DISCORSO DI SUA SANTITÀ PIO PP. XII
AI PARTECIPANTI AL VI CONVEGNO NAZIONALE
DI STUDIO DELLA UNIONE DEI GIURISTI CATTOLICI ITALIANI*
Domenica, 5 dicembre 1954
Accogliete, illustri Signori, il Nostro saluto di benvenuto. Lo rivolgiamo alla vostra degna Assemblea con gli stessi sensi di gioia e di fiducia, coi quali vi ricevemmo lo scorso anno. La questione, che oggi prendiamo in esame, Ci è stata segnalata da uno dei vostri, l'insigne Professor Carnelutti. É la funzione della pena, il redimere il colpevole mediante la penitenza »; questione che Noi ameremmo di formulare così: la colpa e la pena nella loro vicendevole connessione. Vorremmo, cioè, indicare a larghi tratti il cammino dell'uomo dallo stato di non colpevolezza, attraverso il fatto della colpa, a quello di colpa e di pena (reatus culpae et poenae); e viceversa, il ritorno da questo stato, attraverso il pentimento e la espiazione, a quello di liberazione dalla colpa e dalla pena. Noi potremo allora vedere più chiaramente quale è la origine della pena, quale ne è la essenza, quale la funzione, quale forma essa deve prendere per condurre il colpevole alla sua liberazione.
I. - LA VIA VERSO LA COLPA E LA PENA
Occorre qui premettere due avvertenze.
Innanzi tutto il problema della colpa e della pena è un problema di persona, e ciò in un duplice aspetto. La via verso la colpa prende le mosse dalla persona del soggetto attivo, dal suo « Io ». Nella somma degli atti, che da essa provengono come da centro di azione, sono qui da considerare soltanto quelli che si basano su di una cosciente e voluta determinazione; atti cioè che l'Io poteva compiere o non compiere, che compie perché egli stesso vi si è liberamente risolto. Questa funzione centrale dell'Io verso sè stesso — anche se operante sotto influssi di diversa natura — è un elemento necessario, se si vuol parlare di. vera colpa e di vera pena.
Il fatto colpevole è però sempre anche una posizione di persona contro persona, tanto se l'oggetto immediato della colpa è una cosa, come nel furto, quanto se è una persona, come nell'omicidio: inoltre l'Io della persona, che si rende colpevole, si dirige contro l'Autorità superiore, quindi in conclusione sempre contro l'autorità di Dio. Nel che Noi, che abbiamo di mira il genuino problema della colpa e della pena propriamente dette. prescindiamo dalla colpa meramente giuridica e dalla sua conseguente penalità.
È poi da osservare che la persona e la funzione personale del colpevole formano una stretta unità, che alla sua volta presenta differenti aspetti. Essa riguarda al tempo stesso il campo psicologico, giuridico, etico e religioso. Questi aspetti si possono bensì considerare anche separatamente; ma nelle vere colpa e pena sono fra di loro così connessi, che soltanto nel loro complesso è possibile di formarsi un giusto concetto circa il colpevole e la questione della colpa e della pena. Non si può dunque nemmeno trattare questo problema unilateralmente, soltanto sotto l'aspetto giuridico.
La via verso la colpa è quindi questa : lo spirito dell'uomo si trova nella seguente posizione: dinanzi ad un fare o ad un omettere, che a lui si presenta come semplicemente obbligante, come un assoluto « tu devi », una incondizionata esigenza da attuarsi con determinazione personale. A questa esigenza l'uomo rifiuta di obbedire: respinge il bene, adotta il male. Alla interna risoluzione, quando essa non si esaurisce in sè stessa, segue l'azione esterna. In tal guisa l'atto colpevole è compiuto nel suo elemento sia interno che esterno.
Natura e vari aspetti dell'atto colpevole
In ciò che riguarda il lato soggettivo della colpa, per un retto giudizio occorre tener conto non solo del fatto esteriore, ma anche degl'influssi provenienti dall'interno e dall'esterno, che hanno cooperato nella risoluzione del colpevole, come disposizioni innate o acquisite, impulsi o impedimenti, impronte della educazione, irradiazioni delle persone e delle cose in mezzo a cui vive, fattori delle circostanze, e in particolar modo l'abituale ed attuale intensità del volere, la cosiddetta « energia criminale », che ha contribuito al compimento del fatto colpevole.
