DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI CAPI DI STATO E DI GOVERNO DELL’UNIONE EUROPEA,
IN OCCASIONE DEL 60° ANNIVERSARIO
DELLA FIRMA DEI TRATTATI DI ROMA
Sala Regia
Venerdì, 24 marzo 2017
Illustri Ospiti,
Vi ringrazio per la Vostra presenza questa sera, alla vigilia del 60° anniversario della firma dei Trattati istitutivi della Comunità Economica Europea e della Comunità Europea dell’Energia Atomica. A ciascuno desidero significare l’affetto che la Santa Sede nutre per i Vostri rispettivi Paesi e per l’Europa intera, ai cui destini è, per disposizione della Provvidenza, inscindibilmente legata. Particolare gratitudine esprimo all’On. Paolo Gentiloni, Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, per le deferenti parole che ha rivolto a nome di tutti e per l’impegno che l’Italia ha profuso nella preparazione di questo incontro; come pure all’On. Antonio Tajani, Presidente del Parlamento Europeo, che ha dato voce alle attese dei popoli dell’Unione nella presente ricorrenza.
Ritornare a Roma sessant’anni dopo non può essere solo un viaggio nei ricordi, quanto piuttosto il desiderio di riscoprire la memoria vivente di quell’evento per comprenderne la portata nel presente. Occorre immedesimarsi nelle sfide di allora, per affrontare quelle dell’oggi e del domani. Con i suoi racconti, pieni di rievocazioni, la Bibbia ci offre un metodo pedagogico fondamentale: non si può comprendere il tempo che viviamo senza il passato, inteso non come un insieme di fatti lontani, ma come la linfa vitale che irrora il presente. Senza tale consapevolezza la realtà perde la sua unità, la storia il suo filo logico e l’umanità smarrisce il senso delle proprie azioni e la direzione del proprio avvenire.
Il 25 marzo 1957 fu una giornata carica di attese e di speranze, di entusiasmo e di trepidazione, e solo un evento eccezionale, per la portata e le conseguenze storiche, poteva renderla unica nella storia. La memoria di quel giorno si unisce alle speranze dell’oggi e alle attese dei popoli europei che domandano di discernere il presente per proseguire con rinnovato slancio e fiducia il cammino iniziato.
Ne erano ben consapevoli i Padri fondatori e i leader che, apponendo la propria firma sui due Trattati, hanno dato vita a quella realtà politica, economica, culturale, ma soprattutto umana, che oggi chiamiamo Unione Europea. D’altra parte, come disse il Ministro degli Affari Esteri belga Spaak, si trattava, «è vero, del benessere materiale dei nostri popoli, dell’espansione delle nostre economie, del progresso sociale, di possibilità industriali e commerciali totalmente nuove, ma soprattutto (…) [di] una particolare concezione della vita a misura d’uomo, fraterna e giusta»[1].
Dopo gli anni bui e cruenti della Seconda Guerra Mondiale, i leader del tempo hanno avuto fede nella possibilità di un avvenire migliore, «non hanno mancato d’audacia e non hanno agito troppo tardi. Il ricordo delle passate sventure e delle loro colpe sembra averli ispirati e donato loro il coraggio necessario per dimenticare le vecchie contese e pensare ed agire in modo veramente nuovo per realizzare la più grande trasformazione […] dell’Europa»[2].
I Padri fondatori ci ricordano che l’Europa non è un insieme di regole da osservare, non un prontuario di protocolli e procedure da seguire. Essa è una vita, un modo di concepire l’uomo a partire dalla sua dignità trascendente e inalienabile e non solo come un insieme di diritti da difendere, o di pretese da rivendicare. All’origine dell’idea d’Europa vi è «la figura e la responsabilità della persona umana col suo fermento di fraternità evangelica, […] con la sua volontà di verità e di giustizia acuita da un’esperienza millenaria»[3]. Roma, con la sua vocazione all’universalità[4], è il simbolo di questa esperienza e per questo fu scelta come luogo della firma dei Trattati, poiché qui – ricordò il Ministro degli Affari Esteri olandese Luns – «furono gettate le basi politiche, giuridiche e sociali della nostra civiltà»[5].
