BREVE
SUPER SOLIDITATE PETRAE
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO VI
Il Papa Pio VI. A futura memoria.
1. Che sopra la solidità della pietra sia stata fondata da Cristo la Chiesa, e che Pietro, per singolare dono di Cristo, sia stato a preferenza di tutti gli altri eletto ad essere Principe del Coro Apostolico con potestà di fare le sue veci, e che in conseguenza prendesse la cura e l’autorità suprema di pascere tutto il gregge, di confermare i fratelli e di sciogliere e legare per tutto il mondo, è un dogma cattolico che, ricevuto dalla bocca di Cristo, insegnato e difeso con la continua predicazione dei Padri, è stato ritenuto santissimamente in ogni età dalla Chiesa universale, e sovente confermato contro gli errori dei novatori con i decreti dei Sommi Pontefici e dei Concilii.
In questo Principato della Cattedra Apostolica, Cristo colle che si tenesse fermo e stretto il vincolo dell’unità, in modo che la Chiesa, che si doveva propagare per tutto il mondo, risultasse unita da componenti, per quanto si voglia distanti fra loro, con una mutua consociazione di tutti in un solo capo, e in seguito avvenisse che la forza di questa potestà valesse non solo per l’ampiezza della prima Sede, ma soprattutto per l’integrità e la salvezza di tutto il corpo. Perciò non è da meravigliarsi se coloro che in tutti i secoli passati, quando l’antico nemico del genere umano riversò il suo odio contro la Chiesa, si scagliarono prima di tutto contro questa Sede, nella quale si contiene la saldezza dell’unità, affinché, disintegrato – se possibile – il fondamento, e distrutto il collegamento delle Chiese con il Capo, sul quale soprattutto esse si sostengono, vigoreggiano e fioriscono, spogliassero la stessa Chiesa, miseramente afflitta e lacerata per le forze infrante, di quella libertà che Cristo le ha donato, e l’assoggettassero ad un’indegna schiavitù.
2. Pochi anni fa un uomo di vivo ingegno, già troppo noto per opuscoli condannati da tempo, Eybel, diede una nuova testimonianza del suo animo aggressivo contro Noi e questa Sede Apostolica: avendo avuto notizia del viaggio intrapreso da Noi per motivi religiosi, si affrettò a diffondere fra i compatrioti un libello con questo inverecondo titolo: Che cos’è il papa? Con esso intendeva ridurre quell’impegno ricco di pietà che l’arrivo di Noi aveva creato, e rendere il decoro della dignità pontificia odioso all’ordine sacerdotale, e spregevole al ceto popolare. Ma il misericordioso Iddio non consentì che egli realizzasse il suo spregevole voto, poiché fummo accolti con tanta solennità e partecipazione dei suoi connazionali, che egli aveva tentato di alienare da Noi, e con tanta considerazione e con tanti applausi di tutte le categorie che si rese manifesto che – quantunque senza alcun merito Nostro siamo stati innalzati per volontà della divina provvidenza al seggio di Pietro – tuttavia per divina decisione dello stesso Signore era stato provveduto a che l’indegnità del successore non pregiudicasse l’onore che è dovuto a Pietro.
3. Allora però ritenemmo opportuno astenerci dal censurare quel libello con la meritata condanna, innanzi tutto per non sembrare ai più sospettosi, che non mancano mai, di avere piuttosto accondisceso al Nostro dolore che soddisfatto al dovere; in secondo luogo perché si poteva ritenere che tale opuscolo sarebbe presto caduto nell’oblio in quanto, per se stesso, era di nessun valore e nulla aggiungeva al di là di una certa, più che sfrontata, licenza nel ritessere le antiche calunnie. Però recentemente abbiamo appreso che taluni nemici – sempre pronti a seminare abbondante zizzania – si impegnavano a che l’opera, di modesta consistenza, venisse ristampata ripetutamente non soltanto nella lingua originale, ma tradotta in diverse altre, persino nel greco volgare, e diffusa largamente. Essi erano animati dal proposito e dalla speranza che la licenza del ridicolo scritto allettasse non pochi a leggerlo, e che l’audacia dello scrittore nelle proprie affermazioni potesse ingannare gl’incauti, che non sono pochi. Ci rendemmo conto che da parte Nostra non si doveva frapporre alcun indugio al fine di contrastare, per quanto è in Noi, al male che va di giorno in giorno crescendo; Ci dovevamo sforzare con ogni impegno e con ogni mezzo affinché fossero richiamati a più sani propositi coloro che cercano (voglia Dio che non siano nemici domestici) di colpire la pace e l’unità della Chiesa, in modo che i buoni fedeli, irretiti dalle falsità di costoro, non vengano miseramente allontanati dalla sicurezza della Fede Ortodossa verso le profane novità degli errori insorgenti.