Considerato nel suo termine, il fatto colpevole è un arrogante disprezzo dell'Autorità, che comanda di mantenere l'ordine del giusto e del buono, e che è la fonte, la custode, la tutrice e la vindice dell'ordine stesso. E poichè ogni umana Autorità non può finalmente derivare che da Dio, ogni fatto colpevole è una opposizione contro Dio stesso, il suo supremo diritto e la sua somma maestà. Questo aspetto religioso è immanente ed essenzialmente congiunto col fatto colpevole.
Termine di questo fatto è anche la comunità di diritto pubblico, se ed in quanto esso mette in pericolo e viola l'ordine stabilito dalle leggi. Tuttavia non ogni vero atto colpevole, come è stato sopra descritto, ha il carattere di colpa di diritto pubblico. Il potere pubblico deve occuparsi soltanto di quelle azioni colpevoli, che offendono la regolare convivenza nell'ordine fissato dalle leggi. Da qui la regola circa la colpa giuridica : Nulla culpa sine lege. Ma una tale violazione, se è d'altronde in sè stessa un vero atto colpevole, è sempre anche una violazione della norma etica e religiosa. Da ciò consegue che quelle leggi umane, le quali si trovino in contraddizione con le leggi divine, non possono formare la base per un vero fatto colpevole di diritto pubblico.
Col concetto del fatto colpevole è congiunto quello che il suo autore diviene meritevole di pena (reatus poenae). Il problema della pena ha dunque principio, nel singolo caso, al momento in cui l'uomo diviene colpevole. La pena è la reazione, richiesta dal diritto e dalla giustizia, alla colpa: sono come colpo e contraccolpo. L'ordine violato con l'atto colpevole esige reintegrazione e ristabilimento del turbato equilibrio. È ufficio proprio del diritto e della giustizia di custodire e preservare la concordanza fra il dovere, da una parte, e il diritto, dall'altra, e di ristabilirla, se fosse lesa. La pena non tocca per sè il fatto colpevole, ma l'autore di esso, la sua persona, il suo Io, che con cosciente determinazione ha compiuto l'azione colpevole. Parimente la punizione non viene quasi da un astratto ordinamento giuridico, ma dalla persona concreta investita della legittima Autorità. Come l'azione colpevole, così anche la punizione mette di fronte persona a persona.
Senso e scopo della pena
La pena propriamente detta non può dunque avere altro senso e scopo che quello testè enunciato, di ricondurre nuovamente nell'ordine del dovere il violatore del diritto, che ne era uscito. Questo ordine del dovere è necessariamente una espressione dell'ordine dell'essere, dell'ordine del vero e del buono, che solo ha diritto di esistenza, in opposizione all'errore ed al male, che rappresentano ciò che deve non essere. La pena compie il suo ufficio a suo modo, in quanto costringe il colpevole, a causa dell'atto compiuto, ad una sofferenza, cioè alla privazione di un bene e alla imposizione di un male. Affinchè però questa sofferenza sia una pena, è essenziale la causale connessione con la colpa.
IL - LO STATO DI COLPA E DI PENA
Aggiungiamo che il colpevole ha creato col suo atto uno stato, che per sè non cessa col cessare del fatto stesso. Egli rimane colui che ha coscientemente e volutamente violato una norma obbligatoria (reatus culpae) e con ciò è incorso nella pena (reatus poenae). Questo stato personale perdura, anche nella sua posizione di fronte all'Autorità da cui egli dipende, ossia all'Autorità umana di diritto pubblico, in quanto questa ha parte nel corrispondente processo penale, ed inoltre, e sempre, di fronte alla suprema Autorità divina. Si forma così un durevole stato di colpa e di pena, che indica una particolare condizione del colpevole dinanzi alla Autorità offesa e di questa verso il colpevole (cfr. S. Thom. S. Th. 3 p. q. 69 a. 2 obj. 3 et ad 3).
