DISCORSO
AL PERSONALE OSPEDALIERO DI ROMA*
Mercoledì, 21 maggio 1952
Di tutto cuore vi salutiamo, diletti figli e figlie, che in così gran numero siete venuti da ospedali, ospizi, cliniche, case di cura, della Nostra diocesi di Roma, per ricevere la benedizione del Vicario di Cristo. La vostra presenza Ci attesta l'alto concetto che voi avete della vostra professione, e Ci induce così ad intrattenervi brevemente sulla vocazione, a cui vi siete dedicati.
Diciamo vocazione, perchè chi abbraccia la professione d'infermiere o d'infermiera risponde alla voce della carità di Cristo : Venite, benedetti dal Padre mio — vi dirà Gesù il giorno del giudizio — perchè . . . ero malato e mi avete visitato . . . Tutto ciò che avete fatto al più misero degl'infermi, l'avete fatto a me (cfr. Matth. 25, 36. 40).
Le parole così esplicite del divino Maestro sono state la Carta di tutte le opere cristiane di misericordia, e noi sappiamo dalla narrazione dei più antichi storici della Chiesa con quale generosità e con quale metodo i cristiani stessi curavano tutti i malati perchè vedevano in essi i fratelli di Colui che soffrì per tutti noi i tormenti della passione e della croce. Eusebio di Cesarea (Hist. Eccl. l. 7 c. 22 - Migne PG, t. 20 col. 685-692) parla di una orribile peste, che poco dopo il 250 fece strage nell'Africa, durante la quale i cristiani, sacerdoti e laici, noncuranti del pericolo della propria vita, prendevano cura dei malati, che i pagani per timore del contagio respingevano lungi da loro e abbandonavano insepolti alla loro sorte. Più tardi, quando la Chiesa potè svilupparsi e ordinarsi liberamente, sorsero anche i primi nosocomi. Così l'ospedale eretto verso l'anno 370 in Cesarea dal grande Vescovo S. Basilio era una intera città, separata dal resto delle abitazioni, in cui venivano curate tutte le malattie, compresa la lebbra (S. Gregorii Naz. In laudem Basilfi M., n. 63 - Migne PG, t. 36 col. 577-580).
In questa Nostra Città di Roma, secondo la espressa testimonianza di S. Girolamo (Epist. 77 ad Oceanum, de morte Fabiolae, 399 - Migne PL, t. 22 , col. 694) Fabiola fondò il primo ospedale (nosokomèion), dove raccolse e curò malati di ogni sorta e di ogni luogo, che essa stessa soleva portare sulle sue spalle e di cui lavava le piaghe purulente, che ad altri ripugnava persino di guardare. Quindi l'Urbe vide ben presto elevarsi presso le due grandi Basiliche costantiniane del Ssmo Salvatore al Laterano e di S. Pietro al Vaticano i rifugi della carità cristiana per i poveri, i pellegrini e i malati. L'uno di essi diede origine al celebre ospedale di S. Spirito, l'altro a quello del Ssmo Salvatore. Ma sarebbe troppo lungo di tracciare qui la storia meravigliosa della carità ospedaliera di Roma nel Medio Evo e nei secoli posteriori. Due grandi nomi debbono tuttavia essere ricordati, quelli dei vostri santi Patroni Giovanni di Dio e Camillo de Lellis, i quali fondarono l'uno l'Ordine ospedaliero, divenuto così popolare col nome di Fate Bene Fratelli, l'altro quello dei Cherici Regolari Ministri degli Infermi. Il 23 giugno 1886 furono proclamati dal Sommo Pontefice Leone XIII Patroni celesti degli ospedali e dei malati, e il 28 agosto 1930 il Nostro venerato Predecessore Pio XI li costituì Patroni di tutti gl'infermieri di ambedue i sessi e delle loro cattoliche associazioni (Act. Ap. Sedis, vol. 23, 1931, p. 8-9).
