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BREVE
QUOD ALIQUANTUM
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO VI

 

Al diletto Nostro figlio il Cardinale Domenico De La Rochefoucauld e al venerabile fratello l’Arcivescovo di Aix e agli altri che hanno sottoscritto l’Esposizione sui Principi della Costituzione del Clero di Francia.
Il Papa Pio VI. Diletti Figli Nostri, e Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Costretti dalla natura della cosa, molto seria e importante per se stessa, e altresì dalla eccessiva molteplicità di urgentissimi affari, abbiamo dovuto, Diletti Figli e Venerabili Fratelli Nostri, differire alquanto la risposta, che ora diamo alla lettera speditaci in data 10 ottobre, e sottoscritta da molti rispettabili Colleghi vostri. Leggendola, Noi ci sentimmo rinnovare purtroppo nell’animo quell’immenso e inconsolabile dolore che già ci aveva altamente penetrati fin dal momento in cui Ci giunse la notizia che codesta vostra Assemblea Nazionale, convocata per fare piani di pubblica economia, si era inoltrata nei suoi Decreti al punto di attaccare anche la Religione Cattolica. Poiché la maggior parte dei componenti veniva a lanciarsi ormai con violenza sul medesimo Santuario, Ci parve bene sulle prime, trattandosi di persone assai sconsiderate e sconsigliate, serbar silenzio con esse per timore che, irritate dalla voce della verità non si lasciassero trasportare maggiormente ad eccessi anche molto peggiori. E giustificato era questo Nostro silenzio dalla autorità di San Gregorio il Grande il quale ci lasciò scritto «doversi bilanciare con discrezione e prudenza le circostanze dei tempi e delle vicende, cosicché non si adoperino mai inutilmente le parole, ove sia più vantaggioso il tacere». Rivolgemmo per altro nel tempo stesso le Nostre parole e le suppliche a Dio, e intimammo ben tosto che si facessero preghiere pubbliche al fine d’impetrare dall’Altissimo a codesti nuovi legislatori tal lume e grazia, per cui si risolvessero di rinunciare ai dettami della filosofia di questo secolo, e si rimettessero sulle orme di ciò che detta e consiglia la Religione, e stessero in esse ben saldi. In questa Nostra determinazione avemmo l’occhio e il pensiero all’esempio di Susanna, la quale al dire di Sant’Ambrogio «più oprò tacendo, che non se avesse parlato; atteso che tacendo dinanzi agli uomini parlò col suo Dio; la coscienza e il cuore di lei favellavano, benché non si udisse sillaba dalla sua bocca, né cercava di avere a sé favorevole il giudizio degli uomini, lei che aveva Iddio stesso per testimonio».

Non tralasciammo nondimeno di convocare il 29 marzo dello scorso anno i Venerabili Fratelli Nostri Cardinali della S.R.C. in Concistoro per comunicare loro quanto costì erasi cominciato a disegnare contro la Religione Cattolica, e dividendo con essi l’acerbità del Nostro cordoglio invitarli a piangere ed a pregare con Noi. Mentre appunto così si faceva, inaspettatamente Ci viene significato che verso la metà del mese di luglio dalla Assemblea Nazionale Francese (sotto il nome di Assemblea Noi qui per ogni altra volta Ci protestiamo di intendere quella sola parte che in essa è superiore di numero) era stato emanato un Decreto con cui, sotto il titolo e il pretesto di una Costituzione Civile del Clero, si procedeva realmente a perturbare e a rovesciare i Dogmi più sacrosanti, e la Disciplina Ecclesiastica più ferma e assodata; venivano aboliti i diritti di questa Prima Sede, dei Vescovi, dei Sacerdoti, dei Regolari dell’uno e dell’altro sesso, e di tutta quanta la Comunione Cattolica; si sopprimevano i Sacri Riti, si metteva la mano sulle rendite e i fondi Ecclesiastici; insomma, ne derivavano tanti mali che sarebbe impossibile credere, quando non si vedessero comprovati purtroppo dall’esperienza.

Udendo tali cose, l’animo Nostro non poté certamente non inorridire, specialmente poi quando leggemmo il tenore dello stesso Decreto: a Noi avvenne non altrimenti di quello che succedette un tempo a Gregorio Magno, predecessore Nostro, a cui, essendo stato mandato dal Vescovo di Costantinopoli un libro per averne il giudizio, appena ne ebbe scorse le prime pagine protestò di avere in esso trovato un manifesto veleno d’iniquità. Somma era perciò ed incredibile l’afflizione che Ci teneva oppresso il cuore, quand’ecco sulla fine d’agosto Ci viene presentata una lettera del carissimo Nostro Figlio in Gesù Cristo il Re Cristianissimo Luigi, con la quale egli insistentemente Ci pregava di volere con l’autorità Nostra approvare, almeno a titolo di precauzione, i cinque articoli che nell’Assemblea Nazionale erano stato fissati, e che egli con la sua Reale Sanzione aveva già confermati. Ci fu facile constatare che tali articoli erano contrari alle regole dei Canoni; nondimeno giudicammo espediente il rispondere al Re, con la maggiore piacevolezza, che quegli Articoli sarebbero da Noi sottoposti all’esame di una Congregazione di venti Cardinali, ciascuno dei quali avrebbe espresso per iscritto il proprio parere. Noi stessi Ci saremmo poi presi l’incarico di esaminare le opinioni e di meditarle accuratamente, come l’importanza della materia esigeva. Frattanto con altra privata e familiare lettera Noi esortammo il Re perché vedesse di indurre tutti i Vescovi del Regno a spiegare apertamente i propri sentimenti, e insieme proporre a Noi quei migliori partiti ed espedienti in cui essi si trovassero concordi, e informarci distintamente e chiaramente di quanto poteste a Noi essere sconosciuto, tenuto conto della distanza da codesti luoghi, affinché non ne derivasse pericolo o danno alcuno alla Nostra coscienza. Da allora, fino ad ora, non Ci è giunta da voi spiegazione veruna, come desideravamo, sul modo con cui procedere in tali emergenze. Soltanto Ci son pervenute, in istampa, Lettere Pastorali, Sermoni ed Esortazioni di alcuni Vescovi, pieni certamente dello Spirito del Vangelo, ma scritti da ciascuno per la sua particolare Diocesi, senza nulla esprimere o additare della maniera con cui, a parer loro, dovessimo Noi regolarci: maniera, per altro, e regolamento indispensabilmente richiesti dalla urgente necessità e dal grave pericolo in cui vi trovate. Abbiamo bensì ricevuto – è già qualche tempo – una vostra esposizione manoscritta, e poi anche stampata, sopra i principi della Costituzione del Clero: nelle prime pagine di essa sono riportati molti Decreti della Assemblea Nazionale, accompagnati da molte riflessioni sulla loro invalidità ed ingiustizia. Nello stesso tempo Ci è stata consegnata una lettera del Re Cristianissimo, con cui egli chiede che da Noi si dia l’approvazione, da valere per qualche tempo, a sette articoli dell’Assemblea Nazionale quasi simili a quei primi cinque trasmessici nel mese d’agosto, e insieme Ci ragguaglia dell’angustia, in cui si trova per dover firmare con la sua Regia Sanzione un nuovo Decreto esecutivo emanato il 27 novembre, in forza del quale i Vescovi, i Vicari, i Parroci, i Rettori dei Seminari ed altre persone che hanno uffizio e carica Ecclesiastica devono prestare, entro un determinato tempo, al Consiglio Generale delle Municipalità il giuramento di osservare la Costituzione; nel caso in cui non lo facciano, vengono minacciati di gravissime pene. Nonostante ciò, poiché già in precedenza dichiarammo di non volere sopra questi articoli proferire il Nostro giudizio senza che prima la maggior parte almeno dei Vescovi Ci abbia chiaramente e distintamente comunicato il proprio parere, così torniamo anche adesso a ripeterlo risolutamente e costantemente.

Il Re, fra le altre cose, richiede da Noi che con la Nostra esortazione procuriamo d’indurre i Metropolitani e i Vescovi a prestare il loro consenso alla divisione e alla soppressione di Chiese Metropolitane e di Vescovati, e altresì, per modo almeno di precauzione, che da parte Nostra si permetta che in luogo delle forme Canoniche osservate fin qui dalla Chiesa nelle erezioni di nuovi Vescovati basti al presente la sola autorità dei Metropolitani e dei Vescovi; in conformità del nuovo metodo da tenersi nelle elezioni, presentino essi stessi i soggetti per le Cure vacanti, purché non siavi ostacolo in materia di costumi e di dottrina in quelli che si vogliono eleggere. Dalle stesse domande che il Re Ci fa espressamente, si comprende benissimo che egli medesimo conosce doversi in simili casi ricercare il sentimento dei Vescovi, ed essere cosa ben giusta che da Noi non si decida nulla senza averli prima sentiti. Il vostro consiglio adunque desideriamo e chiediamo, ma in modo che il vostro parere, i regolamenti e il metodo siano individualmente espressi, e da tutti, o dalla maggior parte di Voi, sottoscritti, onde a questo saldissimo monumento appoggiati Ci possiamo regolare e procedere nelle nostre consultazioni, in modo che il giudizio che proferiremo venga ad essere salutare e convenientemente adatto sia a Voi, sia al Cristianissimo Regno.

Mentre stiamo in attesa di ottenere questo da Voi, Ci prenderemo frattanto il carico di esaminare tutti gli articoli della Costituzione Nazionale; ad alleggerircelo in qualche parte giova ciò che nella vostra lettera Ci avete esposto. Primieramente se si leggono gli atti del Concilio di Lione, che fu incominciato nell’anno 1527 contro gli errori dei Luterani, non può giudicarsi immune dalla taccia di eresia ciò che serve di base e di fondamento al decreto nazionale di cui ora si tratta. Quel Concilio si spiegò in questi termini: «Dopo questi ignoranti uomini uscì fuori Marsilio da Padova con un pestifero libro intitolato Il Difensore della pace, che a danno del popolo cristiano è stato dato recentemente alle stampe dai Protestanti. Egli, perseguitando ostilmente la Chiesa ed empiamente adulando i Principi terreni, toglie ai Prelati ogni esteriore giurisdizione, salvo quella che sia stata loro concessa dal Magistrato secolare. Asserisce inoltre che in ogni Sacerdote, o semplicemente tale, oppure Vescovo, o Arcivescovo, o anche Papa, è ugualissima in tutti l’autorità per istituzione divina, e se nel Sacerdozio si dà in alcuni maggioranza d’autorità sopra altri, egli pretende che ciò provenga dalla gratuita concessione del Principe laico, concessione per conseguenza revocabile ad arbitrio di chi l’ha fatta. Ma a reprimere lo strano furore di questo delirante eretico bastano le sacre scritture, da cui manifestamente rilevasi che non già dall’arbitrio del Principe dipende l’ecclesiastica potestà, ma bensì dal Divino diritto, in forza del quale la Chiesa ha la facoltà di stabilire leggi per la salute dei fedeli, e di punire con legittime censure i ribelli. Dalle medesime sacre scritture appare chiarissimo che la potestà ecclesiastica non solamente è superiore a qualunque altra laicale potestà, ma è anche più degna. Per altro questo Marsilio e gli altri sopra citati eretici, che empiamente si sono scagliati contro la Chiesa, tentano tutti a gara di diminuire in qualche parte l’autorità di lei».

Richiameremo inoltre alla vostra memoria anche il conforme parere di Pio VI di felice memoria, che in un Breve spedito al Primate, agli Arcivescovi e ai Vescovi del Regno di Polonia in data 5 marzo 1755 tratta di un opuscolo, tradotto e stampato in lingua polacca dalla francese, del quale era stata fatta la prima edizione col titolo Principi sopra l’essenza, la distinzione e i limiti delle due potestà spirituale e temporale. Opera postuma del Padre la Borde dell’Oratorio. In tale libro l’autore assoggettava il ministero ecclesiastico alla potestà secolare in modo che, a suo parere, questa poteva per proprio diritto esaminare e giudicare sul governo esteriore e sensibile della Chiesa. Parlando di questo opuscolo, Benedetto dice: «Un sistema empio e pernicioso, già molto prima dalla Sede Apostolica riprovato ed espressamente condannato come eretico, è appunto quello che, con fallaci ciance e con stile specioso mascherato da religione, e con autorità di Scritture e di Padri affatto stravolti, l’impudente scrittore presenta al fine d’ingannare più facilmente i semplici e gl’incauti». Quindi Benedetto proibì tale opuscolo, lo condannò come fraudolento, falso, empio, ed eretico, e vietò solennemente di leggerlo, di conservarlo, di utilizzarlo ad ogni e qualunque Cattolico, ancorché degno di speciale ed individua menzione, sotto pena della scomunica da incorrersi ipso facto, dalla quale nessuno possa essere assolto se non in punto di morte, e non da altri che dal Romano Pontefice pro tempore. E a dire il vero, quale mai giurisdizione possono avere i laici sulle cose ecclesiastiche, al punto che gli Ecclesiastici debbano assoggettarsi ai loro decreti? Certamente nessuno, che sia cattolico, può ignorare che Gesù Cristo nell’istituire la sua Chiesa diede agli Apostoli e ai loro successori un potere soggetto a nessun altro della terra, come tutti d’accordo riconobbero i Santi Padri sull’ammonimento dato da Osio e da Sant’Atanasio con queste parole: «Non ti ingerire nelle cose ecclesiastiche, né imporre a Noi precetti sopra di esse, ma tu piuttosto apprendili da Noi; Iddio ha dato a te l’Impero, a Noi le cose ecclesiastiche, e siccome chi togliesse l’Impero a te contraddirebbe al divino comando, così preoccupati anche tu di non farti reo di un maggiore delitto traendo a te le cose ecclesiastiche». E fu per questo che San Giovanni Crisostomo, a comprovare quanto ciò sia vero, ricordò quanto era successo ad Oza, «il quale, avendo con la mano sostenuto l’Arca, che altrimenti sarebbe caduta, immediatamente morì perché volle usurpare un ministero che a lui non competeva affatto. Il violare dunque il giorno del Sabato, e semplicemente toccare l’Arca pericolante, mosse Iddio a tanto sdegno, che i rei di questi falli non poterono ottenere da lui alcuna remissione? e poi chi corrompe gli adorabili e santi dogmi, potrà essere scusato, e ottenere perdono? Ciò non è possibile, no, non sarà mai».