È stato tentato, partendo dal concetto che tempo e spazio, formalmente in quanto tali, non siano semplicemente realtà, ma strumenti e forme del pensiero, di trarre la conclusione che dopo la cessazione del fatto colpevole e della pena stessa non si possa più parlare di una loro qualsiasi permanenza nella realtà, nell'ordine reale, e quindi di uno stato di colpa e di pena. Se cosi fosse, si dovrebbe rinunziare al principio : « Quod factum est infectum fieri nequit ». Applicato ad un fatto spirituale — e tale è in sè stesso l'atto colpevole —, quel principio si baserebbe — così si afferma — sopra una falsa valutazione e ad un errato uso del concetto di « tempo » — Oltrepasseremmo i limiti di questo Nostro discorso, se volessimo trattare qui la questione dello spazio e del tempo. Basterà di notare che lo spazio e il tempo sono non una semplice forma del pensiero, ma hanno un fondamento nella realtà. Ad ogni modo la conseguenza, che se ne vuol trarre, contro la esistenza di uno stato di colpa, non vale. Senza dubbio la caduta dell'uomo nella colpa avviene su questa terra in un determinato luogo e in un determinato tempo, ma essa non è una qualità di quel luogo e di quel tempo, e quindi la sua cessazione non è legata con la cessazione di un « qui » e di un o ora ».
Quanto abbiamo esposto riguarda la essenza dello stato di colpa e di pena. Per ciò invece che concerne l'Autorità superiore, alla quale il colpevole ha negato la dovuta subordinazione e obbedienza, la sua indignazione, e disapprovazione si rivolgono non solo contro il fatto, ma contro l'autore stesso, contro la sua persona a cagione del suo atto.
Con l'atto della colpa è immediatamente congiunta, come si è già accennato, non la pena stessa, ma la reità e la punibilità dell'atto medesimo. Ciò nondimeno, non è esclusa una pena, in cui s'incorra, in virtù di una legge, automaticamente, al momento dell'atto colpevole. Nel diritto canonico si conoscono le poenae latae sententiae ipso facto commissi delicti incurrendae. Nel di ritto civile una tale pena è rara, anzi in alcuni ordinamenti giuridici è sconosciuta. Sempre poi questo automatico incorrere nella pena suppone una vera e grave colpa.
I presupposti di ogni sentenza penale
Di regola dunque la pena è inflitta dalla Autorità competente. Ciò presuppone : una legge penale vigente; un legittimo investito della autorità penale, e in lui la sicura conoscenza dell'atto da punire, tanto dal lato obbiettivo, vale a dire nell'attuazione del delitto contemplato dalla legge, quanto dal lato soggettivo, vale a dire per ciò che riguarda la colpevolezza del reo, la sua gravità ed estensione.
Questa conoscenza necessaria per emanare una sentenza penale è dinanzi al tribunale di Dio, Giudice supremo, perfettamente chiara e infallibile, e l'averla indicata non può essere senza interesse per il giurista. Dio era presente all'uomo nella interna risoluzione e nell'esterno compimento del fatto colpevole, tutto pienamente penetrando col suo sguardo fino agli ultimi particolari; tutto sta dinanzi a Lui, ora come nel momento dell'azione. Ma questa conoscenza in assoluta pienezza ed in sovrana sicurezza, in ogni istante della vita e sopra ogni azione umana, è propria solo di Dio. Per questo spetta unicamente a Dio l'ultimo giudizio sopra il valore di un uomo e la decisione sulla sua sorte definitiva. Egli pronunzia questo giudizio, come trova l'uomo al momento in cui lo chiama nella eternità. Tuttavia un infallibile giudizio di Dio si ha anche durante la vita terrena, e non solo su tutto il suo complesso, ma anche sopra ogni singolo atto colpevole e la corrispondente pena; che anzi in non pochi casi Egli la eseguisce già durante la vita dell'uomo, nonostante la sempre pronta disposizione divina alla remissione ed al perdono.