Ma una particolare menzione merita S. Vincenzo de' Paoli, il quale, con una idea che parve allora audace, seppe congiungere la speciale disposizione della donna alla cura dei malati con la vita religiosa : le Figlie della Carità inaugurarono così la magnifica floridezza delle Congregazioni delle Suore infermiere, oggidì sparse per il mondo intiero e fin nei più remoti posti delle Missioni.
Tuttavia la cura dei malati non è una prerogativa dei soli religiosi e religiose, bensì richiede anche nel laicato schiere di servitori competenti e generosi, e come è nata dallo spirito cristiano, così deve essere anche da esso alimentata e nutrita.
L'importanza dell'ufficio è la misura della responsabilità di chi lo esercita. Ora l'infermiere deve rispondere non di un affare materiale, ma di un uomo vivente, più o meno gravemente colpito nella sua stessa vita, e che quindi dipende — spesso total mente — dal sapere, dalla abilità, dalla delicatezza e dalla pazienza altrui, cioè del medico e dell'infermiere, anzi, sotto un certo rispetto, dell'infermiere anche più del medico, come ben rilevava un noto chirurgo: « A loro (agl'infermieri) sono affidati i malati per gran parte del giorno e della notte; sono loro che prendono in consegna gli operati e che con la loro opera modesta ed efficace rendono possibili i successi del medico e del chirurgo » (E. Giupponi, Il chirurgo allo specchio, 3" ediz. 1938, p. 251).
La vostra professione suppone quindi qualità non ordinarie: una solida formazione specifica, vale a dire cognizioni tecniche seriamente acquistate e costantemente tenute a giorno, una agilità d'intelligenza capace di acquisire incessantemente nuove nozioni, di applicare nuovi metodi, di utilizzare nuovi istrumenti e medicinali.
Quindi, un temperamento calmo, ordinato, attento, coscienzioso. L'infermiere deve essere padrone di sè stesso; a un gesto brusco, ecco un nuovo dolore per il malato; il medico non potrebbe più essere tranquillo; il malato avrebbe paura di lui. Egli deve mantenere la sua calma dinanzi ai lamenti o alle domande irragionevoli del malato, di fronte a crisi impreviste. Deve prevedere e preparare a tempo tutto il necessario, talvolta così complicato, per la cura dell'infermo; non deve nulla dimenticare, deve osservare tutte le precauzioni dell'igiene e della prudenza. Deve essere fedele all'orario prescritto, esatto nelle dosi da somministrare; osservatore vigile, per segnalare al medico le reazioni del malato e i sintomi che la sua esperienza gli permette di rilevare; attento agli ordini ricevuti e pronto ad eseguirli.
L'infermiere deve possedere altresì qualità morali non meno considerevoli: un tatto discreto e modesto, sensibile e fino, che sappia intuire le sofferenze e i desideri del malato, ciò che si deve e ciò che non si deve dire. Pieno di tatto anche verso il medico, di cui deve rispettare e sostenere l'autorità; verso i suoi colleghi, infermieri e infermiere, particolarmente verso i più giovani, che non deve mai mettere nell'imbarazzo o nella confusione, ma essere al contrario sempre pronto ad aiutare.
La vostra professione richiede una dedizione completa al malato, sia ricco o sia povero, sia simpatico o sia sgradevole. L'infermiere non è come un impiegato di un ufficio, che può andarsene senza inquietudini all'ora fissata. Vi sono casi urgenti, giornate sovraccariche di lavoro, durante le quali non è possibile interruzione o riposo.
La pazienza fa anche parte di questa dedizione totale, perchè alcuni sono capaci di un grande sforzo straordinario di tempo in tempo, ma si stancano e si irritano dinanzi ai piccoli fastidi che quotidianamente si ripetono.
Finalmente la discrezione corona le virtù morali dell'infermiere, che deve strettamente osservare il segreto professionale. Mai non possono essere da lui rivelate le cose dette dal malato in confidenza o nel delirio, nulla che possa nuocere alla sua riputazione o arrecar danno alla sua famiglia.