Questo stesso è stato il parere che hanno espresso nei loro decreti i sacrosanti Concilii, e su ciò convennero anche i vostri Re, fino all’avolo del Regnante, cioè Luigi XV, il quale il 10 agosto 1731 formalmente dichiarò di riconoscere «come suo primo dovere quello d’impedire che in occasione di dispute si mettano in discussione i sacri diritti di un Potere che solo da Dio ha ricevuto il diritto di decidere le questioni appartenenti alla dottrina intorno alla Fede o intorno alla Morale; di fare dei Canoni o delle regole di disciplina riguardanti la condotta dei ministri della Chiesa e dei fedeli nell’ordine della religione; di sistemare i suoi ministri o deporli conforme alle medesime regole, e di farsi ubbidire nell’imporre ai fedeli, secondo l’ordine canonico, non solamente penitenze salutari, ma vere pene spirituali per mezzo di giudizi o di censure, che i primi Pastori hanno il diritto di proferire». Eppure contro un’affermazione così certa e ferma nella Chiesa Cattolica, codesta Assemblea Nazionale si è arrogata la potestà della Chiesa, giungendo a stabilire tante e sì strane cose, le quali sono contrarie sia al Dogma, sia alla disciplina ecclesiastica, costringendo i Vescovi e gli Ecclesiastici tutti a giurare di eseguire quanto essa ha decretato. Di ciò peraltro non deve stupirsi chiunque rileva dalla Costituzione stessa dell’Assemblea che questa a null’altro mira né altro cerca se non l’abolizione della Religione Cattolica e, con questa, anche dell’ubbidienza dovuta ai Re. Con tale disegno appunto si stabilisce come un principio di diritto naturale che l’uomo vivente in Società debba essere pienamente libero, vale a dire che in materia di Religione egli non debba essere disturbato da nessuno, e possa liberamente pensare come gli piace, e scrivere e anche pubblicare a mezzo stampa qualsiasi cosa in materia di Religione.

Che queste affermazioni, certamente strane, discendano propriamente e derivino dall’uguaglianza degli uomini fra di loro e dalla libertà naturale, lo ha dichiarato la stessa Assemblea. Ma quale stoltezza maggiore può immaginarsi quanto ritenere tutti gli uomini uguali e liberi in tal modo che nulla venga accordato alla ragione, di cui principalmente l’uomo è stato fornito dalla natura e per la quale si distingue dalle bestie? Quando Dio ebbe creato il primo uomo e lo collocò nel Paradiso terrestre, non gli intimò nello stesso tempo la pena di morte se avesse gustato i frutti dell’albero della scienza del bene e del male? Con questo primo precetto non ne pose egli tosto in freno la libertà? E dopo che l’uomo con la sua disubbidienza si era fatto colpevole, non aggiunse Iddio molti altri precetti, che vennero da Mosè promulgati? «Benché egli avesse lasciato l’uomo in potere delle proprie decisioni, onde fosse poi capace di meritare premio o pena, nondimeno gli aggiunse leggi e comandamenti, affinché volendoli fedelmente osservare gli valessero per sua salute». Ove è dunque quella libertà di pensare e di operare, che i decreti dell’Assemblea attribuiscono all’uomo vivente in società come un diritto immutabile della natura? Dunque, per ciò che risulta da tali decreti, a tenore di essi converrà contraddire al diritto del Creatore, per mezzo del quale noi esistiamo, e dalla cui liberalità si deve riconoscere tutto ciò che siamo e che abbiamo. Oltre ciò, chi non sa che gli uomini sono stati creati non semplicemente per vivere ciascuno come singolo, ma per vivere anche ad utilità e giovamento degli altri? Pertanto, debole come è l’umana natura, è scambievole il bisogno dell’altrui opera per la propria conservazione; ed è per questo che Iddio fornì gli uomini di ragione e di parola, perché sapessero e potessero chiedere aiuto e, richiesti, porgerlo. Pertanto, dalla natura stessa furono indotti ad accomunarsi e ad unirsi in società. Ora, siccome all’uomo appartiene l’uso della ragione, in modo che egli non solo riconosca il Supremo suo creatore, ma lo rispetti e lo veneri con ammirazione, e riconosca che egli stesso e tutte le sue cose derivano da Lui, ed è necessario che fin dal principio del suo vivere egli stia soggetto ai suoi maggiori, che lo possano regolare e ammaestrare, onde gli sia agevole il conformare il tenore della sua vita ai lumi della ragione, ai principi della natura e alle massime della Religione, deriva che il nascere stesso che fa ciascun uomo al mondo prova ad evidenza essere vana e falsa quella così vantata eguaglianza fra gli uomini, e la libertà. «State soggetti, dice l’Apostolo, ché questo è di necessità». Ma perché gli uomini potessero unirsi in civile società, fu inoltre necessario stabilire una forma di governo, per mezzo del quale quei diritti di libertà sono stati vincolati dalle leggi e dalla suprema potestà dei Regnanti; da ciò consegue direttamente ciò che insegna Sant’Agostino dicendo: «È un patto generale della società umana ubbidire ai propri Re». Pertanto, questa potestà non deriva tanto dal contratto sociale, quanto da Dio stesso, autore del retto e del giusto. Ciò pure affermò l’Apostolo nella lettera ai Romani, cap. 13: «Ogni uomo stia soggetto alle Potestà superiori; imperciocché non v’è Potestà che non provenga da Dio, e quelle Potestà che sono qui in terra sono da Dio ordinate. Perciò chi resiste alla Potestà resiste all’ordine di Dio; e coloro che vi resistono si tirano addosso la dannazione».

A questo proposito Ci piace riportare un Canone del secondo Concilio di Tours tenuto nell’anno 567, con le cui parole viene scomunicato non solo chiunque presume di contravvenire ai Decreti della Sede Apostolica, ma anche, «ciò che è peggio, chiunque presume d’insegnare in qualsivoglia maniera diversamente dal sentimento proferito per bocca del Vaso di elezione Paolo Apostolo, ispirato dallo Spirito Santo, dato che Paolo stesso, dallo Spirito Santo ispirato, espressamente dice: sia scomunicato chiunque predicherà diversamente da quello che io ho predicato».

Ma per confutare una così assurda invenzione di libertà può anche essere sufficiente dire che questo appunto fu lo stolto pensiero dei Valdesi e dei Beguardi condannati da Clemente V con universale approvazione del Concilio Ecumenico Viennese; errore che fu poi seguito dai Wicleffisti e, ultimamente, da Lutero, al quale appartengono le parole «Noi in tutto, e per tutto siamo liberi». Peraltro, ciò che abbiamo detto intorno all’ubbidienza dovuta alle legittime Potestà, non vogliamo affatto che venga preso come se Noi l’avessimo affermato con l’intenzione di attaccare le nuove leggi civili, le quali, come appartenenti al suo governo secolare, il Re stesso poté benissimo approvare. Nell’esporre quanto abbiamo riferito, Noi non abbiamo avuto in animo che costì si ristabilisca il precedente stato civile, sebbene alcuni calunniatori vadano così interpretando e divulgando per rendere in tal guisa odiosa la Religione. In realtà sia Noi, sia voi stessi non altro cerchiamo e ci adoperiamo se non perché i sacri diritti della Chiesa e della Sede Apostolica si mantengano illesi.

A tal fine Noi ora passeremo ad esaminare sotto altro aspetto il nome di Libertà, e a riscontrare la differenza che passa fra quelli che sono sempre stati fuori dal grembo della Chiesa, quali gli Infedeli e gli Ebrei, e quelli che col sacramento del Battesimo da loro ricevuto si sono alla Chiesa medesima di per sé assoggettati. I primi non devono affatto costringersi a professare l’ubbidienza cattolica; ma al contrario devono essere tenuti i secondi. Una tal differenza con saldissime ragioni, come è suo costume, espone ed illustra San Tommaso d’Aquino, e molti secoli prima ciò fece Tertulliano nel libro intitolato Scorpiaco contro gli Gnostici; e pochi anni fa lo fece Pio VI nella sua opera sulla Beatificazione dei Servi di Dio e canonizzazione dei Beati. E affinché in questa materia vieppiù manifesta si scopra la ragione, sono da vedere le due famosissime lettere di Sant’Agostino, una scritta a Vincenzo Cartaginese, l’altra al conte Bonifazio, delle quali lettere sono state fatte parecchie edizioni; esse servono quale gagliarda confutazione contro gli eretici, non solo antichi ma anche moderni. Attraverso tali cose rimane chiarissimo e manifesto che l’uguaglianza e la libertà vantate da codesta Assemblea mirano poi infine, come abbiamo già provato, a rovesciare la Religione Cattolica, alla quale perciò l’Assemblea ha rifiutato di dare il titolo di Dominante, in un Regno nel quale essa ha sempre dominato.

Inoltrandoci Noi adesso a dimostrare gli altri errori dell’Assemblea Nazionale, Ci si presenta subito l’abolizione del Primato Pontificio e della sua Giurisdizione, dato che il decreto così si esprime: «Il nuovo Vescovo non potrà dirigersi al Papa per ottenerne alcuna conferma; ma gli scriverà come a Capo visibile della Chiesa universale in testimonianza dell’unità della fede e della comunione che deve avere con lui».

Assolutamente nuova è la formula del giuramento che si prescrive, poiché in essa è taciuto il nome del Romano Pontefice; anzi, siccome l’eletto è tenuto per giuramento a osservare i decreti nazionali, i quali vietano che si prenda dal Pontefice la conferma della elezione, perciò appunto rimane affatto esclusa ogni Potestà del Pontefice medesimo, e in questa maniera si tagliano fuori del fonte i rivi, si tagliano i rami dall’albero, e il Popolo dal Primo Sacerdote. Parlando con voi, Ci sia permesso, per ricordare le ingiurie recate alla Nostra dignità e alla Nostra autorità, appropriarci delle stesse parole con cui San Gregorio il Grande, scrivendo all’augusta Costantina, si lamentò del vescovo Giovanni che, presuntuoso e amante di novità, pretendeva arrogantemente di farsi chiamare Vescovo universale: la pregò di non aderire a tali ambiziose pretese di lui: «Non sia mai che in questa causa la vostra pietà faccia poco conto di me, perché sebbene i peccati di Gregorio [diremo ora di Pio] siano così grandi, che per essi starebbe bene simile pena, tuttavia l’Apostolo Pietro non ha alcun peccato per il quale egli meriti ai tempi vostri di soffrire tali cose; onde, per Iddio Onnipotente, vi prego e supplico che come i Maggiori e Predecessori Vostri si procurarono la protezione e il favore di San Pietro Apostolo, così anche Voi procuriate di cercar questa stessa e di conservarvela, cosicché, a causa dei peccati di Noi, che siamo indegni suoi servi, non venga in conto alcuno diminuito presso di voi l’onore di lui, il quale può aiutarvi in tutto presentemente, e può in appresso rimettervi i vostri peccati».

Ciò che richiedette San Gregorio dall’autorità di Costantina al fine di sostenere il decoro della Pontificia dignità, Noi similmente domandiamo da Voi, perché in codesto vastissimo Regno non vengano aboliti l’onore e i diritti del Primato, ma si abbia riguardo ai meriti di Pietro, di cui Noi, sebbene immeritevoli, pur siamo eredi: egli, nella umiltà della Nostra Persona, deve essere onorato. Se non potrete mandare ad effetto ciò, perché impediti da forza straniera, dovete almeno supplire con il religioso zelo e con la vostra costanza, coraggiosamente astenendovi dal giuramento che vi si ingiunge. Per certo la denominazione pretesa da Giovanni toglieva a Gregorio assai meno di quel che toglie ai Nostri diritti il decreto nazionale; poiché, come mai può dirsi che si mantenga e si conservi la comunione col Capo visibile della Chiesa soltanto comunicandogli l’elezione e nel tempo stesso negandogli attraverso il giuramento l’Autorità del Primato? Eppure a lui, come a capo, debbono le sue membra fare solenne promessa di ubbidienza canonica al fine di conservare l’unità della Chiesa e di evitare gli scismi in questo mistico corpo formato da Gesù Cristo. A tal proposito, per ciò che riguarda le Chiese di Francia, si può vedere presso il Martens, nella sua opera sugli Antichi Riti della Chiesa, quale sia stata in passato la formula del giuramento: ben chiaro risulta che fin dai tempi antichi i Vescovi della Francia nella loro Ordinazione aggiungevano alla professione della fede l’espressa clausola della loro ubbidienza verso il Romano Pontefice. Noi per la verità non ignoriamo (né vogliamo qui dissimularlo) ciò che i difensori della Costituzione Nazionale producono in contrario da una lettera di Sant’Ormisda ad Epifanio, Patriarca di Costantinopoli, o piuttosto a dir vero come abusino di tale lettera, in quanto da essa risulta essere stato costume che i Vescovi eletti mandassero deputati con loro lettera, e con la professione della Fede, al Romano Pontefice, da cui chiedevano di venire ammessi in unione e comunione con la Sede Apostolica, e in questa guisa riportassero l’approvazione della elezione seguita nella loro persona. Avendo mancato di ciò fare Epifanio, il Papa Ormisda scrivendogli così si espresse: «Noi ci siamo molto meravigliati come Voi non abbiate osservato il solito ed antico costume, quando ora che è ristabilita per divina mercé la concordia fra le Chiese, ciò appunto da Voi richiedeva il dovere, in prova della fraterna pace, massime che non pretendevasi questo per ambizione personale, ma per osservanza delle Regole. Sarebbe stato bene, o Fratello carissimo, che sul principio stesso del vostro Vescovato Voi aveste inviato deputati alla Sede Apostolica allo scopo di rendervi certo di qual sia l’affetto Nostro per Voi, e di osservare esattamente la forma dell’antica consuetudine». Vero è che i nemici del Primato da quell’espressione «sarebbe stato bene» deducono essere stata simile deputazione un semplice atto di ufficiosità, e per così dire di esuberanza; ma se bene si osservi peraltro tutto il contesto della lettera, cioè le parole «ristabilita la concordia fra le Chiese... ciò richiedeva il dovere... pretendevasi per osservanza delle Regole... osservare esattamente la forma dell’antica consuetudine», chi può mai sostenere che per essersi il Papa servito di questa moderata espressione «sarebbe stato bene» non fosse un dovere dell’Eletto il ricorrere al Papa per ottenere l’approvazione?