La certezza morale nei giudizi umani
Il giudice umano, invece, il quale non ha la onnipresenza e la onniscienza di Dio, ha il dovere di formarsi, prima di emanare la sentenza giudiziale, una certezza morale, vale a dire che escluda ogni ragionevole e serio dubbio circa il fatto esteriore e l'interna colpevolezza. Ora però egli non ha una immediata visione dello stato interiore dell'imputato, come era nel momento dell'azione; anzi il più delle volte non è in grado di ricostruirlo con piena chiarezza dagli argomenti di prova, e talvolta neppure dalla confessione stessa del colpevole. Ma questa mancanza ed impossibilità non deve essere esagerata, come se fosse d'ordinario impossibile al giudice umano di conseguire una sufficiente sicurezza, e quindi un solido fondamento per la sentenza. Secondo i casi, il giudice non mancherà di consultare rinomati specialisti sulla capacità e responsabilità del presunto reo e di tener conto dei risultati delle moderne scienze psicologiche, psichiatriche e caratteriologiche. Se nonostante tutte queste premure, rimane ancora un importante e serio dubbio, nessun giudice coscienzioso procederà a una sentenza di condanna, tanto più quanto si tratta di una pena irrimediabile, come la pena di morte.
Nella maggior parte dei delitti l'esterno comportamento manifesta già sufficientemente l'interno sentimento, da cui esso è scaturito. Dunque di regola si può — ed anzi talvolta si deve — dall'esterno dedurre una conclusione sostanzialmente esatta, se non si vogliono rendere impossibili le azioni giuridiche fra gli uomini. D'altra parte, non si deve neanche dimenticare che nessuna sentenza umana decide in ultima istanza e definitivamente la sorte di un uomo, ma soltanto il giudizio di Dio, sia per i singoli atti, come per la vita intera. Quindi per tutto ciò in cui i giudici umani vengono a fallire, il Giudice supremo ristabilirà l'equilibrio, dapprima, immediatamente dopo la morte, nel giudizio definitivo sulla vita intera di un uomo, e quindi, più tardi e più completamente, dinanzi a tutti, nell'ultimo giudizio universale. Non come se ciò dispensi il giudice da una coscienziosa ed esatta cura nell'inchiesta; ma è qualche cosa di grande il sapere che si avrà un'ultima adequazione della colpa e della pena, che nulla lascerà a desiderare per la sua perfezione.
Chi è incaricato dell'assistenza dell'imputato nel carcere preventivo non trascuri di tener presente quale peso e quale sofferenza già la inchiesta stessa cagiona al detenuto, anche quando non si applicano metodi di investigazione, che non possono in alcun modo essere ammessi. Queste sofferenze non vengono ordinariamente calcolate nella pena che sarà infine irrogata, e d'altronde difficilmente ciò potrebbe conseguirsi. Occorre tuttavia che ne rimanga il consapevole ricordo.
Nel campo giuridico esterno è decisiva per il pieno stato della colpa e della pena la sentenza del tribunale.
Alcune proposte di riforma
Nei vostri ceti, illustri Signori, si è manifestato il voto che si introduca per via legislativa un qualche rallentamento del vincolo che lega il giudice agli articoli del Codice penale, non già quasi nel senso dell'attività del pretore nel diritto romano « adiuvandi, supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia », ma nel senso di un più libero apprezzamento dei fatti obbiettivi al di fuori delle norme giuridiche generali circoscritte dal potere legislativo; cosicchè anche nel diritto penale si possa applicare una certa « analogia iuris », e il potere discrezionale del giudice esperisca un ampliamento dei limiti finora vigenti. Si crede che in tal guisa si avrebbe una notevole semplificazione delle leggi penali e una considerevole diminuzione del numero dei singoli delitti, e si otterrebbe di far meglio comprendere al popolo quel che lo Stato considera come meritevole di pena e per quali motivi.
A tale concetto si può senza dubbio riconoscere un qualche fondamento. Ad ogni modo, i fini, per i quali è fatta tale proposta, cioè, semplificazione delle norme di legge; messa in valore non solo dello stretto diritto formale, ma anche della equità e del sano spontaneo giudizio, maggiore adattamento del diritto penale al sentimento del popolo; questi fini — diciamo — non danno luogo ad obbiezioni. La difficoltà dovrebbe sorgere non tanto dal lato teorico, quanto nella forma della sua attuazione, la quale, da una parte, dovrebbe conservare le garanzie del regolamento vigente, e, dall'altra, tener conto dei nuovi bisogni e dei ragionevoli desideri di riforma. Il diritto canonico offre esempi in tal senso, come si rileva nei can. 2220-2223 del C. I. C.