4. Certamente, come insegna Agostino, mentre Dio pose la dottrina della verità nella cattedra dell’unità, al contrario codesto infelice scrittore nulla trascura per tormentare e contrastare in tutti i modi questa Sede di Pietro, nella quale i Padri, con unanime consenso, onorarono quella Cattedra «nella quale, unica si deve conservare l’unità da parte di tutti; dalla quale derivano in tutte le altre i diritti della veneranda comunione; alla quale ogni Chiesa e tutti i fedeli, ovunque si trovino, devono unirsi». Quell’infelice non ha avuto timore di chiamare fanatica la folla che, come prevedeva, alla vista del Pontefice sarebbe esplosa in queste espressioni: Egli è l’uomo che ha ricevuto da Dio le chiavi del regno dei cieli, con il potere di legare e di sciogliere; nessun altro vescovo può essere a lui eguagliato; gli stessi vescovi ricevono da lui la loro autorità, nello stesso modo in cui egli ricevette da Dio la propria, suprema, di essere il vicario di Cristo, il capo della Chiesa visibile, il giudice supremo dei fedeli.
Dunque, orribile a dirsi, sarebbe stata fanatica la stessa voce di Cristo che promette a Pietro le chiavi del regno dei cieli con il potere di legare e di sciogliere: quelle chiavi da trasmettere ad altri e che, dopo Tertulliano, Ottato di Milevi non esitò ad affermare che erano state ricevuto solo da Pietro?
Fanatici dovranno qualificarsi tanti solenni decreti, tante volte ripetuti, dei Pontefici e dei Concilii, con i quali sono stati condannati coloro che negavano che a successore del beato Pietro, Principe degli Apostoli, era stato costituito da Dio il Romano Pontefice, capo visibile della Chiesa e vicario di Gesù Cristo; che a lui era stata affidata la piena potestà di governare la Chiesa e che a lui è dovuta la vera obbedienza di coloro che si ritengono cristiani; e che tale è il valore del primato di cui egli dispone per diritto divino, che egli sovrasta gli altri vescovi non soltanto per grado onorifico ma anche per l’ampiezza del suo supremo potere?
Pertanto è maggiormente deplorevole la precipitosa e cieca temerarietà di quest’uomo, il quale si è impegnato a riproporre con il suo infausto libello gli errori condannati da tanti decreti, e che ha detto ed insinuato qua e là, attraverso molte tortuosità, che: qualsiasi vescovo chiamato da Dio al governo della Chiesa non è inferiore al Papa e non è fornito di minore potere; Cristo, per se stesso, diede a tutti gli Apostoli la medesima potestà; alcuni credono che possano essere ottenute e concesse soltanto dal Pontefice talune cose che nello stesso modo, sia in materia di consacrazione, sia di giurisdizione ecclesiastica, possono essere ottenute da qualsiasi vescovo; Cristo avrebbe voluto che la Chiesa fosse amministrata come una repubblica e che a tale regime occorresse un presidente per il bene dell’unità, ma che questi non osi intervenire negli affari degli altri che contemporaneamente governano; tuttavia abbia il diritto di esortare i negligenti a compiere i propri doveri; la forza del primato sia contenuta nella sola prerogativa di supplire alla negligenza altrui e nel provvedere alla conservazione dell’unità con le esortazioni e con l’esempio; i pontefici nulla possono nelle altre diocesi se non in qualche caso straordinario; il pontefice è un capo che riceve la sua forza e la fermezza dalla Chiesa; i pontefici si sono fatti lecito violare i diritti dei vescovi, riservando a sé le assoluzioni, le dispense, le decisioni, gli appelli, i conferimenti dei benefici, in una parola: tutte le incombenze che ad una ad una va enumerando, presentandole come riserve indebite e ingiuriose per i vescovi.