Ma rimane del tutto sconfitta ogni interpretazione contraria da un’altra lettera pontificia, che San Leone IX scrisse a Pietro, Vescovo di Antiochia. Avendo questi comunicato al Santo Pontefice la sua elezione al Vescovato, ne ebbe per risposta: «Molto necessaria è stata la premura che vi siete preso di significarci l’avvenuta elezione... e non avete differito ad eseguire ciò che grandemente si doveva per parte Vostra, e della Chiesa a cui temporalmente presiedete. La mia bassezza poi, che al sublime Trono Apostolico è stata esaltata, perché approvi quel che è da approvare, e altresì disapprovi ciò che è da disapprovare, ben volentieri approva, e loda, e conferma la promozione Vescovile di Vostra Santissima Fraternità, e immediatamente prega il comune Signore, che quale Voi siete di presente chiamato dagli uomini, tale anche siate dinanzi agli occhi di lui». Questa lettera che non è il parere di un dottore privato, ma esprime il giudizio di un Pontefice insigne per santità e per dottrina, non lascia luogo ad alcun dubbio sul senso in cui Noi abbiamo spiegato la lettera di Sant’Ormisda, così che meritatamente essa deve considerarsi uno dei più illustri monumenti a comprovare l’obbligo che hanno i Vescovi di chiedere, e di riportare dal Romano Pontefice la conferma: obbligo che viene corroborato dall’autorità del Concilio di Trento, e che Noi Ci prendemmo la cura di sostenere e difendere nella Nostra risposta sopra le Nunziature; molti altri tra Voi medesimi, con egregie e dotte opere, l’hanno messo in chiarissima luce. Ma qui dai Nostri avversari, cui preme sostenere i decreti di codesta Assemblea, Noi Ci sentiamo dire che questi decreti appartengono alla Disciplina, la quale, come frequenti volte è stata cambiata in relazione alla varietà dei tempi, così può mutarsi anche presentemente. Peraltro, fra i decreti dell’Assemblea non vi sono soltanto quelli che riguardano la Disciplina, ma ve ne sono anche altri, e non pochi, che tendono al rovesciamento del puro e immutabile Dogma, come abbiamo fin qui dimostrato. Nondimeno, anche trattando della Disciplina medesima, chi è mai fra i Cattolici che asserisca potersi dai laici cambiare la Disciplina ecclesiastica? Anche lo stesso Pietro de Marca confessa che «intorno ai Riti, Cerimonie, Sacramenti, Censura del Clero, Funzione, Condizioni e Disciplina, è costume frequentissimo dei Concilii il farne Canoni, e dei Pontefici Romani altresì farne Decreti come a materia loro soggetta, né si può produrre alcuna Costituzione di Principi promulgata su tale proposito per mero comando della Potestà secolare. Vediamo con certezza che in questa parte le Leggi pubbliche sono venute dopo, ma non hanno mai preceduto».

Di più, nell’anno 1560, avendo la Facoltà di Parigi chiamato ad esame le proposte fatte all’Assemblea, ossia agli Stati radunati di Angiò, da Francesco Grimauldet, fra le molte proposizioni dalla stessa Facoltà riprovate si trova la seguente al n. 6: «Il secondo punto della Religione riguarda la Polizia e la Disciplina Ecclesiastica, sulla quale i Re e i Principi Cristiani hanno potestà di dirigerla, di ordinarla e di riformarla, se è corrotta». Questa proposizione è falsa, scismatica, lesiva della potestà ecclesiastica, ed eretica, e le prove sono inconcludenti e disparate. Certissimo è inoltre che la disciplina non può variarsi temerariamente a capriccio, giacché i primi due luminari della Chiesa Cattolica, Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino, apertamente insegnano che le materie riguardanti la disciplina non si debbono variare, se non quando lo richieda la necessità o una grande utilità; essendo che il cambiar consuetudine, anche dove ciò ridonda in giovamento, disturba tuttavia per la stessa novità, e non deve farsi variazione (come il medesimo San Tommaso soggiunge) «se non nel caso che quanto si deroga per una parte alla comune salvezza, venga compensato altrettanto per altra parte». È poi così impensabile che i Romani Pontefici abbiano mai corrotto la disciplina, ché anzi con l’autorità da Dio loro conferita ad edificazione della Chiesa hanno sempre cercato di migliorarla e di addolcirla; tutto all’opposto di ciò che con Nostro dolore hanno fatto i membri di codesta Assemblea, come facilmente si può toccare con mano confrontando ciascun articolo di quei decreti con la disciplina della Chiesa.

Ma prima che cominciamo a parlare di questi articoli, stimiamo opportuno premettere quanta coerenza abbia spesse volte la disciplina con il dogma, e quanto l’una influisca a conservare la purità dell’altro, come pure quanto poco utili siano state, e di quanto poca durata, le variazioni permesse, sebbene di rado, dai Romani Pontefici per condiscendenza. Di fatto i Sacri Concilii hanno in parecchi casi scomunicato i violatori della disciplina. Nel Concilio Trullano fu stabilita la pena di scomunica a chi mangiasse sangue di bestie soffocate: «Se alcuno da qui avanti ardirà mangiare in qualsiasi maniera del sangue degli animali, sia deposto, se egli è un Chierico, e se Laico, sia separato». In più luoghi il Concilio di Trento sottopone alla scomunica gl’impugnatori della disciplina ecclesiastica; poiché al can. 9, sess. 13 dell’Eucaristia stabilisce la pena della scomunica a chiunque «negherà che tutti e ciascuno dei Cristiani dell’uno e dell’altro sesso, giunti che sono agli anni della discrezione, siano tenuti ogni anno a comunicarsi almeno per la Pasqua, conforme al precetto di Santa Madre Chiesa». Nel can. 7, sess. 22 del Sacrificio della Messa viene sottoposto alla scomunica chiunque dicesse «che le cerimonie, le vesti e i segni esterni, che adopera la Chiesa Cattolica nella celebrazione della Messa, servono piuttosto a provocare l’empietà, che ad eccitare la pietà». Nel can. 9, sess. medesima, viene parimenti scomunicato chiunque asserisse «che il Rito della Chiesa Romana di proferire con voce sommessa parte del Canone e le parole della Consacrazione è da condannarsi, o che la Messa si deve celebrare in lingua volgare». Nel can. 4, sess. 24 del Sacramento del Matrimonio viene punito con la scomunica chi dicesse «che la Chiesa non poteva stabilire impedimenti che dirimessero il matrimonio, o che nello stabilirli essa ha errato». Nel can. 9, alla medesima sess. e tit. incorre parimenti nella scomunica chi dicesse «che i Chierici costituiti nei Sacri Ordini, o i Regolari che hanno fatto solenne professione di castità, possono contrarre matrimonio, e che da essi contratto è valido, nonostante la Legge ecclesiastica, o il voto, e che il sentire in contrario non è altro che un condannare il matrimonio, e che questo possono contrarlo tutti quelli che non si sentono di avere il dono della castità, quantunque di essa abbiano fatto voto». Nel can. 11, alla medesima sess. e tit., è punito altresì con la scomunica chi dicesse «che la proibizione della solennità delle nozze in determinati tempi dell’anno è una superstizione tirannica derivata dalla superstizione dei Gentili, o condannasse le benedizioni e le altre cerimonie, di cui si serve la Chiesa nelle nozze». Nel can. 12 alla medesima sess. e tit. s’impone la pena della scomunica a chiunque dica «che le cause matrimoniali non appartengono ai Giudici Ecclesiastici». Alessandro VII, poi, il 7 gennaio e il 7 febbraio 1661 condannò sotto pena di scomunica latae sententiae la traduzione del Messale Romano in lingua francese, come una novità che deforma il perpetuo decoro della Chiesa, e che facilmente produrrebbe disubbidienza, temerità, audacia, sedizione, scisma e molti altri mali. Dalla pena di scomunica imposta a coloro che avversavano diversi punti della Disciplina, Noi comprendiamo manifestamente che questa è stata considerata dalla Chiesa come connessa con il Dogma, e che non deve in qualunque tempo, né da chiunque, variarsi, ma solo dall’Autorità ecclesiastica, quando questa sia certa che o è divenuto inutile quel che fino allora si è osservato, oppure vi è necessità urgente di conseguire un bene maggiore.

Ci resta ora da vedere di quanto poca utilità e durata siano state le variazioni che pur si sperava dovessero essere giovevoli. Ciò facilmente da voi si rileverà, se richiamerete alla vostra memoria l’esempio di quel che avvenne intorno all’uso del Calice, che Pio IV, dopo le vive istanze dell’imperatore Ferdinando e di Alberto duca di Baviera, fu infine indotto ad accordare, cioè che alcuni Vescovi, i quali avevano Diocesi nella Germania, potessero sotto determinate condizioni permetterlo. Ma siccome da ciò era derivato più male che bene alla Chiesa, il Santo Pontefice Pio V stimò necessario all’inizio stesso del suo Pontificato di revocare tale concessione, come ben presto egli fece con due Brevi Apostolici, il primo dell’8 giugno 1566 diretto a Giovanni, Patriarca d’Aquileia, il secondo il giorno dopo a Carlo Arciduca d’Austria. Da lì a qualche tempo Urbano, Vescovo di Passavia, presentò suppliche per ottenere lo stesso indulto; ma San Pio con lettera del 26 maggio 1568 gli rispose esortandolo grandemente «a mantenere l’antichissimo rito della Chiesa Cattolica piuttosto che quello di cui si valgono gli eretici... E in questo atteggiamento Voi dovete [egli scrive] rimanere così fermo e costante, da non lasciarvi rimuovere per timore di danno o pericolo alcuno, quand’anche dovessero perdersi i beni temporali, quand’anche dovesse incontrarsi il martirio. Voi siete tenuto ad apprezzare il valore di tale costanza più di tutte le ricchezze e i beni temporali. Dal martirio poi non deve rifuggire un uomo veramente cristiano e cattolico: anzi, deve desiderarlo e tenerlo in conto di un singolare beneficio di Dio, ed è da reputare veramente felice chiunque sarà stato fatto degno di spargere il sangue per Cristo e per i Santissimi suoi Sacramenti». Quindi meritatamente San Leone il Grande scrivendo ai Vescovi della Campania, del Piceno, della Toscana e di tutte le Province intorno ad alcuni punti di Disciplina, terminò la sua lettera con le seguenti parole: «Vi avvisiamo pertanto, e vi intimiamo che se alcuno dei Fratelli tenterà di contravvenire a queste determinazioni, e ardirà di fare ciò che è vietato, stia certo che sarà rimosso dal suo ministero, e non sarà partecipe della Nostra Comunione chi non volle essere Nostro compagno nella Disciplina».

Veniamo ora all’esame dei vari articoli del Decreto di codesta Assemblea Nazionale; qui merita una riflessione assai grave la soppressione di antiche Metropoli, e anche di alcuni Vescovati, e la divisione di alcuni di questi, e la nuova erezione di altri. Su questo Noi non intendiamo qui richiamare ad un esame critico ciò che non senza qualche dubbio vediamo riferito dagli storici intorno all’antica divisione delle Province della Francia rispetto allo Stato Civile. Da tale divisione Noi potremmo dedurre che tanto riguardo al tempo, quanto riguardo al territorio, le Metropoli Ecclesiastiche non sono state le stesse delle Province dello Stato Civile. Ma per il punto di cui ora si tratta, Ci basterà accennare che dalla divisione fatta delle Metropoli rispetto alla Giurisdizione Civile non discendono affatto i confini di territorio per il Ministero Ecclesiastico, come appare manifesto dalla ragione addotta da Sant’Innocenzo I in una sua lettera ad Alessandro Antiocheno: «Quanto a ciò che Ci domandate, se per essere state divise con giudizio imperiale le Province, onde farne due Metropoli, si debba altresì venire alla nomina di due Vescovi Metropolitani, Ci è sembrato che la Chiesa d’Iddio nulla abbia da variare, uniformandosi ai cambiamenti che portano le necessità mondane, né avere quegli onori o soffrire quelle divisioni, che per suoi propri motivi avrà l’Imperatore creduto doversi fare. È dunque conveniente che il numero dei Vescovi Metropolitani sia quale richiede l’antica divisione delle Province». Questa lettera viene illustrata con egregi documenti presi dalla prassi della Chiesa Gallicana da Pietro de Marca: Ci basterà trascrivere queste poche parole: «La Chiesa Gallicana è stata pienamente della stessa opinione del Sinodo Calcedonese e del Decreto d’Innocenzo, ed ha stimato essere cosa indegna che si facciano nuovi Vescovati per comando dei Re, ecc. Onde non è da recedere dal sentimento comune della Chiesa universale per una vile adulazione verso dei Principi, come avvenne a Marcantonio de Dominis, il quale a torto e contro i medesimi Canoni attribuì ai Re l’erezione dei Vescovati; tale opinione è stata fatta propria da alcuni moderni. In simile materia la disposizione e il regolamento dipendono interamente dalla Chiesa, come ho detto». Ma qui si dirà che si ricorre a Noi perché le stabilite divisioni delle Diocesi vengano da Noi approvate. Appunto si deve esaminare con ponderazione se ciò da Noi debba farsi; atteso che pare vi si opponga l’origine infetta, da cui derivano queste odierne divisioni e soppressioni. Si vuole riflettere inoltre che qui non si tratta di mutare l’una o l’altra Diocesi, ma di rovesciare quasi tutte le Diocesi di un vastissimo Regno, e di rimuovere dal loro luogo tante e sì grandi e illustri Chiese, dato che molte di quelle che godevano l’onore Arcivescovile, vengono abbassate al grado Vescovile. Contro tale novità fortemente inveì Innocenzo III, quando, scrivendo al Patriarca di Antiochia, lo riprese aspramente con queste parole: «Con un nuovo ed insolito genere di cambiamento Voi avete rimpicciolito il maggiore, e minorato in certa maniera il grande, presumendo di vescovare un Arcivescovo, anzi, a dir meglio, disarcivescovarlo».