Varietà ed efficacia delle pene
Per ciò che riguarda le varie specie di pene (pene concernenti l'onore [la capacità giuridica], i beni patrimoniali, la libertà personale, il corpo e la vita - le pene corporali non sono comprese nel diritto italiano in questa Nostra esposizione Ci restringeremo a considerarle soltanto in quanto in esse si manifestano la natura e lo scopo della pena. Poichè, però, come abbiamo già accennato, alcuni non sono della stessa opinione intorno al senso e al fine della pena, ne viene come conseguenza che diverso è anche il loro atteggiamento rispetto alle differenti pene.
Fino ad un certo grado può esser vero che la pena del carcere o della reclusione, debitamente applicata, è la più atta a procurare il ritorno del colpevole nel retto ordine e nella vita della comunità. Ma da ciò non consegue che essa sia la sola buona e giusta. Viene qui a proposito quanto Noi stessi dicemmo nel Nostro discorso sul diritto penale internazionale del 3 Ottobre 1953 intorno alla teoria della retribuzione (cfr. Discorsi e Radiomessaggi, vol. 15 pag. 351, 353). La pena vendicativa è da molti, sebbene non generalmente, respinta, anche se è proposta non come esclusiva, ma accanto alle pene medicinali. Noi abbiamo allora affermato che non sarebbe giusto il respingere in principio e totalmente la funzione della pena vendicativa. Finchè l'uomo è sulla terra, anche questa può e deve servire alla sua definitiva salvezza, qualora egli stesso non ponga altrimenti ostacolo alla efficacia salutare della pena stessa. Tale efficacia infatti non è in alcun modo in opposizione con la funzione di equilibrio e di reintegrazione dell'ordine turbato, che abbiamo già indicata come essenziale alla pena.
Esecuzione della pena
La irrogazione di una pena trova il suo naturale compimento con la esecuzione della pena stessa, considerata come la effettiva privazione di un bene o la positiva imposizione di un male, de terminate dalla legittima Autorità quale reazione all'atto colpevole. È un adequamento non immediatamente della colpa, ma del turbamento dell'ordine giuridico. L'atto colpevole ha manifestato nella persona del reo un qualche elemento che non è d'accordo col bene comune e con una ordinata convivenza sociale. Tale elemento deve essere rimosso dal reo. Questo processo di rimozione è paragonabile all'intervento medico nell'organismo, intervento che può essere assai doloroso, specialmente quando si debbono colpire non soltanto i sintomi, ma la causa stessa della malattia. Il bene del reo, e forse anche più della comunità, esige che il membro malato torni ad essere sano. Ma come la cura dell'infermo, così anche il trattamento della pena, richiede una chiara diagnosi non solo sintomatica, ma anche etiologica, una terapia adattata al male, una cauta prognosi ed una appropriata profilassi complementare.
Le reazioni del condannato...
Quale via il reo debba prendere, è indicato dal senso obbiettivo e dal fine della pena, come dalla intenzione, il più delle volte conforme, dell'Autorità punitrice. È la via della conoscenza del mal fatto, che gli ha cagionato la pena; la via dell'avversione e del ripudio dell'atto stesso; la via del pentimento, dell'espiazione e della purificazione, del proposito efficace per l'avvenire. È la via che il condannato deve prendere. La questione però è quale via egli prenderà in realtà. Con lo sguardo rivolto a tale questione, può essere utile di considerare la sofferenza causata dalla pena secondo i diversi lati che essa presenta: lo psicologico, il giuridico, il morale e il religioso, quantunque normalmente questi vari aspetti sono in realtà come uniti in un solo.
... nell'aspetto psicologico...