Se fu chiaro fin da principio che il cuore pulsante del progetto politico europeo non poteva che essere l’uomo, fu altrettanto evidente il rischio che i Trattati rimanessero lettera morta. Essi dovevano essere riempiti di spirito vitale. E il primo elemento della vitalità europea è la solidarietà. «La Comunità economica europea – affermava il Primo Ministro lussemburghese Bech – vivrà e avrà successo soltanto se, durante la sua esistenza, resterà fedele allo spirito di solidarietà europea che l’ha creata e se la volontà comune dell’Europa in gestazione è più potente delle volontà nazionali»[6]. Tale spirito è quanto mai necessario oggi, davanti alle spinte centrifughe come pure alla tentazione di ridurre gli ideali fondativi dell’Unione alle necessità produttive, economiche e finanziarie.
Dalla solidarietà nasce la capacità di aprirsi agli altri. «I nostri piani non sono di natura egoistica»[7], disse il Cancelliere tedesco Adenauer. «Senza dubbio, i Paesi che stanno per unirsi (…) non intendono isolarsi dal resto del mondo ed erigere intorno a loro barriere invalicabili»[8], gli fece eco il Ministro degli Affari Esteri francese Pineau. In un mondo che conosceva bene il dramma di muri e divisioni, era ben chiara l’importanza di lavorare per un’Europa unita e aperta e la comune volontà di adoperarsi per rimuovere quell’innaturale barriera che dal Mar Baltico all’Adriatico divideva il continente. Tanto si faticò per far cadere quel muro! Eppure oggi si è persa la memoria della fatica. Si è persa pure la consapevolezza del dramma di famiglie separate, della povertà e della miseria che quella divisione provocò. Laddove generazioni ambivano a veder cadere i segni di una forzata inimicizia, ora si discute di come lasciare fuori i “pericoli” del nostro tempo: a partire dalla lunga colonna di donne, uomini e bambini, in fuga da guerra e povertà, che chiedono solo la possibilità di un avvenire per sé e per i propri cari.
Nel vuoto di memoria che contraddistingue i nostri giorni, spesso si dimentica anche un’altra grande conquista frutto della solidarietà sancita il 25 marzo 1957: il più lungo tempo di pace degli ultimi secoli. «Popoli che nel corso dei tempi spesso si sono trovati in campi opposti, gli uni contro gli altri a combattersi, (…) ora, invece, si ritrovano uniti attraverso la ricchezza delle loro peculiarità nazionali»[9]. La pace si edifica sempre con il contributo libero e consapevole di ciascuno. Tuttavia, «per molti oggi [essa] sembra, in qualche modo, un bene scontato»[10] e così è facile finire per considerarla superflua. Al contrario, la pace è un bene prezioso ed essenziale, poiché senza di essa non si è in grado di costruire un avvenire per nessuno e si finisce per “vivere alla giornata”.
L’Europa unita nasce, infatti, da un progetto chiaro, ben definito, adeguatamente ponderato, anche se al principio solo embrionale. Ogni buon progetto guarda al futuro e il futuro sono i giovani, chiamati a realizzare le promesse dell’avvenire[11]. Nei Padri fondatori era, dunque, chiara la consapevolezza di essere parte di un’opera comune, che non solo attraversava i confini degli Stati, ma anche quelli del tempo così da legare le generazioni fra loro, tutte egualmente partecipi della edificazione della casa comune.