Tale novità impressionò a tal punto Ivone di Chartres che, per evitarla, stimò necessario ricorrere a Pasquale II e scrivergli in questi termini: «Lo stato delle Chiese, che ha durato quasi per quattrocento anni, concedete che rimanga fermo e inconcusso, perché con questa occasione non si venga a suscitare nel Regno della Francia quello scisma che è nel Regno della Germania contro la Sede Apostolica». A questo si aggiunge che, prima di venire a tal passo, Noi dobbiamo interrogare i Vescovi, giacché si tratta del loro diritto, onde non abbiamo poi da essere accusati come violatori delle leggi della giustizia contro di essi. Quanto tale cosa sia detestata dal Pontefice Sant’Innocenzo I, lo dimostrano le seguenti sue parole: «Chi infatti potrebbe mai tollerare ciò in cui peccano quegli stessi che dovrebbero più degli altri essere premurosissimi per la tranquillità, per la pace, per la concordia? Per stravagante ed irragionevole motivo adesso si vedono Sacerdoti innocenti cacciati dalle sedi delle loro Chiese. Il primo a soggiacere a così ingiusta espulsione è stato il Nostro Fratello e Consacerdote Giovanni, vostro Vescovo, senza essere stato ascoltato in nessun modo. Contro di lui non si reca, né si ode alcuna accusa di reato. Che perversa risoluzione è mai questa? Come se non vi fosse o non si cercasse alcuna specie di giudizio, in luogo di Sacerdoti tuttora viventi ne vengono sostituiti altri, quasi che coloro i quali cominciano il loro ministero da tale reato possano avere qualche pregio o lo abbiano meritato. I Padri Nostri, peraltro, non hanno mai operato in simile modo, ma al contrario l’hanno vietato, dato che non è mai stata data licenza di ordinare un altro in luogo di chi è ancora vivente. Perciò un’ordinazione irregolare ed illecita non può togliere l’onore di un Sacerdote, mentre non può essere assolutamente ritenuto Vescovo colui che subentra ingiustamente».

Noi dovremmo infine conoscere in precedenza come sentano tale novità i popoli, i quali vengono privati del vantaggio di andare con maggiore rapidità e comodo dal proprio Pastore. A causa della mutata, o piuttosto rovesciata Disciplina, segue un’altra novità, cioè l’introduzione di una nuova maniera di elezioni vescovili: una nuova maniera, con cui viene infranta e violata la solenne convenzione, ossia il Concordato già stabilito fra il Pontefice Leone X e il Re Francesco I e dal Concilio Generale Lateranense V approvato, in cui si promette una vicendevole e fedele osservanza dei patti, come di fatto già da duecentocinquant’anni si è praticato costantemente; perciò a ragione tale Concordato si reputa come legge del Regno. In esso si era convenuto fra le parti della maniera di conferire i Vescovati, le Prelature, i Monasteri e i Benefici. Trascurando ora tale Concordato, si determina da codesta Assemblea che da qui innanzi i Vescovi siano eletti dal popolo di ciascun Distretto, o Municipalità. Con siffatta determinazione sembra che codesta Assemblea abbia voluto abbracciare le false opinioni di Lutero e di Calvino, seguite poi dall’apostata di Spalato. Costoro affermavano essere di Gius Divino che i Vescovi venissero eletti dal popolo; opinione che è facilissimo definire erronea se noi riandiamo con la memoria alle antiche elezioni. Infatti Mosè, per incominciare da lui, stabilì Aaron in Pontefice senza voto e consiglio della moltitudine, e dopo Aaron, Eleazaro; Gesù Cristo, Signore Nostro, senza intervento del popolo elesse prima i dodici Apostoli, poi settantadue Discepoli. Così, senza intervento del popolo, San Paolo fece Vescovo d’Efeso Timoteo, Tito dell’Isola di Creta, e Dionigi Areopagita, che l’Apostolo volle ordinare con le sue mani, Vescovo di Corinto. San Giovanni poi, senza alcun consenso della plebe, diede a Smirne per Vescovo Policarpo, e sono pressoché innumerabili quelli che furono mandati per sola scelta degli Apostoli a popoli lontani e infedeli nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, in Asia e nella Bitinia a governare in qualità di Pastori le Chiese dagli stessi Apostoli fondate. Una tal maniera di elezioni, quanto vera e giusta sia, lo dimostrano anche i sacrosanti Concilii, come il Laodiceno I e il Costantinopolitano IV. Sant’Atanasio creò Vescovo degli Indiani Frumenzio in una riunione di Sacerdoti all’insaputa del popolo. San Basilio elesse in un suo Sinodo per Vescovo di Nicopoli Eufronio senza alcuna richiesta e consenso dei cittadini e del popolo. San Gregorio II ordinò Vescovo in Germania San Bonifazio, senza che ne sapessero nulla, o se lo immaginassero, neppure i Germani. Lo stesso Valentiniano Augusto, essendogli stata proposta dai Vescovi l’elezione del Vescovo di Milano, rispose: «Questo è un affare troppo superiore alle mie forze. Voi sì, che siete ripieni della grazia Divina e avete attinto allo Spirito Divino, potrete scegliere meglio di me». L’opinione di Valentiniano dovrebbe essere a maggior ragione sentita e dichiarata dai Dipartimenti della Francia, ed abbracciata dai Principi Cattolici. Contro ciò che abbiamo fin qui esposto, si oppone da Lutero, da Calvino e dai loro seguaci l’esempio di San Pietro, il quale, alzandosi in mezzo ai fratelli (il numero delle persone adunate era di circa centoventi) così disse: «Bisogna che di questi uomini, i quali sono qui con noi radunati, se ne elegga uno a ricevere il posto del Ministero e dell’Apostolato, da cui Giuda traviò». Ma inutilmente essi si oppongono, in quanto, innanzi tutto, Pietro non lasciò all’Adunanza la libertà di scegliere chiunque le fosse piaciuto, ma prescrisse, e indicò che l’elezione dovesse cadere sopra uno di coloro che ivi erano raccolti. Inoltre fanno svanire ogni contraria eccezione le seguenti parole di Crisostomo: «Che dunque? Non poteva Pietro scegliere di per se stesso? Poteva certamente, ma per non sembrare che concedeva favori, egli se ne astenne». Al che danno maggior forza anche le altre azioni di Pietro seguite successivamente.

È da leggere altresì la lettera di Sant’Innocenzo I al Vescovo di Gubbio, Decenzio. Dopo che per la violenza degli Ariani, favoriti dall’Imperatore Costanzo, si era cominciato a cacciare dalle loro sedi i Vescovi Cattolici, ed a sostituirli con seguaci dell’eresia Ariana (del che amaramente piange Sant’Atanasio), la necessità dei tempi costrinse a far intervenire il Popolo nelle elezioni dei Vescovi, affinché esso s’infiammasse di zelo per mantenere nella sua sede quel Vescovo, che ben sapeva essere stato eletto alla propria presenza. Ma non per questo il Clero decadde dal gius della elezione, la quale, è certo, gli appartenne sempre per speciale diritto di ragione; né mai s’intese che il gius delle elezioni fosse stato deferito al solo Popolo, come ora si pretenderebbe introdurre; i Romani Pontefici non consentirono mai che la loro autorità rimanesse inoperosa. Infatti San Gregorio il Grande spedì il suddiacono Giovanni come suo delegato a Genova, perché colà, dove si trovavano molti milanesi, esaminasse le loro opinioni e i loro pareri riguardo alla persona di Costanzo: se li avesse trovati perseveranti e propensi per lui, lo facesse consacrare Vescovo di Milano dai propri Vescovi con l’assenso dell’Autorità Pontificia. Ulteriormente, in una sua lettera a diversi Vescovi della Dalmazia comandò con l’autorità del Beato Pietro, Principe degli Apostoli, che non si arrogassero, senza il suo consenso e il suo permesso, d’imporre le mani ad alcuno nella città di Salona, né di ordinare alcuno a Vescovo di essa diversamente da come egli prescriveva; se mai avessero osato trasgredire, sarebbero stati privati della partecipazione del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, e colui che fosse stato da loro ordinato, non sarebbe stato considerato Vescovo. Altresì, scrivendo a Pietro d’Otranto, essendo morti i Vescovi di Brindisi, di Lecce e di Gallipoli, gli ordinò di recarsi in quelle Diocesi, di visitarle, e di procurare che venissero sostituiti nel governo spirituale Sacerdoti degni di così gran Ministero, i quali poi si portassero dal Pontefice per poter essere consacrati. Ancora: in una lettera che egli scrive ai Milanesi, approva che essi, in luogo del defunto Vescovo Costanzo, abbiano eletto Diodato, e se nulla osta ai sensi dei vigenti Sacri Canoni, comanda che per sua Autorità venga solennemente ordinato.

San Nicolao I non cessò di riprendere il Re Lotario, perché procurava che nel suo Regno fossero promosse al Vescovato solamente persone sue favorite; perciò, con l’apostolica autorità, gl’ingiunse, se non voleva incorrere nello sdegno divino, di non permettere che alcuno venisse eletto ai Vescovati di Treviri e di Colonia prima che ne fosse stata data relazione al Pontificio Apostolato. Di più, Innocenzo III rigettò il Vescovo di Penna da poco creato, perché di proprio arbitrio era salito sul soglio vescovile prima di esservi chiamato dal Romano Pontefice. Similmente depose il Vescovo Corrado dalla sede di Hildesheim e di Wirtzburg, perché arrogantemente aveva preso possesso dell’una e dell’altra senza il permesso del Romano Pontefice. San Bernardo chiese umilmente al Pontefice Onorio II che si degnasse di confermare Alberico, eletto per voti al Vescovato di Catalogna; il che apertamente dimostra essersi riconosciuto anche dal Santo Abbate che non erano di alcun valore le elezioni dei Vescovi, se non interveniva l’approvazione apostolica.

Da ultimo, poiché erano continui le discordie, i tumulti e altri abusi, fu necessario escludere il Popolo dalle elezioni, e non ricercare né la testimonianza, né il desiderio di esso sulla Persona da eleggere. Ma se questa esclusione del Popolo venne provvidamente introdotta in tempi in cui si trattava di ammettere all’elezione soli Cattolici, che dovrà dirsi ora del Decreto dell’Assemblea Nazionale, in forza del quale, messo da parte il Clero, queste elezioni si affidano ai Dipartimenti della Francia, nei quali si trovano Ebrei, Eretici ed Eterodossi di vario genere? Per conseguenza, una non piccola parte di essi interverrebbe alle elezioni Vescovili, quindi ne seguirebbe ciò che altamente aborrì e non volle sopportare San Gregorio Magno, il quale in una sua lettera ai Milanesi così dichiarò: «Noi non concediamo il nostro consenso per una persona che non viene eletta dai Cattolici, e massime dai Longobardi... Poiché se si ordina uno che sia eletto da tali persone, egli si dimostra evidentemente un indegno Vicario di Sant’Ambrogio».

In questa maniera non solo si rinnoverebbero tutti i disturbi e gli scandali già da tanto tempo aboliti, ma verrebbero scelti quali Vescovi uomini che potrebbero avere per compagni e maestri della corruttela e dell’errore i loro elettori, o almeno occultamente nell’animo potrebbero coltivare sentimenti conformi a quelli di chi li elesse, come avverte San Girolamo, quando dice: «Errano talvolta la plebe e il volgo nel loro giudizio; nell’approvare i Sacerdoti favorisce ciascuno il proprio genio, e i propri costumi, e non cerca tanto di avere un buon Pastore, quanto di averlo simile a se medesimo». Da tali Vescovi poi, i quali entrassero da qualunque altra parte che non sia la porta, non si dovrebbe aspettare, anzi non si dovrebbe temere che danno per la Religione, dato che essi, impigliati nel laccio dell’inganno, non potranno mai correggere il Popolo? Certamente essi, chiunque siano, non avrebbero potestà alcuna di legare e di sciogliere, in quanto privi di legittima missione, e tosto sarebbero dichiarati fuori della comunione della Chiesa da questa Santa Sede, come sempre essa ha fatto in simili casi, e come anche al presente espressamente dichiara con pubblico Proclama a proposito di tutte le elezioni dei Vescovi di Utrecht.

Ma nel Decreto dell’Assemblea viene poi un’altra cosa che sembra anche peggiore, cioè vi si determina che i Vescovi eletti dai propri Dipartimenti si presentino al Metropolitano o al Vescovo seniore per ottenerne la conferma; nel caso in cui questi ricusasse di accordarla, si prescrive che egli debba mettere per iscritto il motivo di tale rifiuto e intanto gli esclusi possono interporre appello d’abuso dinanzi ai Magistrati civili, ai quali apparterrà il potere di giudicare sul giudizio stesso espresso dai Metropolitani o dai Vescovi, che pur sono coloro presso i quali risiede il potere di giudicare sui costumi e sulla dottrina e che, come dice San Girolamo, sono stati stabiliti per tenere lontano il Popolo dall’errore. Ma perché si vegga più manifesto quanto sia illegittimo e incompetente quest’appello ai laici, si vuol richiamare alla mente il celeberrimo esempio dell’Imperatore Costantino. Essendo concorsa molta gente a Nicea per la celebrazione del Concilio, i Vescovi credettero cosa opportuna che vi assistesse di persona l’Imperatore, e ricevesse egli medesimo le accuse contro gli Ariani. Ma l’Imperatore, ricevuti i Libelli che gli erano stati presentati, disse: «A me, che sono semplice uomo, non conviene assolutamente arrogarmi l’esame di simili cose, poiché sia gli accusatori, sia gli accusati sono Sacerdoti». Si potrebbero addurre molti altri esempi di questo genere, ma Noi non vogliamo diffonderci in una cosa così manifesta. Se si volesse produrre in contrario il comportamento tenuto dal figlio dell’Imperatore, Costanzo «nemico vero della Chiesa Cattolica», il quale si arrogava quell’autorità che suo Padre aveva confessato di non avere, è facile rilevare dalle opere dei Santi Atanasio e Girolamo quanto essi detestassero siffatto comportamento.

Infine, che altro ha inteso fare l’Assemblea con questi Decreti, se non rovesciare e ridurre al nulla il Vescovato medesimo, quasi in odio di Colui del quale i Vescovi sono Ministri? Ad essi inoltre viene per decreto assegnato uno stabile Consiglio di Preti, che debbono chiamarsi Vicari, e questi si vuole che debbano essere sedici nelle città che contano diecimila anime, e dodici dove il numero degli abitanti fosse minore. I Vescovi vengono inoltre obbligati a prendere altri aggiunti, cioè coloro che erano Parroci delle Parrocchie soppresse, e questi si debbono chiamare Vicari di Gius pieno; in forza di ciò sono esenti dalla subordinazione e soggezione a quei Vescovi a cui sono addetti. Per quanto si riferisce ai primi, sebbene se ne lasci l’elezione all’arbitrio dei Vescovi, nondimeno si inibisce a questi di procedere a qualsiasi atto di giurisdizione (fuorché provvisoriamente) senza il consenso di quelli, e non possono rimuovere nessuno di loro dal Consiglio se non a pluralità di voti del Consiglio stesso. Ma che altro è questo, se non un volere che ciascuna Diocesi venga governata dai Preti, i quali annientino la giurisdizione del Vescovo? E non si viene in questa maniera a contraddire apertamente alla Dottrina, che si legge negli Atti degli Apostoli: «Lo Spirito Santo ha costituito i Vescovi a governare la Chiesa d’Iddio acquistata da lui col proprio Sangue»? Non si sconvolge in tal guisa e non si perturba ogni ordine della sacra Gerarchia? I Preti vengono equiparati ai Vescovi: errore che fu per la prima volta insegnato dal prete Aerio, poi seguito da Wicleff, da Marsilio da Padova, da Giovanni Gianduno, e ultimamente da Calvino, giusta ciò che ha in breve raccolto Pio VI nella sua opera Sinodo Diocesano. Anzi, i Preti sono anteposti agli stessi Vescovi, giacché questi non possono rimuovere nessuno di quelli dal Consiglio, o determinare alcuna cosa se non a pluralità di voti dei Vicari soprannominati. Eppure i Canonici stessi che compongono i Capitoli legittimamente costituiti e formano il Senato delle Chiese, quando sono chiamati a Consiglio non possono dare altro voto che quello che dicesi consultivo, come dimostra Pio VI con l’autorità di due Concilii Provinciali di Bordeaux.