Psicologicamente, la natura spontaneamente reagisce contro il concreto male della pena, in modo tanto più veemente, quanto più profonda è la sofferenza che colpisce la natura dell'uomo in generale, o il temperamento individuale del singolo. A ciò si accompagna, anche spontaneamente, il dirigersi ed il fissarsi dell'attenzione del reo sull'atto colpevole, causa della pena, e la cui connessione è viva dinanzi al suo spirito o che, in ogni caso, si fa Ora in Prima linea presente alla sua coscienza.
Dopo tali più o meno involontari atteggiamenti, apparisce la reazione consapevole e voluta dell'Io, centro e fonte di tutte le funzioni personali. Questa più alta reazione può essere una volonterosa positiva accettazione, come si manifesta nelle parole del buon ladrone sulla Croce: « Digna factis recipimus »: « Riceviamo quel che meritavano le nostre azioni » (Luc. 23, 41). Può essere anche una passiva rassegnazione; o invece un profondo esacerbamento, un totale intimo crollo; ma altresì un superbo indurimento, che talvolta giunge sino a un indurimento nel male; o finalmente una quasi selvaggia impotente rivolta interna ed esterna. Tale reazione psicologica prende diverse forme, se si tratta di una pena durevole, o al contrario di una pena ristretta quanto al tempo ad un attimo, mentre per altezza e profondità sorpassa ogni misura di tempo, come la pena di morte.
... nell'ambito giuridico...
Giuridicamente, l'esecuzione della pena significa l'effettiva valida azione del superiore e più forte potere della comunità giuridica (o meglio, di chi ha in essa l'autorità) sopra il violatore del diritto, che nella sua volontà ostinata e contraria alla legge ha trasgredito colpevolmente l'ordine giuridico stabilito, ed è ora costretto a sottomettersi alle prescrizioni dell'ordine stesso, - per il maggior bene della comunità e dello stesso reo. Con. ciò appare chiaramente il concetto e la necessità del diritto penale.
D'altra parte la giustizia esige che nella esecuzione delle disposizioni della legge penale sia evitato ogni aggravamento delle pene sancite nella sentenza, ogni arbitrio e ogni durezza, ogni vessazione e ogni provocazione. La superiore Autorità ha il dovere di vigilare l'esecuzione della pena e di darle la forma rispondente al suo scopo, non in rigido adempimento delle singole sue prescrizioni e paragrafi, ma in possibile adattamento alla persona che soggiace alla pena medesima. Già la serietà e il decoro della potestà penale e del suo esercizio suggeriscono naturalmente alla pubblica Autorità di ravvisare il suo principale ufficio nel contatto con la persona del reo. Dovrà poi giudicarsi secondo le particolari circostanze, se ai doveri di quell'ufficio potrà essere pienamente provveduto mediante i propri organi. Il più delle volte, se non sempre, una parte dovrà essere affidata ad altri, specialmente la vera e propria cura delle anime.
È stato da alcuni proposto che sarebbe opportuno di fondare una Congregazione religiosa o un Istituto secolare, a cui venga commessa l'assistenza psicologica dei carcerati nella più vasta misura. Senza dubbio già da molto tempo buone religiose hanno portato un raggio di sole e i benefici della carità cristiana nelle case femminili di pena; ed è questa per Noi una ben accetta occasione per rivolgere loro una parola di riconoscimento e di gratitudine. Tuttavia quella proposta Ci sembra degna di ogni considerazione, ed anzi esprimiamo l'augurio non soltanto che una simile fondazione, non meno che gli organi religiosi ed ecclesiastici già attivi in quelle case, lascino operare le energie che scaturiscono dalla fede cristiana, ma anche che tutti i sicuri risultati provenienti dalle indagini e dalle esperienze psicologiche, psichiatriche, pedagogiche e sociologiche siano adibiti a vantaggio dei carcerati. Ciò naturalmente suppone in coloro che sono chiamati ad applicarli una piena formazione professionale.
Nessuno, che sia in qualche modo familiare con la realtà della esecuzione delle pene, nutrirà utopistiche speranze d'importanti successi. All'influsso esteriore deve venire incontro la buona volontà del condannato, ma questa non si può ottenere con la forza. Voglia la Provvidenza divina destarla e dirigerla con la sua grazia!
... nel lato morale...