Illustri Ospiti,
Ai Padri dell’Europa ho dedicato questa prima parte del mio intervento, perché ci lasciassimo provocare dalle loro parole, dall’attualità del loro pensiero, dall’appassionato impegno per il bene comune che li ha caratterizzati, dalla certezza di essere parte di un’opera più grande delle loro persone e dall’ampiezza dell’ideale che li animava. Il loro denominatore comune era lo spirito di servizio, unito alla passione politica, e alla consapevolezza che «all’origine della civiltà europea si trova il cristianesimo»[12], senza il quale i valori occidentali di dignità, libertà e giustizia risultano per lo più incomprensibili. «E ancor oggi – affermava san Giovanni Paolo II –, l’anima dell’Europa rimane unita, perché, oltre alle sue origini comuni, vive gli identici valori cristiani e umani, come quelli della dignità della persona umana, del profondo sentimento della giustizia e della libertà, della laboriosità, dello spirito di iniziativa, dell’amore alla famiglia, del rispetto della vita, della tolleranza, del desiderio di cooperazione e di pace, che sono note che la caratterizzano»[13]. Nel nostro mondo multiculturale tali valori continueranno a trovare piena cittadinanza se sapranno mantenere il loro nesso vitale con la radice che li ha generati. Nella fecondità di tale nesso sta la possibilità di edificare società autenticamente laiche, scevre da contrapposizioni ideologiche, nelle quali trovano ugualmente posto l’oriundo e l’autoctono, il credente e il non credente.
Negli ultimi sessant’anni il mondo è molto cambiato. Se i Padri fondatori, che erano sopravvissuti ad un conflitto devastante, erano animati dalla speranza di un futuro migliore e determinati dalla volontà di perseguirlo, evitando l’insorgere di nuovi conflitti, il nostro tempo è più dominato dal concetto di crisi. C’è la crisi economica, che ha contraddistinto l’ultimo decennio, c’è la crisi della famiglia e di modelli sociali consolidati, c’è una diffusa “crisi delle istituzioni” e la crisi dei migranti: tante crisi, che celano la paura e lo smarrimento profondo dell’uomo contemporaneo, che chiede una nuova ermeneutica per il futuro. Tuttavia, il termine “crisi” non ha una connotazione di per sé negativa. Non indica solo un brutto momento da superare. La parola crisi ha origine nel verbo greco crino (κρίνω), che significa investigare, vagliare, giudicare. Il nostro è dunque un tempo di discernimento, che ci invita a vagliare l’essenziale e a costruire su di esso: è dunque un tempo di sfide e di opportunità.
Qual è allora l’ermeneutica, la chiave interpretativa con la quale possiamo leggere le difficoltà del presente e trovare risposte per il futuro? La rievocazione del pensiero dei Padri sarebbe infatti sterile se non servisse a indicarci un cammino, se non diventasse stimolo per l’avvenire e sorgente di speranza. Ogni corpo che perde il senso del suo cammino, cui viene a mancare questo sguardo in avanti, patisce prima un’involuzione e a lungo andare rischia di morire. Quale dunque il lascito dei Padri fondatori? Quali prospettive ci indicano per affrontare le sfide che ci attendono? Quale speranza per l’Europa di oggi e di domani?
Le risposte le ritroviamo proprio nei pilastri sui quali essi hanno inteso edificare la Comunità economica europea e che ho già ricordati: la centralità dell’uomo, una solidarietà fattiva, l’apertura al mondo, il perseguimento della pace e dello sviluppo, l’apertura al futuro. A chi governa compete discernere le strade della speranza - questo è il vostro compito: discernere le strade della speranza - , identificare i percorsi concreti per far sì che i passi significativi fin qui compiuti non abbiano a disperdersi, ma siano pegno di un cammino lungo e fruttuoso.
