, Venerabili Fratelli, dichiariamo essere Nostra intenzione, Nostro proposito e Nostra volontà che tutti i domini di questa Santa Sede e i diritti della stessa restino integri, intatti, inviolati e si trasmettano ai Nostri successori; che qualunque loro usurpazione, eseguita tanto ora che prima, è ingiusta, violenta, nulla, irrita; e che fin da ora vengono da Noi condannati, rescissi, cassati e abrogati tutti gli atti dei ribelli e degli invasori, sia quelli che finora si commisero, sia quelli che forse per l’avvenire si opereranno a confermare in qualunque modo la suddetta usurpazione. Dichiariamo inoltre e protestiamo davanti a Dio e a tutto il mondo cattolico che Noi siamo in tale cattività da non potere affatto esercitare con sicurezza, speditezza e libertà la Nostra suprema autorità pastorale.

Infine, obbedendo a quell’avvertimento di San Paolo “Quale comunanza della giustizia coll’iniquità? O quale società fra la luce e le tenebre? Quale patto tra Cristo e Belial?” (2Cor 6,14-15) apertamente e chiaramente manifestiamo e dichiariamo che Noi, memori del Nostro ufficio e del solenne giuramento che Ci lega, non prestiamo, né mai presteremo, l’assenso a qualunque conciliazione, che in qualunque modo distrugga o scemi i diritti Nostri, e quindi di Dio e della Santa Sede; parimenti proclamiamo che, pronti certamente con l’aiuto della Divina grazia nella Nostra grave età a bere sino alla feccia per la Chiesa di Cristo il calice che Egli per primo si degnò di bere per la medesima, mai sarà che Noi aderiamo e Ci pieghiamo alle inique domande che Ci faranno. Infatti, come il Nostro predecessore Pio VII diceva: “Far violenza a questo supremo dominio della Sede Apostolica, separare la sua temporale potestà dalla spirituale, disgiungere, svellere, scindere gli uffizi del Pastore e del Principe, null’altro è che voler distruggere e rovinare l’opera di Dio, nulla fuorché sforzarsi che la Religione abbia un danno grandissimo, nulla fuorché spogliarla d’un efficacissimo aiuto, affinché il suo sommo Rettore, Pastore e Vicario di Dio non possa conferire ai cattolici, sparsi in ogni angolo della terra e di là bisognosi di forza e di aiuto, quei soccorsi che si chiedono dalla spirituale potestà di lui, e che nessuno deve impedire” [Alloc. 16 marzo 1808].

Siccome poi i Nostri avvisi, le domande e le proteste furono vani, perciò con l’autorità di Dio Onnipotente, dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, e con la Nostra, a voi, Venerabili Fratelli, e per mezzo vostro dichiariamo a tutta la Chiesa che tutti coloro, forniti di qualsiasi dignità, anche meritevole di specialissima menzione, i quali compirono l’invasione, l’usurpazione, l’occupazione di qualunque provincia dei Nostri Stati e di questa alma città, o fecero alcune di tali cose; e parimenti i loro mandanti, fautori, aiutanti, consiglieri, aderenti od altri, quali che siano, che procurarono l’esecuzione dei fatti predetti o l’eseguirono essi stessi in qualsivoglia modo, o sotto qualunque pretesto, incorsero nella scomunica maggiore e nelle altre censure e pene ecclesiastiche inflitte dai sacri Canoni, dalle Costituzioni apostoliche e dai decreti dei Concilii generali, principalmente da quello Tridentino [sess. 22, cap. 11, De Reformat.], e vi incorsero secondo la forma e il tenore espressi nella suddetta Nostra lettera apostolica del 26 marzo 1860.

Memori però Noi di tenere qui in terra le veci di Colui che venne a cercare ed a salvare coloro che erano periti, nulla più vivamente desideriamo che di poter abbracciare con paterno affetto i figli traviati che ritornano a Noi; perciò, levando al Cielo le Nostre mani, nell’umiltà del cuore, mentre a Dio rimettiamo e raccomandiamo la causa giustissima, più Sua che Nostra, Lo preghiamo e Lo supplichiamo per le viscere della Sua misericordia che Ci soccorra prontamente col Suo aiuto, che soccorra la Sua Chiesa, e, misericordioso e propizio, faccia sì che i nemici della Chiesa, pensando l’eterna rovina che si preparano, cerchino di placare la Sua formidabile giustizia prima del giorno della vendetta e, convertiti, consolino il pianto della Santa Madre Chiesa e la Nostra afflizione.

Affinché possiamo conseguire così insigni benefici della clemenza divina, vi esortiamo caldamente e vivamente, Venerabili Fratelli, perché con i fedeli affidati alle cure di ciascuno di voi congiungiate le vostre fervide preghiere ai Nostri voti, e tutti insieme accorrendo al trono di grazia e di misericordia, interponiamo la intercessione dell’Immacolata Vergine Maria Madre di Dio, e dei beati apostoli Pietro e Paolo. “La Chiesa di Dio, dalla sua origine fino a questi tempi, fu più volte travagliata e più volte liberata. Il suo grido è: “spesso mi espugnarono fin dalla mia gioventù, ma non riuscirono mai contro di me. I peccatori fabbricarono sopra il mio dorso e prolungarono la loro iniquità”. E neppure ora il Signore lascerà prevalere la verga del peccatore sulla sorte dei giusti. La mano di Dio non si è accorciata, né resa impotente a salvarci. Libererà anche in questo tempo, non v’è dubbio, la Sposa sua che redense col suo sangue, dotò del suo spirito, adornò con doni celesti ed arricchì in pari tempo con quelli terreni” [San Bernardo, Ep. 244 al re Corrado].

Frattanto, augurando di cuore, Venerabili Fratelli, i fecondissimi frutti delle grazie celesti a voi ed a tutti i chierici e laici affidati da Dio alla vostra vigilanza, affettuosamente impartiamo a loro ed a voi, diletti figli, dall’intimo del cuore l’Apostolica Benedizione, pegno del Nostro speciale amore.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 1° novembre 1870, anno venticinquesimo del Nostro Pontificato.

 



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