Il lato etico della esecuzione della pena e della sofferenza che essa apporta è in relazione con gli scopi e i principi che debbono determinare le disposizioni della volontà del condannato.
Soffrire in questa vita terrena significa quasi un volgere lo spirito dall'esterno all'interno; è una via che allontana dalla superficie e conduce nella profondità. Così considerato, il soffrire è per l'uomo di un alto valore morale. La sua volonterosa accettazione, supponendo la retta intenzione, è un'opera preziosa. « Patientia opus perfectum habet », scrive l'Apostolo S. Giacomo ( 1, 4). Ciò vale anche per la sofferenza causata dalla pena. Essa Può essere un avanzamento nella vita interiore. Secondo la sua Propria natura, è una riparazione e un ristabilimento — mediante la persona e nella persona del reo, e da questo voluta — dell'ordine sociale colpevolmente violato. L'essenza del ritorno al bene consiste propriamente non nella volonterosa accettazione della sofferenza, ma nell'allontanamento dalla colpa. A questo può condurre la sofferenza medesima, e la conversione dalla colpa può alla sua volta conferire ad essa un più alto valore morale, e facilitare ed elevare la sua efficacia etica. Così la sofferenza può assorgere fino ad un eroismo morale, ad un'eroica pazienza ed espiazione.
Nel campo della reazione morale non mancano però anche manifestazioni contrarie. Spesso il valore etico della pena non viene nemmeno conosciuto; spesso è consapevolmente e volontariamente respinto. Il reo non vuole riconoscere nè ammettere alcuna sua colpa, non vuole in alcun modo sottomettersi e piegarsi al bene, non vuole nessuna espiazione o penitenza per le colpe personali.
... nell'elemento religioso.
Ed ora una breve parola circa il lato religioso della sofferenza causata dalla pena.
Ogni colpa morale dell'uomo, anche se materialmente commessa anzitutto soltanto nell'ambito di legittime leggi umane, ed ora punita da uomini secondo il positivo diritto umano, è sempre anche una colpa dinanzi a Dio e di Dio attira su di sè un giudizio penale. Non è nell'interesse della pubblica autorità il non farne semplicemente caso. La Sacra Scrittura insegna (Rom. 13, 2-4) che l'autorità umana, entro la sua competenza, altro non è nell'adempimento della pena che la esecutrice della giustizia divina. « Dei enim, minister est, vindex in iram ei, qui malum agit ».
Questo elemento religioso della esecuzione della pena trova nella persona del reo la sua espressione e la sua attuazione, in quanto egli si umilia sotto la mano di Dio che punisce mediante gli uomini; accetta dunque la sofferenza da Dio, la offre a Dio come parziale sconto del debito che egli ha dinanzi a Lui. Una pena così sopportata diviene per il reo su questa terra una fonte di interna purificazione, di piena conversione, di invigorimento per il futuro, di protezione contro ogni ricaduta. Un patimento così sopportato con fede, pentimento ed amore è santificato dai dolori di Cristo e accompagnato dalla sua grazia. Questo religioso e sacro senso della sofferenza causata dalla pena si palesa a noi nelle parole del buon ladrone al suo compagno di crocifissione: « Digna factis recipimus »: Riceviamo quel che meritavano le nostre azioni », e nella preghiera al morente Redentore: « Domine, menzento mei, cum veneris in regnum tuum » « Signore, ricordati di me, quando verrai nell'aureola del tuo regno »; preghiera che, messa sulla bilancia di Dio, portò al peccatore pentito l'assicurazione del Signore: « Hodie mecum eris in paradiso » « Oggi sarai con me in paradiso » (Luc. 23, 41-43): quasi la prima indulgenza plenaria, da Cristo stesso concessa.
Possano tutti coloro, che sono caduti sotto i colpi della umana giustizia, soffrire la pena loro inflitta non per puro costringimento, non senza Dio e senza Cristo, non in rivolta contro Dio, non spiritualmente spezzandosi nel loro dolore; ma possa per esso aprirsi loro la via che conduce verso la santità!
*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, XVI,
Sedicesimo anno di Pontificato, 2 marzo 1954 - 1° marzo 1955, pp. 277 - 289
Tipografia Poliglotta Vaticana
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