5. Allo scopo non tanto di assicurare credibilità alle proprie affermazioni, quanto piuttosto di trafugarla in qualche modo, egli presenta in una lunga serie i nomi di santissimi Padri, dei quali, con notevole inganno, usa arbitrariamente le sentenze malamente carpite qua e là; fra le citazioni, ne raccoglie due che suonano a valorizzazione della dignità episcopale, e passa sotto silenzio altre con le quali i Padri esaltarono la pertinente superiorità del potere pontificio.
Se i Padri fossero presenti, rigetterebbero l’impudente calunnia di quest’uomo con quelle parole con le quali non solo predicarono il primato della Sede Apostolica e il loro ossequio nei suoi confronti, ma lasciarono testimonianza con scritti immortali a futura memoria. Lo stesso Cipriano, del quale sono queste parole: «Dio è uno solo, Cristo uno solo, la Chiesa una sola, e la Cattedra una sola fondata sopra Pietro con la parola del Signore», dichiara apertamente che la Cattedra di Pietro è la Chiesa principale, dalla quale ha avuto origine l’unità sacerdotale, nella quale la perfidia non può avere accesso.
6. Crisostomo apertamente dichiara che Pietro per proprio diritto poté eleggere il successore in luogo del traditore. Di tale diritto, derivato dal primato, lo stesso Pietro e i primi successori di Pietro si servirono quando fondarono Chiese per tutto l’occidente, ed a queste, prima di qualsiasi sinodo, misero a capo dei vescovi, ai quali assegnarono il gregge da curare; a precise regioni designarono una sola Sede, il vescovo della quale presiedesse anche ad altre con autorità apostolica. Dell’istituzione di tali Chiese Innocenzo I fornisce un’amplissima testimonianza, della quale ciascuno può valersi per comprendere che l’autorità pontificia non comparve a seguito della disciplina stabilita in precedenza dai sinodi, ma brillò prima della disciplina fissata dai decreti sinodali. È pure noto che lo stesso Pontefice ordinò con propr” decreti la Chiesa Antiochena, capo della diocesi orientale.
7. Epifanio attesta che Ursacio e Valente, indotti a penitenza, portarono al papa Giulio Romano gli opuscoli con i quali supplicavano perdono per il proprio errore e chiedevano di essere ammessi alla comunione e alla penitenza.
8. Girolamo, per il quale era profano chiunque non fosse in comunione con la Cattedra di Pietro – pietra sulla quale egli ben sapeva che era stata edificata la Chiesa – in occasione di dispute molto importanti chiedeva soltanto a Damaso che gli fosse concessa l’autorità di parlare e di comunicare.
9. Agostino attesta d’aver appreso dalle sante scritture che il primato degli Apostoli s’innalza in Pietro per una grazia straordinaria; quel principato dell’apostolato è da anteporre a qualunque episcopato; la Chiesa Romana, sede di Pietro, è essa stessa pietra che le superbe porte degl’inferi non possono vincere. Con ciò viene confutata un’altra calunnia dello scrittore, secondo il quale con il nome di pietra sulla quale Cristo edificò la sua Chiesa non si deve intendere la persona, ma piuttosto la fede o la confessione di Pietro, come se quei Padri – utilizzando la mirabile fecondità della Scrittura – avessero attribuito il vocabolo della pietra a ciò; avessero abbandonato il senso letterale con il quale ci si riferisce direttamente a Pietro e non l’avessero esplicitamente mantenuto.
Così anche Ambrogio, maestro di Agostino: «È a Pietro che egli disse: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”; pertanto dove è Pietro, ivi è la Chiesa». Questa è la voce unanime dei Padri, questa è la consolidata tradizione dei dottori; Bernardo la raccolse dai maggiori e la riassunse con le seguenti poche parole parlando ad Eugenio: «Tu sei colui al quale sono state consegnate le chiavi, colui al quale sono state affidate le pecore... Ad altri sono stati affidati dei greggi, un gregge ad ognuno: a te sono stati affidati tutti; un unico gregge ed uno solo. Tu non sei soltanto il pastore delle pecore, ma anche l’unico pastore di tutti i pastori». Con il latte di questa dottrina sono stati nutriti quanti crebbero nella Chiesa di Cristo; se vorranno ricordarsene, di esso sono stati imbevuti fin dall’adolescenza coloro che ora si lasciano trasportare in giro da ogni vento dottrinale. Sempre dal Vangelo fu reso noto che a Pietro furono affidate da Cristo le pecore da pascere, non già alle pecore Pietro da pascere.