Ma vi sono anche virtù più elevate, alle quali la fede cristiana conferisce un particolare splendore; vogliamo dire il rispetto verso il malato, la veracità e la fermezza morale. Rispetto verso colui, che talvolta viene a perdere molto di ciò che rende l'uomo rispettabile, il coraggio, la serenità, la lucidità. Rispetto anche verso il suo corpo, tempio dello Spirito Santo, riscattato col sangue prezioso di Cristo, destinato alla risurrezione e alla vita eterna (cfr. I Cor. 6, 19.20).
Veracità nei riguardi dei medici, dei malati e delle loro famiglie, i quali debbono poter fidarsi della parola dell'infermiere. Ne va talvolta non solo della salute del corpo, ma anche dell'anima: ritardare con reticenze la preparazione dell'infermo al gran passaggio per la eternità, potrebbe facilmente essere grave colpa.
Infine fermezza morale, specialmente quando si tratta della legge divina. Ciò che abbiamo dichiarato in altre occasioni sui problemi morali che riguardano la medicina, per esempio, nella Nostra allocuzione del 12 novembre 1944 alla Unione Italiana Medico-Biologica « San Luca », e in quella del 29 ottobre 1951 alla Unione delle Ostetriche cattoliche italiane, vuol essere egualmente applicato all'attività dell'infermiere.
Tale è, diletti figli e figlie, il quadro di quel che richiede la vostra professione. Si dirà forse che pochi raggiungono questo ideale. È forse vero? Per il vostro onore crediamo invece di poter dire che un buon numero di voi lo attua in sè pienamente.
È certo tuttavia che voi non sarete in grado di rimanere pari al vostro ufficio e ai vostri obblighi, se non potrete disporre di energie morali derivanti e nutrite da una fede viva e profonda. Se voi concepite e praticate il vostro lavoro unicamente come un impiego, onorevole sì, ma puramente umano, senza attingere alle fonti specialmente eucaristiche la fortezza cristiana, voi non varrete, a lungo andare, a mantenervi fedeli ai vostri doveri. Voi avete infatti nella vostra vita tanti sacrifici da compiere, tanti pericoli da superare, che vi sarebbe impossibile, senza l'aiuto soprannaturale, di trionfare costantemente della debolezza umana. Dovete coltivare in voi lo spirito di abnegazione, la purezza del cuore, la delicatezza della coscienza, affinché il vostro servizio sia veramente l'atto di carità soprannaturale che la fede cristiana richiede. Noi lo abbiamo ricordato in principio: voi dovete servire nei malati Gesù Cristo medesimo; Egli stesso vi chiede di curarlo, come domandò un giorno da bere alla Samaritana, e Noi vi diciamo in suo nome ciò che Egli aggiunse per incoraggiarla a vincere la sua sorpresa: « Se tu conoscessi il dono di Dio, e chi è colui che ti dice: Dammi da bere, tu stessa ne l'avresti pregato, ed egli ti avrebbe dato un'acqua viva » (Io 4, 7. 10).
Voi ben sapete che oggidì moltissimi si fanno curare negli ospedali, nelle cliniche, nei sanatori; in tal guisa un raggio sempre più vasto si offre alla vostra attività benefica. Si può dire che essa penetra quasi in ogni famiglia. Perciò Noi desideriamo vivamente che voi acquistiate una coscienza sempre più chiara delle vostre responsabilità e una volontà sempre più ardente di corrispondervi pienamente. Quindi vivamente raccomandiamo voi stessi e il vostro lavoro alla protezione e all'amore materno della Vergine Santissima, mentre di gran cuore v'impartiamo la Nostra Apostolica Benedizione.
*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, XIV,
Quattordicesimo anno di Pontificato, 2 marzo 1952 - 1° marzo 1953, pp. 155 - 159
Tipografia Poliglotta Vaticana
A.A.S., vol. XXXXIV (1952), n. 10, pp. 531 - 535.
Copyright © Dicastero per la Comunicazione - Libreria Editrice Vaticana