L’Europa ritrova speranza quando l’uomo è il centro e il cuore delle sue istituzioni. Ritengo che ciò implichi l’ascolto attento e fiducioso delle istanze che provengono tanto dai singoli, quanto dalla società e dai popoli che compongono l’Unione. Purtroppo, si ha spesso la sensazione che sia in atto uno “scollamento affettivo” fra i cittadini e le Istituzioni europee, sovente percepite lontane e non attente alle diverse sensibilità che costituiscono l’Unione. Affermare la centralità dell’uomo significa anche ritrovare lo spirito di famiglia, in cui ciascuno contribuisce liberamente secondo le proprie capacità e doti alla casa comune. È opportuno tenere presente che l’Europa è una famiglia di popoli [14] e – come in ogni buona famiglia – ci sono suscettibilità differenti, ma tutti possono crescere nella misura in cui si è uniti. L’Unione Europea nasce come unità delle differenze e unità nelle differenze. Le peculiarità non devono perciò spaventare, né si può pensare che l’unità sia preservata dall’uniformità. Essa è piuttosto l’armonia di una comunità. I Padri fondatori scelsero proprio questo termine come cardine delle entità che nascevano dai Trattati, ponendo l’accento sul fatto che si mettevano in comune le risorse e i talenti di ciascuno. Oggi l’Unione Europea ha bisogno di riscoprire il senso di essere anzitutto “comunità” di persone e di popoli consapevole che «il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma»[15] e dunque che «bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti»[16]. I Padri fondatori cercavano quell’armonia nella quale il tutto è in ognuna delle parti, e le parti sono – ciascuna con la propria originalità – nel tutto.
L’Europa ritrova speranza nella solidarietà, che è anche il più efficace antidoto ai moderni populismi. La solidarietà comporta la consapevolezza di essere parte di un solo corpo e nello stesso tempo implica la capacità che ciascun membro ha di “simpatizzare” con l’altro e con il tutto. Se uno soffre, tutti soffrono (cfr 1 Cor 12,26). Così anche noi oggi piangiamo con il Regno Unito le vittime dell’attentato che ha colpito Londra due giorni fa. La solidarietà non è un buon proposito: è caratterizzata da fatti e gesti concreti, che avvicinano al prossimo, in qualunque condizione si trovi. Al contrario, i populismi fioriscono proprio dall’egoismo, che chiude in un cerchio ristretto e soffocante e che non consente di superare la limitatezza dei propri pensieri e “guardare oltre”. Occorre ricominciare a pensare in modo europeo, per scongiurare il pericolo opposto di una grigia uniformità, ovvero il trionfo dei particolarismi. Alla politica spetta tale leadership ideale, che eviti di far leva sulle emozioni per guadagnare consenso, ma piuttosto elabori, in uno spirito di solidarietà e sussidiarietà, politiche che facciano crescere tutta quanta l’Unione in uno sviluppo armonico, così che chi riesce a correre più in fretta possa tendere la mano a chi va più piano e chi fa più fatica sia teso a raggiungere chi è in testa.
L’Europa ritrova speranza quando non si chiude nella paura di false sicurezze. Al contrario, la sua storia è fortemente determinata dall’incontro con altri popoli e culture e la sua identità «è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale»[17]. C’è interesse nel mondo per il progetto europeo. C’è stato fin dal primo giorno, con la folla assiepata in piazza del Campidoglio e con i messaggi gratulatori che giunsero da altri Stati. Ancor più c’è oggi, a partire da quei Paesi che chiedono di entrare a far parte dell’Unione, come pure da quegli Stati che ricevono gli aiuti che, con viva generosità, sono loro offerti per far fronte alle conseguenze della povertà, delle malattie e delle guerre. L’apertura al mondo implica la capacità di «dialogo come forma di incontro»[18] a tutti i livelli, a cominciare da quello fra gli Stati membri e fra le Istituzioni e i cittadini, fino a quello con i numerosi immigrati che approdano sulle coste dell’Unione. Non ci si può limitare a gestire la grave crisi migratoria di questi anni come fosse solo un problema numerico, economico o di sicurezza. La questione migratoria pone una domanda più profonda, che è anzitutto culturale. Quale cultura propone l’Europa oggi? La paura che spesso si avverte trova, infatti, nella perdita d’ideali la sua causa più radicale. Senza una vera prospettiva ideale si finisce per essere dominati dal timore che l’altro ci strappi dalle abitudini consolidate, ci privi dei confort acquisiti, metta in qualche modo in discussione uno stile di vita fatto troppo spesso solo di benessere materiale. Al contrario, la ricchezza dell’Europa è sempre stata la sua apertura spirituale e la capacità di porsi domande fondamentali sul senso dell’esistenza. All’apertura verso il senso dell’eterno è corrisposta anche un’apertura positiva, anche se non priva di tensioni e di errori, verso il mondo. Il benessere acquisito sembra invece averle tarpato le ali, e fatto abbassare lo sguardo. L’Europa ha un patrimonio ideale e spirituale unico al mondo che merita di essere riproposto con passione e rinnovata freschezza e che è il miglior rimedio contro il vuoto di valori del nostro tempo, fertile terreno per ogni forma di estremismo. Sono questi gli ideali che hanno reso Europa quella “penisola dell’Asia” che dagli Urali giunge all’Atlantico.