10. In verità, non è mai accaduto che i sinodi ecumenici si siano distaccati dalla tradizione dei Padri. I Padri Calcedonesi si disposero ad ascoltare Pietro che parlava per bocca di Leone; né ritennero che la saldezza delle loro azioni potesse derivare, con l’implorata conferma, da qualunque vescovo, ma da Leone in quanto capo.
11. L’ottavo sinodo generale come prima azione approvò un memoriale esaminato attentamente, ossia una norma con la quale, dopo molte ragguardevoli cose relative all’autorità del Romano Pontefice, veniva prescritto che «fossero separati dalla comunione della Chiesa cattolica i non consenzienti con la Sede apostolica e che i loro nomi non si dovessero leggere durante i sacri Misteri». Inoltre, rimanendo da decidere su alcune dispense che l’interesse della Chiesa grandemente richiedeva, i Padri non osarono attribuirsi la facoltà di concedere tale licenza: in verità ritennero che questa dovesse essere implorata dalla Sede apostolica tramite il patriarca Ignazio; riconobbero in tal modo che nemmeno gli stessi patriarchi hanno il potere di dispensare dai canoni.
12. Il gran Sinodo Lateranense quarto, cap. 5, insegna che la Chiesa Romana, per disposizione del Signore, ha il principato della potestà ordinaria su tutte le altre, come madre e maestra di tutti i Cristiani.
13. Nel secondo Sinodo di Lione [anno 1274] fu pubblicata la professione di fede dei Greci, con la quale essi attestano di riconoscere che la Chiesa Romana ha il sommo e pieno primato e principato su tutta la Chiesa cattolica; essa li ricevette con pienezza di potere conferito dallo stesso Signore al beato Pietro, principe degli Apostoli e supremo vertice, del quale il Pontefice Romano è successore. Il Sinodo Fiorentino [anno 1489], seguendo precedenti Sinodi, sancì poi con un celebre decreto il dogma cattolico del primato.
14. Ispirati dal medesimo spirito Divino, i Padri del Concilio Tridentino dichiararono che «i Pontefici massimi, in forza della suprema potestà conferita loro sulla Chiesa universale, poterono riservare al proprio particolare giudizio alcune più gravi cause criminali» (Conc. Trid., sessione XIV, cap. 7). Conseguentemente, tale potestà, che si diffonde su tutte le Chiese e per altri simili uffici – e che l’autore del libello si sforza malamente di respingere – appartiene parimenti ai Pontefici, non acquisita in altro modo né conferita dagli inferiori, ma connessa al primato per diritto ordinario: a ciò deve rimettersi colui che non dubita che la celeste sapienza dei Sinodi è da anteporre di gran lunga alle dispute dell’umana ignoranza.
15. Eybel si richiama al Concilio di Costanza [anno 1414]. Ma era necessario che egli si ricordasse che in esso furono condannati sia gli errori di Wicleff, che affermava non essere necessario alla salvezza credere che la Chiesa Romana è la più alta fra le altre Chiese e che il Papa è il prossimo ed immediato vicario di Cristo, sia gli errori di Giovanni Huss secondo il quale Pietro non è né fu il capo della santa Chiesa Cattolica. Opponendo a tali errori una serie di parole assennate, Martino V prescrisse che si interrogassero coloro che erano sospettati: se credevano che il beato Pietro è il vicario di Cristo ed è dotato del potere di legare e di sciogliere sulla terra. Parimenti, che il Papa canonicamente eletto è il successore del beato Pietro ed ha la suprema autorità nella Chiesa di Dio. Parimenti, che il Papa può concedere indulgenza a tutti i Cristiani e altresì i singoli vescovi ai propri sottoposti secondo i limiti dei sacri canoni. Con ciò viene chiaramente confutato l’errore di costui il quale, dissertando sconsideratamente di indulgenze, ha osato scrivere che qualsiasi vescovo, nello stesso modo del Papa, può concedere le indulgenze. Chiunque vorrà considerare con maggiore attenzione, con animo equilibrato e sereno, i documenti dei Padri e dei Sinodi, avvertirà certamente che essi prevedono un’autorità di gran lunga più eminente di quella contenuta nei limiti di un mero direttorio – come dicono – dotato del compito di esortare, ammonire, riparare.