Quanto poi ai Vicari del secondo tipo, che vengono chiamati di Gius pieno, è davvero cosa da stupirne, e assolutamente inaudita, che i Vescovi siano tenuti a valersi dall’opera di Preti per rifiutare i quali potrebbero avere validi motivi; tali sostituti tengono il posto di coloro che non sono inabili; inoltre non stanno subordinati agli stessi Vescovi nel servizio di cui si tratta.

Ma è necessario che ci inoltriamo più avanti. Quando in codesta Assemblea si è giunti al punto di fissare una legge riguardo al governo dei seminari, quel potere che essa ha concesso ai Vescovi di eleggersi essi stessi dei Vicari dal Corpo del Clero, non lo ha lasciato loro per quanto si riferisce all’elezione dei Superiori o Rettori dei seminari, poiché vuole che questa venga fatta dal Vescovo insieme con i Vicari a pluralità di voti, e proibisce la rimozione dei detti Superiori o Rettori dalla loro carica, quando la maggior parte dei Vicari, come si disse, non vi acconsenta. Qui, chi non vede quanta diffidenza si viene in tal modo a mostrare nei confronti dei Vescovi, a cui appartiene la cura dell’educazione e della disciplina di coloro che poi si dovranno scegliere e destinare all’ubbidienza e al ministero della Chiesa? Nulla peraltro vi è di così certo ed indubitato, quanto questo: che il Vescovo è Capo e Supremo Amministratore dei seminari; e sebbene il Concilio di Trento comandi che alla Disciplina ecclesiastica degli alunni sopraintendano due Canonici, la scelta nondimeno di questi viene rimessa all’arbitrio dei Vescovi, «conforme sarà loro suggerito dallo Spirito Santo», né il Concilio li obbliga affatto a condividere il giudizio o il consiglio di detti Canonici. Presentemente, poi, quale fiducia potranno avere i Vescovi in persone non elette da loro, ma da altri, e questi forse anche appartenenti al numero di coloro che hanno giurato ubbidienza ai Decreti tanto infetti dell’Assemblea Nazionale? Per ridurre infine i Vescovi all’ultima depressione e all’universale avvilimento e compatimento, si dispone che ogni tre mesi venga loro corrisposto, quasi come a mercenari, un sì limitato assegno, che non è più loro possibile sollevare l’indigenza e la miseria dei poveri, che pur formano una gran parte del Popolo, e tanto meno sostenere il grado e il decoro della dignità vescovile. Questo nuovo assegno di congrua ai Vescovi è del tutto diverso da quello che era stato fatto in addietro ai medesimi Vescovi e Parroci in tanti fondi stabili, che essi dovevano amministrare, e dai quali dovevano ritrarre i frutti come padroni. È perciò che noi troviamo destinato anticamente alle Chiese un così detto Manso, come si legge nei Capitolari di Carlo Magno e del Re Lotario: «Vogliamo, ivi si dice, che secondo l’ordine del Signore, e Padre Nostro, si dia un podere di dodici bunnari di terreno lavorato». E poiché le doti assegnate ad alcune Mense vescovili non erano sufficienti, venivano accresciute con l’unione di fondi d’Abbazie, come spesse volte in Francia è avvenuto, ed anche durante il Nostro stesso Pontificato. Ma da ora innanzi l’assegno per il sostentamento dei Vescovi sarà in potestà dei laici che amministrano l’erario, e che potranno anche diminuire la dovuta mercede a chi si opporrà ai perversi decreti di cui si è detto. V’è di più, che essendo stato assegnato a ciascun Vescovo una determinata somma in denaro, nessuno di essi potrà più in avvenire, quando la necessità lo richieda, trovarsi un Suffraganeo, o Coadiutore, perché non avrà di che somministrargli dei frutti della sua Chiesa per il necessario mantenimento adeguato alla dignità. Per certo Noi sappiamo che la necessità di dover prendere un Coadiutore non è un caso così raro ad aversi nelle Diocesi, o per l’età troppo avanzata del Vescovo, o per la cagionevole salute. Per tale motivo un Arcivescovo di Lione chiese ed ottenne dal Papa un Suffraganeo, al quale fu assegnata la congrua sulle entrate della mensa arcivescovile.

Abbiamo veduto finora, o Diletti Figli e Venerabili Fratelli Nostri, con indicibile Nostra sorpresa che costì è stata decretata una grande modifica dei principali articoli della Disciplina ecclesiastica, in materia di soppressione, di divisione, di erezione di Sedi Vescovili e di sacrileghe elezioni dei Vescovi; abbiamo altresì veduto i molti danni che ne derivano. Non si dovrà forse dire lo stesso delle soppressioni delle Parrocchie, come Voi stessi nella vostra esposizione avete già rilevato? Ma Noi non possiamo fare a meno di aggiungere che oltre lo stupore per il fatto che è stato affidato alle Assemblee delle Province il compito di dividere le Parrocchie e fissarne i confini, come loro parrà, Ci ha sommamente sorpreso la soppressione di innumerevoli Parrocchie, dato che l’Assemblea Nazionale ha già decretato che nelle città o nei borghi ove non abitano più di seimila persone debba esservi una sola Parrocchia. E come mai potrà un solo Parroco bastare al governo spirituale di un Popolo così numeroso? In proposito Ci sembra molto opportuno riferire che avendo Gregorio IX delegato il Cardinale Corrado a presiedere un Sinodo di Colonia, ed essendo presente al Sinodo un Parroco il quale aspramente insisteva che non si lasciassero colà introdurre i Religiosi dell’Ordine dei Predicatori, il Cardinale lo interrogò: «Quanti sono i tuoi parrocchiani?». Avendogli quello risposto che erano novemila, il Cardinale sbalordito e adirato gli disse: «Chi sei tu, miserrimo, che basti a governare debitamente tante migliaia di sudditi? Non sai, sciaguratissimo fra quanti altri vi sono, che nel tremendo Giudizio tu devi dar conto di tutti questi davanti al Tribunale di Cristo? E ti lamenti se puoi avere tali Coadiutori (cioè i Frati Predicatori) i quali gratuitamente ti alleggeriscono il carico, sotto il quale senza avvedertene tu vai a perire? Poiché dunque con questa doglianza tu stesso ti sei giudicato indegno di cura d’anime, perciò ti privo di ogni pastorale beneficio». E sebbene colà si trattasse di un numero di novemila popolani, mentre qui il Decreto dell’Assemblea non ne assegna più di seimila per ciascun Parroco, chi vorrà nondimeno negare che anche un tal numero eccede di troppo le forze di un solo Parroco, e perciò necessariamente ne deriverà che molti parrocchiani resteranno privi degli aiuti spirituali, né per averli potranno ricorrere ai Regolari, che già sono stati soppressi?

Veniamo ora all’usurpazione dei beni ecclesiastici, che è l’altro errore di Marsilio da Padova e di Giovanni Gianduno, condannato da Giovanni XXII con una sua Costituzione, e molto prima dal Pontefice Bonifacio I con un Decreto riferito da parecchi scrittori. «Sia noto e manifesto a tutti che tutto ciò che viene consacrato a Dio, siano uomini, siano animali, siano terreni, o qualsivoglia altra cosa, una volta consacrato sarà sempre sacrosanto ad onore del Signore e di diritto dei Sacerdoti. Pertanto sarà inescusabile chiunque toglie, devasta, o invade le cose che competono al Signore o alla Chiesa, e fintanto che egli non si ravvederà e non darà alla Chiesa la dovuta soddisfazione, sia considerato sacrilego; se poi non vorrà emendarsi, sia scomunicato». Così determinò il VI Concilio di Toledo. Tale decreto viene illustrato da Loaise alla lettera D nel seguente modo: «Che gran delitto sia togliere o distrarre le cose donate con sincera fede dai Cristiani alle Chiese, chiaramente dimostrano molte opere di dottissimi scrittori, che ometto per amore di brevità. Aggiungerò solamente una cosa che trovo scritta nelle Costituzioni Orientali, ed è che Niceforo Foca, libro I, abolì del tutto le donazioni e i lasciti fatti ai Monasteri e alle Chiese, come pure vietò con altra legge che la Chiesa potesse arricchirsi con beni immobili, sostenendo che i Vescovi malamente gettavano ciò che distribuivano ai poveri, mentre i soldati erano in ristrettezze. Una legge sì temeraria e piena d’empietà fu tolta dall’Imperatore Porfirogenita Basilio il Giovane con un’altra legge, la quale ho creduto degna di essere qui riportata». Egli dice: «Il nostro potere discende da Dio. Avendo inteso da Monaci di pietà e virtù specchiatissima, e da molti altri, che la legge intorno alle Chiese di Dio e ai sacri Templi, o piuttosto contro le Chiese di Dio e i sacri Templi, fatta dall’allora Dominante Niceforo, il quale invase l’Impero, è stata la causa e la radice dei presenti mali e di questa universale confusione e sovversione (come fatta ad ingiuria e vituperio non solo delle Chiese e dei sacri Templi, ma anche di Dio medesimo) e massimamente avendo ciò toccato con mano per esperienza, perché dal tempo in cui quella legge è stata osservata, fino all’odierno giorno della nostra vita non è accaduto nulla di bene, ma anzi non sono mai mancate calamità e disgrazie d’ogni sorta, ordina e vuole con la presente Bolla d’oro che la predetta legge cessi da questo giorno, e da qui in poi rimanga nulla e di nessun valore, ed abbiano vigore e si osservino le altre leggi che sono state fatte intorno alle Chiese di Dio e ai sacri Templi e alle Case di Religione».

Questo fu pure l’antichissimo e costante desiderio sia della nobiltà, sia del popolo dei Franchi. Nell’anno 803 essi presentarono infatti a Carlo Magno preghiere di questo tenore: «Noi tutti genuflessi preghiamo la Maestà Vostra che i Vescovi per l’avvenire non siano vessati per causa di guerra coi nemici, ma quando Voi e noi andiamo contro i nemici, essi risiedano nelle proprie Parrocchie... Desideriamo peraltro che a Voi e a tutti sia noto che noi non domandiamo questo per desiderio che noi si abbia della loro roba o del loro denaro (quando ad essi non piaccia di farcene parte spontaneamente) o che le loro Chiese ne restino prive; ché anzi, se il Signore ci concederà di poterlo fare, desideriamo di dar loro molto di più, perché essi, e Voi e noi siamo più salvi, e meritiamo di piacere maggiormente a Dio col suo aiuto. Sappiamo bene che le cose della Chiesa sono consacrate a Dio e sono oblazioni dei Fedeli e prezzo dei peccati; pertanto se qualcuno toglie tali cose alle Chiese, alle quali sono state donate dai Fedeli e consacrate a Dio, infallibilmente commette un sacrilegio. Pertanto è cieco chi non vede codeste cose. Quindi chiunque di noi consegna cose sue alla Chiesa, le offre e le dedica a Dio Signore e ai suoi Santi, e non ad altri, dicendo così, e così facendo; perciò fa una scrittura delle cose stesse che desidera dare a Dio, e questa scrittura la tiene in mano dinanzi all’Altare, o sopra di esso, dicendo intanto ai Sacerdoti e ai Custodi di quel sacro luogo: Io offro e dedico a Dio tutto ciò che è scritto in questa carta in remissione dei peccati miei, dei genitori, dei figli... Perciò chiunque in appresso toglie tali cose, che altro fa se non un sacrilegio? Se dunque è furto il portar via qualche cosa a un amico, il defraudarla o toglierla alla Chiesa è indubitabilmente sacrilegio... Perché dunque tutte queste cose da Voi, e da noi, o dai Successori Vostri e dai nostri siano osservate per i tempi futuri senza alcuna dissimulazione, ordinate che esse vengano registrate tra le scritture ecclesiastiche, e comandate che siano messe fra i Vostri Capitoli».

A simili preci così rispose l’Imperatore: «Noi ora concediamo a tenore di quanto Ci avete domandato... Sappiamo dunque che molti Regni, e i loro Re, sono andati in rovina per questo, perché spogliarono le Chiese e devastarono, alienarono o portarono via le cose di esse; tolsero ai Vescovi e ai Sacerdoti e quel che è peggio alle loro Chiese... E perché più religiosamente queste cose si osservino in avvenire, ordiniamo che nessuno, tanto ai tempi Nostri che nei futuri, osi domandare a Noi, o ai Nostri Successori, in qualunque tempo, senza il consenso e la volontà dei Vescovi nelle cui Parrocchie sono beni di Chiese, o di invaderli, o devastarli, o in qualunque maniera alienarli. Se qualcuno farà ciò tanto ai Nostri tempi, quanto in quelli dei Nostri Successori, soggiaccia alle pene del sacrilegio, e da Noi, dai Nostri Successori, dai Nostri Giudici o Conti sia legalmente punito come sacrilego, omicida o ladro, e dai Nostri Vescovi sia scomunicato».

Ma chiunque è interessato in questa usurpazione, legga attentamente la vendetta che il Signore fece su Eliodoro e sui suoi complici che avevano tentato di rapire i tesori dal Tempio; contro loro «lo Spirito dell’Onnipotente Dio si fece vedere e conoscere chiaramente, in modo che tutti quelli che ebbero il coraggio di ubbidire ad Eliodoro, rovesciati a terra per divina virtù, rimasero privi di forze e pieni di spavento. Infatti apparve loro un cavallo, che portava un terribile cavaliere, magnificamente vestito; quello diede furiosamente dei calci coi piedi anteriori ad Eliodoro; il cavaliere che lo montava pareva avesse armi d’oro. Comparvero ancora due altri giovani di virile beltà, maestosi, ornati di vaghe vesti, i quali, stando l’uno da un lato, l’altro dall’altro, accanto ad Eliodoro, lo battevano senza pausa, dandogli molte sferzate. Eliodoro improvvisamente cadde per terra; avvolto com’era da densa caligine, lo pigliaron di peso e in una sedia portatile lo misero fuori»: così si legge nel secondo Libro dei Maccabei. Eppure si trattava di danaro che non serviva per le occorrenze dei Sacrifici, né proprio era del Tempio, ma ivi si conservava per sicurezza a sostentamento dei pupilli, delle vedove, e di altri; nondimeno, tenuto conto della violata maestà e santità del Tempio, e della usurpazione dell’altrui roba, il Signore inflisse una pena così grave su Eliodoro e i suoi compagni. Atterrito da questo esempio, l’Imperatore Teodosio desistette dal mettere le mani sul deposito di una vedova, che veniva custodito nella Chiesa di Pavia, come racconta Sant’Ambrogio.

E qui chi saprà mai persuadersi che mentre vengono occupati i beni delle Chiese e degli Ecclesiastici Cattolici, per contro i fondi dei Protestanti, fondi che essi avevano invaso quando si ribellarono contro la Religione, vengono preservati in nome delle Convenzioni? Cioè, presso l’Assemblea Nazionale hanno avuto valore le Convenzioni fatte con i Protestanti, ma non l’hanno avuto affatto le Sanzioni canoniche e i Patti di questa Santa Sede col Re Francesco I; si è voluto compiacere ai Protestanti in una materia in cui si rovinava il Sacerdozio di Dio. Ma chi non comprende che in questa occupazione dei beni ecclesiastici, fra le altre cose si ha in animo e si persegue lo scopo di profanare i sacri Templi, di rendere i ministri della Chiesa spregevoli a tutti, e di dissuadere altri in avvenire dallo scegliere il divino ministero? Infatti, non appena si è cominciato ad usurpare i beni ecclesiastici, subito è seguita l’abolizione del culto divino, si sono chiusi i Templi, rimosse le sacre suppellettili, e si è fatto cessare nelle Chiese il canto dei divini uffici. Fino ad ora la Francia aveva potuto vantarsi che fossero stati in fiore i Collegi, o Capitoli dei Chierici Secolari, già fin dal VI secolo, come si può vedere presso Gregorio di Tours, e come risulta da altri documenti riferiti dal Mabillon negli antichi Analecti, e dal Concilio III d’Orléans tenuto nell’anno 538. Ma adesso la Francia medesima è costretta a deplorarne l’abolizione, che con tanta ingiustizia e indegnità è stata determinata dall’Assemblea Nazionale. La principale occupazione dei Canonici era di cantare assieme, ogni giorno, nelle Chiese le divine lodi, come si apprende dalle Vite dei Vescovi di Metz presso Paolo Diacono, ove si legge «che il Vescovo Crodegando comandò che il Clero, ammaestrato benissimo nella legge divina e nel canto romano, osservasse le usanze e il rito della Chiesa Romana».

Quando l’Imperatore Carlo Magno trasmise al Papa Adriano I un’opera intorno alle sacre immagini per sottoporla al suo esame, il Pontefice si valse di questa opportunità per esortarlo a far sì che molte Chiese di Francia, le quali un tempo rifiutavano di uniformarsi alla tradizione della Sede Apostolica nel salmeggiare, l’abbracciassero con ogni premura ed esattezza per essere in questo modo conformi alla stessa Sede nel salmeggiare, come le erano conformi nel credere. Le parole di Carlo Magno, che sono piuttosto diffuse, si possono leggere presso il Giorgi nell’opera Liturgia del Romano Pontefice. Il medesimo Imperatore volle inoltre che nel Monastero Centulese si istituisse una scuola di cantori simile a quella che istituì in Roma San Gregorio Magno, e vi si mantenessero cento giovanetti, i quali, divisi in tre cori, servissero ai Monaci in aiuto al salmeggiare e al cantare. Ed è certo – come recentemente è stato confermato dal monaco Colomanno Sanfel, bibliotecario nel Monastero di Sant’Emmerano di Ratisbona in una sua Dissertazione (a Noi dedicata) sopra un prezioso ed antichissimo Codice Evangeliario manoscritto del medesimo Monastero – che «fino dai primi tempi i Vescovi Francesi e Spagnoli curarono con gran premura che in ogni Provincia si osservasse un Rito uniforme nei Divini Uffici. Esistono vari Decreti intorno a ciò tanto presso i Francesi, che presso gli Spagnoli. Insigne è fra le altre una Costituzione del Concilio IV di Toledo (tenuto nell’anno 531), i cui Padri, dopo aver esposto ciò che è da credersi per fede cattolica, nessun’altra cosa ebbero maggiormente a cuore quanto d’introdurre una maniera uniforme di salmeggiare» (Vedasi il Canone 2). Questo così antico Rito viene indicato anche dal Mabillon nella sua disquisizione De cantu Gallicano.

Dunque, fino dai più antichi secoli la Chiesa Gallicana si adoperò tanto per introdurre il canto e stabilirlo, affinché i suoi Ecclesiastici costituiti nel grado di Canonici decorosamente si impiegassero nei Sacri Uffici, e perché i fedeli attratti da sì decorose funzioni accorressero maggiormente alle Chiese per contemplare i divini Misteri e ottenere la riconciliazione con Dio mediante la sua grazia. Al presente, l’Assemblea Nazionale col suo Decreto, non senza grave scandalo di tutti, ha improvvisamente tolto, atterrato e abolito tutto ciò, seguendo in questa parte (come in tutti gli altri articoli del Decreto) le massime degli Eretici, e particolarmente i deliri dei Wicleffisti, dei Magdeburghesi Centuriati e di Calvino, i quali tutti si sono scagliati con furore contro l’antichità e l’uso del canto ecclesiastico; ampiamente li confuta il P. Martino Gerbert, Abate del Monastero e della Congregazione di San Biagio della Selva Nera, il quale quando nell’anno 1782 Noi andammo per motivi di Religione a Vienna, fu più volte da Noi, e si dimostrò persona ben meritevole dell’insigne credito e della fama che si è universalmente acquistati.

Ma gli autori del Decreto debbono attentamente riflettere a ciò che nel Sinodo di Arras dell’anno 1025 storicamente e dogmaticamente viene pronunziato contro i nemici della salmodia ecclesiastica, perché si ricoprano di sempre maggiore confusione: «Chi può dubitare che Voi non siate agitati dallo spirito immondo, mentre ciò che è stato promulgato e istituito per ispirazione dello Spirito Santo, vale a dire l’uso di salmeggiare nella Santa Chiesa, lo rigettate, e quasi fosse un culto superstizioso lo imputate ad errore? L’Ordine Ecclesiastico ha preso questa forma di salmeggiare non già da ridicole o giocose costumanze, bensì dai Padri dell’Antico e Nuovo Testamento... Onde è ben chiaro che debbono essere cacciati dal grembo di Santa Chiesa coloro i quali giudicano che questa maniera di salmeggiare non appartenga al culto divino... Manifesta cosa è dunque che questi tali non discordano dal loro capo, cioè dal diavolo, il quale è capo di tutti gl’iniqui, ed avendo ben cognizione della Santa Scrittura tenta di rovesciarla a forza di sinistre interpretazioni». Per ultimo se in codesto Regno cadranno il decoro e il culto della Casa di Dio, ne deriverà per necessaria conseguenza che diminuirà il numero degli Ecclesiastici, e succederà ciò che Sant’Agostino dice essere accaduto al Popolo Ebreo: «Il quale, dappoiché cominciò a non aver più profeti, diventò indubbiamente peggiore, proprio in quel tempo in cui sperava di divenire migliore».

Proseguendo ora il cammino iniziato, veniamo agli stessi Regolari, i cui beni l’Assemblea Nazionale si è attribuita, sotto un titolo però meno odioso, cioè per potersi servire delle loro entrate: il che, peraltro, in realtà, quanto poco si discosta dalla vera proprietà di dominio! Col Decreto cioè del 13 febbraio 1790, confermato dopo sei giorni con la Regia Sanzione, furono soppressi tutti gli Ordini dei Regolari, con proibizione altresì che se ne ammettessero altri in avvenire. Ma di quanta utilità siano alla Chiesa tali Istituti, lo deduce dalla stessa esperienza il Concilio di Trento: «Poiché il Santo Concilio non ignora quanto di splendore e di vantaggio ridondi nella Chiesa di Dio dai Monasteri piamente fondati e bene a dovere governati». Invero gli Ordini dei Regolari furono con somme lodi celebrati da tutti i Padri della Chiesa, e fra questi massimamente da San Giovanni Crisostomo, il quale contro gli oppositori dei Religiosi scrisse tre interi libri pieni di forza e di energia. E dopo che San Gregorio Magno ebbe ammonito l’Arcivescovo di Ravenna, Mariniano, «Che non facesse aggravio alcuno a danno dei Monasteri, ma li dovesse difendere, e con ogni suo mezzo accrescerli di Religiosi», convocò un Concilio di Vescovi e di Preti e in esso fece questo Decreto: «Che nessuno dei Vescovi o dei Secolari osi in avvenire, trattandosi di entrate, di robe, o carte dei Monasteri, di celle, o di ville, che ad essi appartengono, operarne la minima diminuzione in qualunque maniera, o in qualsivoglia occasione, o per frode, o di fare alcun atto violento per occuparle». Sorse poi nel secolo XIII Guglielmo del Santo Amore, il quale con un libro intitolato Dei pericoli degli ultimi tempi si adoperò con il maggior impegno per dissuadere le persone dal convertirsi e dall’abbracciare lo stato religioso: ma questo libro, essendo stato esaminato dal Pontefice Alessandro IV, fu definito iniquo, scellerato, esecrabile e indegno.

Contro il suddetto Guglielmo scrissero, e lo confutarono, i due Dottori della Chiesa San Tommaso d’Aquino e San Bonaventura. E poiché questa medesima condannata opinione fu rinnovata da Lutero, soggiacque anch’egli alla condanna che ne fece il Pontefice Leone X. Parimenti in uno dei Concilii di Rouen dell’anno 1581 i Vescovi furono esortati a difendere i Regolari che servivano loro di sussidio, ad averli cari, e a sostentarli come loro coadiutori, a considerare tutte le ingiurie ed offese fatte ad essi come proprie e a cercare di preservarli. Saranno sempre memorabili i pii desideri di San Ludovico IX Re di Francia, il quale aveva in animo che i due figliuoli nati nel tempo della spedizione d’Oriente, giunti che fossero agli anni della ragione, venissero educati in Monastero, uno presso i Domenicani, l’altro presso i Frati Minori, affinché fossero istruiti nei sacri studi, e s’innamorassero della pietà e della religione, ardentemente sperando che ammaestrati con salutari insegnamenti, ove fosse piaciuto al Signore di chiamarli, a suo luogo e tempo si facessero religiosi in quegli Istituti. Recentemente gli autori dell’opera intitolata Nuovo Trattato di Diplomatica, nel confutare i nemici delle esenzioni dei Regolari, hanno così esclamato: «Quale attenzione possono dunque meritarsi le declamazioni che fa lo storico del Diritto pubblico Ecclesiastico Francese, contro i privilegi accordati ai Monasteri? Privilegi, egli dice, ed esenzioni che non si sono potuti accordare senza rovesciare la Gerarchia, senza ledere i diritti del Vescovato, e che sono veri abusi, e ne hanno prodotto dei molto rilevanti? Che temerità è questa d’inveire in tal guisa contro una disciplina così antica, e così autorizzata nella Chiesa, e nello Stato!».

Noi non vogliamo, e nessuno deve meravigliarsi, che presso alcuni Regolari possa essersi intiepidito talvolta, e illanguidito, lo spirito dei loro Istituti, e che essi non mantengano l’antica osservanza della disciplina loro prescritta. Ma per questo sono da abolire quegli Ordini Religiosi? Si ascolti in proposito la risposta data da Giovanni de Polemar nel Concilio di Basilea a Pietro Bayne che inveiva contro dei Regolari. Egli non negò che vi fossero fra i Regolari alcune cose meritevoli di riforma; aggiunse però che «sebbene presentemente le Religioni abbiano bisogno di riforma in molti punti, come l’avrebbero anche altri gruppi, nondimeno i Religiosi illustrano assai la Chiesa con le prediche e con la dottrina; nessuno che sia saggio, trovandosi in luogo oscuro, spegne la lucerna perché non fa lume chiaro, ma procura di eliminare quella parte di lucignolo che è arsiccia e impedisce il lume, e cerca di rassettare la lucerna meglio che può, perché infine è meglio che faccia un lume alquanto torbido, piuttosto che se fosse del tutto spenta». Tale ragionamento trae certo origine dall’altro che Sant’Agostino aveva tanto prima espresso con queste parole: «È forse da trascurare la medicina per questo, perché il malore di alcuni si è fatto insanabile?».

Pertanto, l’abolizione dei Regolari, che l’Assemblea Nazionale, plaudendo ai capricci degli Eretici, ha decretato, viene a ledere uno stato in cui si fa pubblica professione dei Consigli Evangelici, e un sistema di vita approvato dalla Chiesa come conforme alla dottrina degli Apostoli, e viene a ledere gli stessi insigni Fondatori, da Noi venerati sugli altari, i quali non senza divina ispirazione istituirono tali Ordini. Ma l’Assemblea Nazionale avanza anche più oltre, e con un suo Decreto del 13 febbraio 1790 stabilisce di non più riconoscere i voti solenni dei Religiosi, e per conseguenza dichiara che gli Ordini e le Congregazioni Religiose in cui si fanno tali voti s’intendono soppressi nella Francia, restino soppressi, né in avvenire possano mai essere ricostituiti. Ciò, che altro è se non mettere le mani sui voti maggiori e perpetui, e abolirli, il che appartiene soltanto all’Autorità Pontificia? «I voti maggiori poi, dice San Tommaso, cioè di continenza ecc. sono riservati al Sommo Pontefice». E siccome si tratta di una promessa fatta solennemente a Dio per nostro vantaggio, nel salmo 75 si legge: «Fate voti, e adempiteli per il Signore Dio Vostro» (Sal 75,12), e nell’Ecclesiaste: «Se tu hai fatto qualche voto a Dio, non tardare ad adempierlo, poiché a lui dispiace un’infedele e stolta promessa; ma adempi tutto ciò di che avrai fatto voto» (Qo 5,3-4).