16. Anzi, gli stessi Basileesi nella risposta sinodale al vescovo di Taranto dichiarano apertamente che essi confessano e credono che il Romano Pontefice è capo e primate della Chiesa, vicario di Cristo e scelto da Cristo, non dagli uomini o da altri Sinodi, quale pastore dei Cristiani: a lui sono state date le chiavi dal Signore; a lui solo è stato detto «Tu sei Pietro»; egli soltanto è stato chiamato alla pienezza del potere; altri furono chiamati a partecipare del dovere. Pertanto egli [Eybel] dovrebbe vergognarsi della propria audacia impotente, con la quale s’appresta a colpire quella pienezza di potere che i Basileesi espongono fra i fondamenti della dottrina, tanto noti e divulgati che non sarebbe necessario enumerarli.
Per la verità, quanto sopra riferito è stato detto da Agostino: nella Sede Romana è sempre stato in pieno vigore il primato della Cattedra apostolica, e questo primato dell’apostolato è da anteporre a qualsiasi episcopato, come si vede – con molti altri – dallo straordinario segno in forza del quale il successore di Pietro, per il fatto che succede al posto di Pietro, trova assegnato a se stesso, per diritto divino, il gregge universale di Cristo, e contemporaneamente all’episcopato, riceve il potere del governo universale. In seguito, è necessario che agli altri vescovi sia assegnata la propria peculiare parte di gregge, non per diritto divino, ma per diritto ecclesiastico, non per bocca di Cristo, ma attraverso l’ordinazione gerarchica, in modo che attraverso questa ciascuno possa esplicare l’ordinaria potestà di governo. Chiunque vorrà togliere al Romano Pontefice la suprema autorità di tale assegnazione, necessariamente colpirà in tutto il mondo la legittima successione dei vescovi, i quali governano le Chiese fondate integralmente dall’autorità apostolica: essi ricevettero dal Romano Pontefice la missione di governarle, siano queste separate da altre o siano vicendevolmente unite. Pertanto, non si può attentare a questo mirabile consorzio di potenza attribuito alla Cattedra di Pietro per divina degnazione, senza recare grave turbamento alla Chiesa e senza pericolo dello stesso governo episcopale, così come fu detto da Leone Magno, cioè che Pietro governa esattamente coloro che anche Cristo fondamentalmente governa. E se Cristo volle che qualcosa di comune ci fosse fra Pietro e gli altri Principi, giammai diede alcunché agli altri se non per mezzo di lui.
17. [Eybel] loda i presuli e i dottori Gallicani, del tutto inutilmente. Pensa dunque che da essi possano derivare sostenitori per lui? Forse i più antichi, o coloro che nel medio evo o in tempi più recenti risplendettero in quella illustre Chiesa con lodi di pietà o di dottrina? Ma fra quei vecchi, per ricordarne alcuni fra molti, non gli rincresca di ascoltare un Cesario Arelatense, un Avito Viennese, il primo dei quali s’indirizza al papa Simmaco con un supplichevole scritto: «Come l’episcopato ebbe inizio dalla persona del beato Pietro, così è necessario che la Vostra Santità esponga con chiarezza alle singole Chiese che cosa debbono osservare».
Avito poi ad Ormisda: «Chiediamo che mi istruiate come debbo rispondere ai vostri figli e miei fratelli, cioè ai Galli, se mi consultano, perché io, già sicuro, non dica soltanto della devozione dei Viennesi ma di tutta la Gallia, e possa promettere che tutti accetteranno la vostra sentenza sullo stato della fede».
I Padri Aureliani ripetono che le modalità canoniche da osservare per l’elezione dei metropolitani sono fissate dai decreti della Sede apostolica.
18. Ascolti dal medio evo Incmaro da Reims quando attesta che egli è sempre stato fedele e soggetto in tutte le cose alla Sede apostolica, madre e maestra di tutte le Chiese, e ai suoi reggitori: con ciò stesso volle si vedesse quanto si deve alla Sede apostolica e dichiara apertamente quanto egli senta che questo è dovuto.