Inoltre, anche il Sommo Pontefice medesimo, quando indotto talvolta da particolari ragioni stima di dover concedere dispensa dai voti solenni, in ciò stesso non procede per proprio arbitrio, ma attraverso una dichiarazione. Né qui deve destare meraviglia alcuna che Lutero abbia insegnato «non doversi mantenere i voti che si sono fatti al Signore» dato che egli stesso fu un apostata e un disertore della sua Religione. Ma ad evitare ogni rimprovero e contestazione, a cui prevedevano di andare incontro, i membri dell’Assemblea Nazionale, in vista di tanti Religiosi dispersi, hanno ritenuto cosa saggia (nella loro mente) togliere ai Regolari, come di fatto lo hanno tolto, l’abito della loro professione, affinché non rimanesse alcun segno esterno dello stato anteriore da cui sono stati rimossi, e venisse abolita perfino la memoria dei loro Istituti. Gli Ordini dunque sono stati soppressi, tanto per invadere i loro beni, quanto perché non vi fosse più alcuno il quale trattenesse i popoli dall’errore e dalla scostumatezza. Questo artificio tanto reo e pestifero è descritto al vivo e condannato nel Concilio di Sens, che lodammo all’inizio: «Alle persone monastiche e ad altre obbligate ai voti lasciano tutta la libertà di vivere a capriccio, accordano loro la facoltà di deporre il velo, di gettar via la cocolla, di ritornare al secolo, e di apostatare, tentando ogni strada per togliere vigore ai Decreti dei Romani Pontefici, e anche alle Lettere Decretali e ai Canoni dei Concilii».

A quanto abbiamo ora detto circa i voti dei Religiosi bisogna aggiungere l’inumana sentenza proferita contro le sacre vergini, di rimuoverle cioè dai loro Chiostri, come fece Lutero, il quale (per usare le espressioni di Adriano VI) «non temette di contaminare quei vasi dedicati a Dio, e di estrarre dai loro Monasteri le vergini consacrate a Gesù Cristo, che avevano professato la vita monastica, e di restituirle al mondo, anzi al demonio, cui avevano prima abiurato». Eppure le monache (che sono poi la parte più illustre del Gregge Cattolico) spesso con le loro preghiere hanno tenuto lontani dalle città disastri gravissimi, come ricorda San Gregorio Magno essere avvenuto ai suoi tempi in Roma: «Se non ci fossero le vergini religiose, nessuno di noi avrebbe potuto sopravvivere per tanti anni in questo luogo tra le spade dei Longobardi». E Pio VI, parlando delle sue monache di Bologna, confessa «che quella Città già da molti anni oppressa sotto tante disgrazie non avrebbe potuto sussistere, se l’ira divina non fosse stata in parte placata dalle continue, fervorose orazioni delle nostre Religiose».

Intanto le Monache, che in Francia sono adesso nella massima desolazione, Ci destano in cuore gli affetti della più tenera pietà, massime che una gran parte di esse da tutte codeste Province Ci hanno significato con lettere il proprio affanno, perché viene loro impedito di perseverare nei propri Istituti e di osservare i voti solenni; insieme Ci hanno dichiarato di essere determinate e risolutissime a sottoporsi e a soffrire qualunque aspra cosa, piuttosto che recedere dalla loro vocazione. Quindi, o Diletti Figli e Venerabili Fratelli Nostri, non possiamo fare a meno di testimoniarvi nella più ampia maniera la loro costanza e fortezza, e di pregarvi con le più calde istanze a volerle animare con le vostre esortazioni e a porgere loro altresì, per quanto vi è possibile, ogni soccorso.

Noi potremmo ora proseguire l’esame di altri articoli che sono contenuti in quel Decreto dell’Assemblea, poiché dal principio fino alla fine può quasi dirsi non esservi cosa da cui non ci si debba guardare e che non sia da criticare. Inoltre i concetti di quel Decreto sono tra loro così connessi e collegati che a stento ve n’è qualcuno esente dal sospetto d’errore. Ma mentre già avevamo esposto gli assurdi e gli errori principali che esso contiene, Ci accadde di leggere nei pubblici Fogli, contro ogni aspettativa, che il Vescovo d’Autun aveva prestato il suo giuramento a tenore di quel Decreto. Fummo colpiti da tanto dolore, al punto da essere costretti, per il gravissimo affanno, ad interrompere ciò che vi scriviamo. Non può credersi a qual colmo crescesse l’afflizione Nostra, «in modo che non cessarono gli occhi Nostri di piangere, giorno e notte», al vedere come quel Vescovo si è disgiunto e separato dagli altri colleghi suoi, e finora egli solo fra tutti ha chiamato Iddio in testimonio dei propri errori. E sebbene egli si sia adoperato per difendersi e discolparsi in quel solo articolo che riguarda la diminuzione delle Diocesi, e la traslazione dei Popoli ad altre Diocesi, con la mira di eludere e farvi stare gl’ignoranti, si è avvalso, ma assolutamente fuori di proposito, del paragone d’un intero Popolo il quale, per motivo di pubbliche calamità o d’altra necessità urgente, venga costretto dalla potestà civile a passare da una ad un’altra Diocesi. Ma questi due esempi sono tra loro diversissimi; perché quando un Popolo esce dalla sua Diocesi per passare ad un’altra, il Vescovo di quella a cui passa esercita entro i confini della sua Diocesi la propria ordinaria giurisdizione sopra nuovi abitanti: giurisdizione che non gli viene data dalla potestà civile, ma dal suo proprio diritto, essendo cioè di diritto che tutti coloro che abitano nella Diocesi per ragione di domicilio e di abitazione appartengono a quel Vescovo, nella cui Diocesi stanno. E se accada che il Vescovo di quella Diocesi dalla quale il Popolo passa altrove, rimanga senza sudditi, non sarà mai per questo che un Pastore senza gregge cessi di essere Vescovo, o quella Chiesa perda il titolo di Cattedrale; ma tanto il Vescovo quanto la Chiesa conservano i loro diritti di Vescovato e di Cattedralità, come avviene delle Chiese occupate o dai Turchi o da altri infedeli, le quali spesse volte si conferiscono a Vescovi titolari. È tutto al contrario quando i confini delle Diocesi vengono cambiati in maniera che al completo, o parte di esse, vengono tolte al Vescovo cui appartengono e trasferite sotto un altro. In tal caso, per certo, ove non intervenga la legittima autorità della Chiesa, non può quel Vescovo, a cui si toglie o interamente o in parte la Diocesi, abbandonare il gregge che è stato a lui affidato, e l’altro Vescovo, a cui viene illegittimamente accresciuta la nuova Diocesi, non può mettere le mani nella Diocesi altrui e assumersi il governo delle altrui pecorelle. Infatti la missione canonica e la giurisdizione che ha ciascun Vescovo sono rinchiuse fra determinati confini, né potrà mai l’autorità civile far sì che quelle o si estendano più largamente o si restringano entro più angusti confini.

Niente dunque di più insulso si poteva immaginare che il paragone recato tra il passaggio di un Popolo a una Diocesi altrui, e il nuovo cambiamento delle Diocesi e dei loro confini. Nel primo caso il Vescovo esercita quella giurisdizione che egli ha per proprio diritto nella sua Diocesi; all’opposto nel secondo caso il Vescovo estende quella giurisdizione che egli non può avere per conto di nessuno nella Diocesi altrui. Quindi è che nel giuramento prestato dal Vescovo di Autunni Noi non troviamo alcuna cosa con cui egli possa in senso cattolico discolparsi dall’empietà. Tra le condizioni che si richiedono perché sia lecito il giuramento, le principali sono che esso sia vero e giusto. Ma qui, dove può essere la verità, dove la giustizia, mentre dai principi sopra addotti appare chiaro che non vi è alcuna cosa che non sia falsa ed ingiusta? Né potrà il Vescovo di Autun in modo alcuno scusarsi dicendo che egli così operò per sconsideratezza e precipitazione. Non si prestò forse dopo riflessione e con animo deliberato al giuramento egli, che pur si studiava di sostenerlo con false ragioni, che aveva già saputo qual era il sentimento degli altri Vescovi (i quali con dottrina e religioso zelo impugnavano il Decreto dell’Assemblea) e che non poteva non avere davanti agli occhi l’altro giuramento assolutamente contrario da lui prestato nella sua tuttora recente Consacrazione? Pertanto si deve dire fuor d’ogni dubbio che egli si è fatto reo di un volontario e sacrilego spergiuro contro i dogmi della Chiesa e i suoi indiscutibili diritti.

E qui riteniamo essere molto a proposito il ricordare ciò che avvenne in Inghilterra al tempo di Enrico II. Egli aveva fatto un Decreto consimile, steso peraltro in più concise e brevi parole, in forza del quale, abolendo la libertà della Chiesa Anglicana, veniva ad arrogare a se stesso i diritti del Primato. Nel proporre il Decreto ai Vescovi comandò che prestassero il giuramento a tenore della formula, cioè sulle antiche, come egli le chiamava, Costituzioni del Regno. Essi non rifiutarono, ma nel giurare aggiunsero questa clausola «Salvo l’Ordine proprio». Questa clausola non piaceva al Re, il quale diceva «che sotto quelle parole “Salvo l’Ordine proprio”, stava il veleno, e che esse erano poste con maliziosa frode». Ordinò dunque ai Vescovi che «assolutamente, e senza alcuna aggiunta, promettessero di osservare le Regie Consuetudini». Quantunque fossero rimasti costernati e colpiti da tale risposta, tuttavia erano spinti ad opporvisi dall’Arcivescovo di Canterbury, poi Martire San Tommaso, il quale veniva a ciò confortato dal Sommo Pontefice, ed esortato a stare costante nel suo dovere di Pastore. «Ma siccome di giorno in giorno si facevano maggiori le vessazioni ed i mali, alcuni Vescovi, recatisi presso l’Arcivescovo, lo scongiurarono perché avesse pietà di se stesso e del Clero, per non dovere soggiacere egli al carcere, ed il Clero allo sterminio. L’uomo, d’invitta costanza e ancorato alla pietra di Cristo, per nulla addolcito dalle lusinghe e per nulla scosso dai terrori, mosso finalmente a compassione più del Clero che di se stesso, viene distaccato dal grembo della verità e dal seno della madre». Dopo di lui giurarono gli altri Vescovi. Ma l’Arcivescovo, resosi poi conto dell’errore compiuto, fu preso da così alto dolore, che gemendo e sospirando esclamò: «Come mi pento di ciò che ho fatto! Inorridisco altamente del mio eccesso, e mi reputo indegno di accostarmi da qui avanti nel Ministero di Sacerdote dinanzi a quel Dio, della cui Chiesa ho fatto così vile traffico. Tacerò dunque, sedendo pieno di tristezza, fin tanto che mi visiti il Signore dall’alto, e io sia fatto degno d’essere assolto dallo stesso Dio e dal Sommo Pontefice. Già mi pare di vedere costretta, per i miei peccati, a misera servitù la Chiesa Anglicana, che i miei Predecessori, fra tanti e così gravi pericoli ben noti al mondo, sostennero con tanta prudenza, e a favore della quale combatterono con tanto coraggio in mezzo ai suoi nemici, e trionfarono con tanta gloria. Purtroppo quella che prima di me è stata Signora, sarà ridotta allo stato di ancella per colpa mia. Fossi pur io morto, cosicché occhio d’uomo non mi vedesse».

Subito dopo Tommaso scrisse una lettera al Pontefice; gli rivelò la propria piaga e, cercandone la medicina, lo supplicò di assolverlo. Il Pontefice, sapendo che Tommaso aveva prestato giuramento non per propria malvagia volontà, ma per una improvvida compassione, mossosi a giusta pietà, con la pienezza dell’Autorità Apostolica l’assolse. Tommaso ricevette la lettera del Pontefice come se gli fosse venuta dal Cielo, e non cessò di ammonire il Re con dolcezza e con forza, prospettandogli tali cose che avrebbero dovuto meritatamente trattenere il Principe dal continuare a danneggiare la Chiesa. Il Re, avvertito frattanto che Tommaso aveva revocato la promessa fatta, scrisse al Pontefice chiedendogli che gli accordasse due cose: la prima, che le Regie Consuetudini venissero approvate in Roma; la seconda, che la prerogativa della legazione Apostolica venisse trasferita dalla Chiesa di Canterbury a quella di York. La prima domanda fu rigettata dal Pontefice, come si apprende dalle lettere che furono dirette a Tommaso; la seconda fu ammessa, «salvo il decoro dell’Ordine Ecclesiastico»; con lettere apostoliche scritte al Vescovo di York fu comandato a questi di astenersi dal compiere atti di giurisdizione nella Provincia di Canterbury e di non alzare la Croce colà. Successivamente Tommaso fuggì in Francia, e di là a Roma, dove, accolto cortesemente dal Pontefice, gli presentò uno scritto in cui si leggevano le Regie Consuetudini espresse in sedici capitoli; queste, esaminate, vennero respinte. Tornato finalmente in Inghilterra, Tommaso se ne andò intrepido al supplizio, e memore del divino comando «Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua Croce e mi segua», aprì la porta della Chiesa ai soldati, e caldamente raccomandando se stesso a Dio, alla Beata Vergine e ai Santi tutelari della sua Chiesa, ferito con più colpi nel capo morì in difesa della legge di Dio e della libertà della Chiesa, riportando la palma di un glorioso martirio. Abbiamo ricavato queste notizie dagli Annali della Chiesa Anglicana dell’Arfold.

Chi da tutto questo non rileva ben tosto essere fra loro somigliantissimi quanto ha fatto l’Assemblea Nazionale e l’operato di Enrico II? L’Assemblea Nazionale emanò dei Decreti con i quali arrogò a sé l’autorità ecclesiastica; essa obbliga tutti a prestare il giuramento, massime i Vescovi e gli altri Ecclesiastici; viene trasferito in lei medesima quel giuramento che i Vescovi prestano al Romano Pontefice. Sono stati occupati i fondi ecclesiastici, come lo furono da Enrico: di essi, pertanto, San Tommaso chiedeva insistentemente la restituzione. Ad un simile Decreto il Re Cristianissimo è stato costretto ad apporre la propria approvazione. Finalmente venne presentata all’Assemblea Nazionale una dichiarazione con cui i Vescovi, distinguendo i Diritti Civili dagli Ecclesiastici, dichiaravano di riconoscere i primi e di essere pronti ad osservarli, ad esclusione del resto come di cosa che oltrepassa l’autorità e il potere dell’Assemblea, comportandosi come quei valorosi soldati cristiani che militavano sotto Giuliano Apostata e che sono celebrati da Sant’Agostino con queste parole: «Giuliano fu un Imperatore infedele, fu un apostata, fu un iniquo idolatra. I soldati di Cristo servirono a un Imperatore infedele; ma quando si trattava della causa di Cristo, non riconoscevano altro Sovrano se non quello che era in Cielo. Se Giuliano comandava loro di adorare e di incensare gli idoli, anteponevano al suo comando quello di Dio; se poi diceva: schieratevi armati e andate contro quella Nazione, ne ubbidivano ben tosto i cenni; distinguevano cioè il Signore eterno dal Signore temporale». Nondimeno l’Assemblea Nazionale rigettò anche questa dichiarazione, come Enrico II aveva ricusato di ammettere la sopra riferita clausola «salvo l’Ordine proprio». Dal primo capo fino all’ultimo concordano pienamente gl’iniqui tentativi dell’Assemblea Nazionale e del Re Enrico.

Ma codesta Assemblea non solo ha imitato Enrico II, ma anche l’Ottavo, il quale avendo usurpato a proprio favore il Primato della Chiesa Anglicana, ne trasferì tutto il potere a Cromwell, seguace di Zuinglio, e lo dichiarò suo Vicario generale nelle cose spirituali, affidando a lui la visita di tutti i Monasteri del Regno. Questi poi ne diede l’incarico nella sua Provincia a Cranmer, suo strettissimo amico e del suo stesso pensiero, usando intanto ogni mezzo perché venisse stabilito questo Primato ecclesiastico del Re, e si riconoscesse in lui tutto quel potere che dal Re del Cielo Cristo Signore era stato dato e affidato alla sola ed unica Chiesa. Si eseguivano le visite dei Monasteri, e queste consistevano nella loro soppressione e nel sacrilego saccheggio dei beni ecclesiastici; nel tempo stesso si cercava di sfogare l’odio contro il Romano Pontefice e di soddisfare al desiderio dell’altrui roba, e all’avarizia. Come allora Enrico VIII finse che la formula del giuramento proposta dai Vescovi non altro importasse che una civile, secolare ubbidienza e fedeltà, quando peraltro nei fatti veniva a comprendere l’abolizione dell’Autorità Pontificia, così al presente il partito maggiore dell’Assemblea Nazionale di Francia nell’assegnare a quel suo Decreto il titolo «Sopra la Costituzione Civile del Clero» ha realmente abrogato tutta la potestà del Capo della Chiesa, vietando ai Vescovi di avere con Noi qualsiasi rapporto, se non il solo di avvertirci di quanto è già stato fatto e compiuto senza il Nostro intervento. Chi non giudicherà che quei membri dell’Assemblea non abbiano avuto in mente, e si siano proposti di adottare nella loro Costituzione i Decreti dei Re d’Inghilterra Enrico Secondo, ed Ottavo? Poiché, diversamente, come mai avrebbero potuto usare la medesima ed espressa forma di quelli? Con una differenza tuttavia: che i recenti Decreti sono alquanto peggiori di quelli antichi.

Ma dopo aver già compiuto il confronto di ciò che fecero i due Enrico e l’Assemblea Nazionale, verremo ora a fare parimenti il confronto fra il Vescovo di Autun e gli altri Colleghi suoi. Per non stancarci nel seguire tutto minutamente, basterà tener sotto l’occhio il Decreto stesso dell’Assemblea, sulle cui parole egli ha prestato il giuramento senza alcuna eccezione. In questo modo sarà più facile giudicare del diverso credito da dare al Vescovo di Autun e agli altri Vescovi. Questi, camminando senza macchia nella via della legge del Signore, hanno dimostrato una somma fermezza d’animo nel mantenere il Dogma e la Dottrina dei loro Predecessori, nello stare uniti alla prima Cattedra di Pietro, nell’esercitare e sostenere i loro Diritti, nell’opporsi alle novità, nell’aspettare la Nostra risposta, da cui poter conoscere come comportarsi. La voce di tutti loro è stata una sola, e una sola la confessione, come una sola è la Fede, una sola la tradizione, una sola la disciplina. Noi per verità siamo sorpresi nel vedere che da tali esempi e dal comportamento dei Vescovi, quello di Autun non è rimasto affatto colpito. Un simile confronto lo fece ai suoi tempi il vescovo di Meaux, Bossuet, autore presso voi celeberrimo e per nulla sospetto) fra i due Tommasi, cioè l’Arcivescovo di Canterbury l’uno, l’altro il Cranmer; questo confronto da lui fatto stimiamo bene inserirlo qui, appunto perché chiunque leggerà queste cose, vegga quanto il caso è simile al Nostro d’adesso. «San Tommaso di Canterbury resistette a iniqui Monarchi; Tommaso Cranmer prostituì loro la sua coscienza e lusingò le loro passioni. Quegli, bandito, privato dei suoi beni, perseguitato nei parenti e nella sua propria persona, afflitto in ogni maniera, comprò la gloriosa libertà di dire la verità come egli la credeva, con un coraggioso disprezzo della vita, e di tutti i propri comodi. L’altro, per piacere al suo Principe, passò la vita in una vergognosa simulazione, e operò sempre contro la propria fede. Quegli combatté fino al sangue per i più piccoli diritti della Chiesa, e sostenendo le sue prerogative, tanto quelle acquistatele da Gesù Cristo con il suo sangue, quanto quelle donatele dalla pietà dei Re, egli difese anche la parte esterna della Santa Città. Questi consegnò ai Re della terra il più intimo deposito, la parola, il culto, i Sacramenti, le chiavi, l’autorità, le censure, la fede stessa: tutto infine fu messo sotto il giogo, ed essendo stata riunita al Trono Reale tutta la potestà ecclesiastica, non rimase alla Chiesa altra forza e potere che quanto piace al secolo di lasciarle. Quegli, infine, sempre intrepido e sempre pio nel corso della sua vita, lo fu anche maggiormente nell’ora estrema. Questi, sempre debole e sempre tremante, lo fu più che mai nell’avvicinarsi alla morte; all’età di sessantadue anni sacrificò a un miserabile resto di vita la sua fede e la sua coscienza. Così egli non ha lasciato che un nome odioso fra gli uomini, e tale che nel suo stesso partito per scusarlo ricorrono a ingegnosi raggiri, che sono smentiti dai fatti. Ma la gloria di San Tommaso di Canterbury vivrà quanto la Chiesa, e le sue virtù, ammirate a gara dalla Francia e dall’Inghilterra, non saranno dimenticate giammai».

Ma è motivo di maggior stupore come il Vescovo di Autun non rimanesse colpito dalla dichiarazione che fece il Capitolo della sua Cattedrale il I dicembre dell’anno scorso, e come non arrossisse di essersene tirato addosso il biasimo e di dover prendere istruzione dal suo Clero, al quale era stato parificato: dal suo Clero al quale avrebbe dovuto essere di guida nell’esempio e nella dottrina. In quella sua dichiarazione il Clero di Autun, richiamandosi agli autentici principi della Chiesa, inveisce in questo modo contro gli errori contenuti nel Decreto: «Il Capitolo d’Autun dichiara: 1. di aderire formalmente all’esposizione dei principi sulla Costituzione del Clero data dai Vescovi deputati all’Assemblea Nazionale il 30 ottobre passato. Dichiara: 2. che senza mancare ai doveri della sua coscienza non può partecipare né direttamente né indirettamente all’esecuzione del piano della nuova Costituzione del Clero, e specialmente a ciò che riguarda la soppressione delle Chiese Cattedrali, e che in conseguenza esso continuerà le sue funzioni sacre e canonicali, come pure l’adempimento delle numerose fondazioni, di cui la sua Chiesa è gravata, finché sia ridotto all’assoluta impossibilità di soddisfarle. Dichiara: 3. che come conservatore dei beni e dei diritti del Vescovato, e in virtù della giurisdizione spirituale che è devoluta alle Chiese Cattedrali durante la vacanza del seggio episcopale, non può acconsentire ad alcuna nuova circoscrizione che venga fatta della Diocesi di Autun dalla sola autorità temporale».

Intanto non vogliamo che il Vescovo di Autun e chiunque altro lo abbia seguito nello spergiuro ignorino che i Vescovi intervenuti al Concilio di Rimini, ingannati dall’equivoca e fraudolenta formula inventata dagli Ariani e atterriti anche dalle minacce dell’Imperatore Costanzo, sottoscrissero, benché fossero stati avvertiti della sentenza del Pontefice Liberio che se avessero persistito nell’errore «sarebbero stati puniti col rigore spirituale della Chiesa Cattolica». Per opera altresì di Sant’Ilario, Vescovo di Poitiers, fu cacciato dalla Chiesa d’Arles il Vescovo Saturnino, perché ostinatamente persisteva nella concezione dei Vescovi Ariani. Finalmente la sentenza di Liberio fu confermata per mezzo di San Damaso con una lettera sinodica emanata in un Concilio di novanta Vescovi, affinché anche gli Orientali potessero pubblicamente dichiararsi pentiti del loro errore, se volevano essere considerati Cattolici ed esserlo realmente. «Crediamo poi [così dicesi in quella lettera] che se saranno restii a ritrattarsi, non si tarderà a separarli dalla Nostra comunione e a toglier loro il nome di Vescovo, perché respirino i Popoli liberati dall’errore dei propri Pastori».

Non si può negare in nessun modo che il Vescovo di Autun e i suoi seguaci si sono posti da se stessi in uno stato simile a quello di coloro che soggiacquero, come si è detto, alla sentenza di Liberio, d’Ilario e di Damaso, e perciò se non ritratteranno quel giuramento che hanno dato, sappiano fin da ora che cosa dovranno aspettarsi. Ciò che abbiamo asserito ed esposto fin qui, non abbiamo ricavato dalla Nostra mente, ma dalle più pure fonti della sacra Dottrina, come vedete. Ora poi ci rivolgiamo a voi, Fratelli Nostri carissimi e desideratissimi, allegrezza Nostra e Nostra corona, benché non abbiate bisogno dello stimolo di alcuna esortazione, giacché Noi stessi in voi ci gloriamo per la vostra Fede in mezzo a tutte le angustie, persecuzioni e tribolazioni che avete fin qui coraggiosamente sostenute, e altresì per le egregie istruzioni pubbliche da voi fatte, che apertamente attestano il giusto dissenso che voi fate ai Decreti di codesta Assemblea; nondimeno, poiché siamo giunti a tempi sì miseri e calamitosi, che coloro a cui pare di essere ben fermi nella via del Signore debbono diligentemente e in ogni cosa essere vigilanti e guardinghi, perciò, come richiede il dovere della cura pastorale a Noi affidato sebbene senza alcun merito Nostro, esortiamo con la maggiore e possibile efficacia voi Diletti a conservare con tutto il fervore degli animi la concordia fra voi medesimi, perché tenendo unite le premure, l’opera e i consigli, con un solo spirito possiate per divina mercé difendere la Religione Cattolica dalle insidie e dai tentativi dei nuovi Legislatori. Poiché ad aprire largo campo agli avversari non può esservi cosa più favorevole che la divisione degli animi vostri, fra loro discordi, così a chiudere a quelli ogni ingresso e ad atterrarne tutte le macchinazioni non vi è cosa tanto opportuna ed efficace quanto la concordia e l’unanime vostro consenso. Queste sono quasi le stesse parole con cui San Pio V, Nostro predecessore, esortò il Capitolo e i Canonici della Chiesa di Besançon, i quali si trovavano in situazioni simili. Siate dunque d’animo forte e costante, non desistete dall’impresa, anche di fronte a pericoli o minacce, e ricordatevi come Davide rispose da impavido al Gigante, gli intrepidi Maccabei ad Antioco, e così Basilio a Valente, Ilario a Costanzo, Ivone di Chartres al Re Filippo. Noi dal canto Nostro, rinnovammo già pubbliche preghiere; esortammo il Re a non voler apporre la sua sanzione; avvisammo i due Arcivescovi che erano accanto al Re su come dovevano comportarsi, e al fine di potere, per quanto era da Noi, disarmare e ammorbidire il furore di codesto che chiamano Terzo Stato, demmo ordine che interinalmente si sospendessero le esazioni di quelle tasse, che in forza di antiche convenzioni e della perpetua consuetudine sono dovute ai Nostri uffici per i trattati con la Francia. Da tale Nostra liberalità abbiamo riportato per amarissima ricompensa il dolore procuratoci dalla ribellione degli Avignonesi alla Sede Apostolica: ribellione eccitata e alimentata da alcuni dell’Assemblea e contro la quale Noi e questa Sede Apostolica non cesseremo di protestare. Ci siamo fin qui astenuti dal dichiarare separati dalla Chiesa Cattolica gli autori della malaugurata Costituzione Civile del Clero. Infine abbiamo fatto e sofferto di tutto per evitare, con la Nostra dolcezza e la Nostra pazienza, un deplorabile scisma e per invocare la pace per voi e la vostra Nazione. Anzi, inerendo ai principi di Paterna Carità con cui Ci siamo fin qui diretti e ai quali voi stessi vi siete ispirati, così come abbiamo compreso dai sentimenti con i quali chiudete il vostro esposto, vi chiediamo e vi supplichiamo a volerci significare e dichiarare che cosa giudichiate doversi fare presentemente da Noi, perché si ottenga la riconciliazione degli animi. A tanta distanza dai luoghi, Noi non possiamo conoscere ciò con chiarezza; ma da voi, che siete presenti, può forse esserci prospettata qualche soluzione (per niente aliena dal Dogma cattolico e dalla disciplina generale) che possiamo esaminare e sulla quale decidere.

Non Ci resta altro che pregare Dio perché serbi a Noi e alla sua Chiesa, sani e salvi per lunghissimo tempo, così veglianti e saggi Pastori, e accompagniamo questo Nostro desiderio con l’Apostolica Benedizione, che diamo a voi tutti, o Diletti Figli e Venerabili Fratelli Nostri, dall’intimo del Nostro cuore e col più tenero affetto.

Dato a Roma, presso San Pietro, sotto l’anello del Pescatore, il 10 marzo 1791, anno diciassettesimo del Nostro Pontificato.

 



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