Ascolti anche Ivone Carnotense che severamente condanna l’ardire di coloro che alzano il capo contro la Sede apostolica: «Opporsi ai suoi giudizi e alle sue costituzioni significa chiaramente incorrere in una manifestazione di perversità eretica; ad essa principalmente e fondamentalmente compete confermare o riprovare la consacrazione tanto dei metropolitani quanto degli altri vescovi, correggere le costituzioni e i giudizi altrui, mantenere salde le proprie decisioni e non permettere che nessun inferiore le rimaneggi o corregga». Ciò egli prova anche con l’autorità di Gelasio.
19. Se da quell’antichità procediamo verso tempi più vicini, non dovrebbero essergli sconosciute le gravissime censure contro il famoso apostata Spalatese emesse dall’insigne facoltà teologica di Parigi: in esse avrebbe potuto agevolmente ravvisare la condanna anticipata del suo libello.
Questi furono gli errori dello Spalatese ai quali la facoltà non dubitò doversi imprimere il marchio della pravità eretica e scismatica. «La disparità di potere fra gli apostoli è un’invenzione umana, che non figura minimamente nei sacri vangeli e nelle divine scritture del nuovo testamento». (Dichiara tale affermazione eretica e scismatica secondo la giurisdizione apostolica ordinaria che sussisteva solo in San Pietro). «Nella Chiesa non si può ammettere un solo capo supremo e monarca all’infuori di Cristo. Tutti i vescovi insieme, solidalmente, e i singoli governano la medesima Chiesa con piena potestà. La Chiesa Romana è stata ed è la principale per nobiltà, stima, fama ed autorevole dignità, non per primato di governo e di giurisdizione». (Dichiara eretica e scismatica tale affermazione, in quanto insinua apertamente che la Chiesa Romana non ha potere sulle altre Chiese per diritto divino). «Ogni vescovo per diritto divino è universale. La forma monarchica non fu immediatamente istituita nella Chiesa da Cristo; è falso che l’unione della Chiesa cattolica consiste nell’unità di un reggitore visibile». Poiché lo Spalatese aveva soggiunto che la dottrina dei Parigini, correttamente intesa, per nulla differiva dalla sua, essi subito respinsero l’urtante calunnia «come una chiara impostura contro la facoltà di Parigi».
20. Un’egregia testimonianza, in linea con la suddetta sentenza dei dottori Parigini e con la costante tradizione dei propr” maggiori a proposito del primato del Romano Pontefice, resero i Prelati Gallicani nelle assemblee del 1681. Essi dicono: «Egli è il capo della Chiesa, il centro dell’unità; egli ha sopra di noi il primato dell’autorità e della giurisdizione, a lui conferito da Gesù Cristo nella persona di San Pietro; chi dissentisse da questa verità, sarebbe scismatico, anzi persino eretico».
21. Certamente, all’autore del libello non furono affatto ignoti i luminosi documenti sul Romano Pontefice ricavati da ogni memoria dell’antichità. Pertanto si manifesta maggiormente ostinato il suo accanimento contro la Sede Romana: non potendo oscurare e distruggere le splendide testimonianze dei Padri, con somma impudenza non si peritò di spacciarle per allegorie malamente intese; conseguentemente, in parte avvenne che per una lunga serie di secoli si credette che il Papa sia quello che non è, come se i santissimi Padri, che Dio diede alla sua Chiesa quali pastori e dottori in una materia di gravissima importanza che per comune consenso appartiene alla costituzione della Chiesa, o avrebbero errato essi stessi o avrebbero dato ai fedeli motivo di errare. Piuttosto è tenuto a convincersi del nefando errore colui che stabilisce che sul Romano Pontefice si deve credere diversamente da come si è creduto per una continua successione di secoli.
22. Seguendo in eguali cause gli esempi dei Nostri predecessori, abbiamo ritenuto opportuno esporre queste cose un po’ più diffusamente, come richiede la ragione del Nostro dovere, cercando non i Nostri vantaggi, ma quelli delle anime, tenendoci impegnati a conservare l’unità nel vincolo della pace, intenti a far sì che – svelate le frodi di coloro che abusano del nome dei Padri per sconvolgerne le sentenze – tutti capiscano che agli stessi antichi Padri nulla stette più a cuore che da parte di tutti si conservasse l’unità in quella Cattedra che da Cristo è stata costituita madre e maestra di tutte le altre.
23. Per certo un solo ovile è la Chiesa di Cristo, della quale l’unico supremo pastore è lo stesso Cristo che regna nei cieli; Egli lasciò sulla terra un solo supremo vicario, pastore visibile, nella cui voce le pecore udissero la voce di Cristo, affinché, sedotte da voci straniere, non si disperdessero in pascoli avvelenati e mortiferi.
Pertanto, affinché i fedeli affidati alla Nostra cura possano con maggior cautela evitare le cose profane e i vaniloqui che servono all’empietà, e possano restare costantemente legati a questa Cattedra d’unità, nella quale Pietro tuttora vive come in una propria Sede, e presiede e assicura la verità della fede a coloro che la cercano, e affinché non consentano di essere attirati in questa frode, pensando che sia stato estorto per ambizione, affidato per ignoranza o adulazione, o procacciato con male arti ciò che è stato stabilito per ordine di Cristo. Noi abbiamo disposto che il citato opuscolo, tradotto dalla lingua germanica in quella latina, venisse sottoposto all’esame di molti maestri in sacra teologia; in possesso delle loro consultazioni, uditi i voti dei Venerabili Nostri Fratelli, i Cardinali di Santa Romana Chiesa inquisitori generali in tutta la repubblica cristiana contro la pravità eretica espressi alla Nostra presenza, motu proprio e per certa scienza, con la pienezza della potestà apostolica riproviamo e condanniamo il predetto libello il cui titolo latino è «Quid est papa? Con dispensa della Cesarea commissione regale delle censure dall’apposizione del nome dell’autore. Vienna, presso Giuseppe Edlen de Kurzbeck, 1782», e in Greco un titolo equivalente, in quanto contiene proposizioni rispettivamente false, scandalose, temerarie, ingiuriose, inducenti allo scisma, erronee, inducenti all’eresia, eretiche ed altre già condannate dalla Chiesa; vogliamo e decretiamo che tale libello sia riprovato e condannato per sempre.
24. Concediamo inoltre che nessun fedele di Cristo, di qualunque grado e dignità, ancorché degno di specialissima menzione, osi o presuma leggere o trattenere il predetto libello già stampato o manoscritto, sia nel suo testo originale, sia in qualunque altra versione, oppure osi ristamparlo o farlo stampare, sotto pena di sospensione a Divinis se si tratta di persone ecclesiastiche, e sotto pena di scomunica maggiore se si tratta di persone secolari: pene da incorrersi ipso facto senz’altra dichiarazione. Riserviamo a Noi e ai Pontefici Romani Nostri successori l’assoluzione e la remissione di tali pene, eccettuato soltanto – quanto alla scomunica predetta – che qualsiasi confessore possa assolvere da tale censura in articulo mortis.
25. Ordiniamo inoltre ai librai, ai tipografi, a tutti e ai singoli di qualunque grado, condizione e dignità, alle persone ecclesiastiche e ai secolari, anche se hanno bisogno di speciale e personale menzione, che se mai il predetto libello, stampato nella lingua originale o in qualunque lingua, o anche manoscritto, capitasse nelle loro mani, immediatamente lo portino agli Ordinari dei luoghi, sotto le medesime pene rispettivamente comminate di sospensione a Divinis e di scomunica.
26. Affinché poi la presente lettera venga più facilmente a conoscenza di tutti, né qualcuno possa addurre a pretesto che non la conosce, vogliamo e comandiamo che, come al solito, per mezzo di qualche Nostro cursore sia pubblicata alle porte della basilica del Principe degli Apostoli, della cancelleria apostolica, della curia generale in Montecitorio e nella piazza del campo di Flora di Roma, e che le copie vi rimangano affisse. Così pubblicata, s’intende che obbliga tutti e i singoli interessati, come se fosse stata personalmente notificata e intimata. Ai transunti della presente lettera, cioè alle copie, anche stampate, sottoscritte di mano di qualche pubblico notaio e munite del sigillo di persona costituita in dignità ecclesiastica si presti la medesima fede – tanto in giudizio quanto altrove, in qualsivoglia luogo – che si presterebbe alla presente se fosse esibita e mostrata.
Dato a Roma, presso San Pietro, sotto l’anello del Pescatore, il 28 novembre 1786, dodicesimo anno del Nostro Pontificato.
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