L’Europa ritrova speranza quando investe nello sviluppo e nella pace. Lo sviluppo non è dato da un insieme di tecniche produttive. Esso riguarda tutto l’essere umano: la dignità del suo lavoro, condizioni di vita adeguate, la possibilità di accedere all’istruzione e alle necessarie cure mediche. «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace»[19], affermava Paolo VI, poiché non c’è vera pace quando ci sono persone emarginate o costrette a vivere nella miseria. Non c’è pace laddove manca lavoro o la prospettiva di un salario dignitoso. Non c’è pace nelle periferie delle nostre città, nelle quali dilagano droga e violenza.
L’Europa ritrova speranza quando si apre al futuro. Quando si apre ai giovani, offrendo loro prospettive serie di educazione, reali possibilità di inserimento nel mondo del lavoro. Quando investe nella famiglia, che è la prima e fondamentale cellula della società. Quando rispetta la coscienza e gli ideali dei suoi cittadini. Quando garantisce la possibilità di fare figli, senza la paura di non poterli mantenere. Quando difende la vita in tutta la sua sacralità.
Illustri Ospiti,
Nel generale allungamento delle prospettive di vita, sessant’anni sono oggi considerati il tempo della piena maturità. Un’età cruciale nella quale ancora una volta si è chiamati a mettersi in discussione. Anche l’Unione Europea è chiamata oggi a mettersi in discussione, a curare gli inevitabili acciacchi che vengono con gli anni e a trovare percorsi nuovi per proseguire il proprio cammino. A differenza però di un essere umano di sessant’anni, l’Unione Europea non ha davanti a sé un’inevitabile vecchiaia, ma la possibilità di una nuova giovinezza. Il suo successo dipenderà dalla volontà di lavorare ancora una volta insieme e dalla voglia di scommettere sul futuro. A Voi, in quanto leader, spetterà discernere la via di un «nuovo umanesimo europeo»[20], fatto di ideali e concretezza. Ciò significa non avere paura di assumere decisioni efficaci, in grado di rispondere ai problemi reali delle persone e di resistere alla prova del tempo.
Da parte mia non posso che assicurare la vicinanza della Santa Sede e della Chiesa all’Europa intera, alla cui edificazione ha da sempre contribuito e sempre contribuirà, invocando su di essa la benedizione del Signore, perché la protegga e le dia pace e progresso. Faccio perciò mie le parole che Joseph Bech pronunciò in Campidoglio: Ceterum censeo Europam esse ædificandam, d’altronde penso che l’Europa meriti di essere costruita.
Grazie.
[1] P.H. Spaak, Discorso pronunciato in occasione della firma dei Trattati di Roma, 25 marzo 1957.
[2] Ibid.
[3] A. De Gasperi, La nostra patria Europa. Discorso alla Conferenza Parlamentare Europea, 21 aprile 1954, in: Alcide De Gasperi e la politica internazionale, Cinque Lune, Roma 1990, vol. III, 437-440.
[4] Cfr P.H. Spaak, Discorso, cit.
[5] J. Luns, Discorso pronunciato in occasione della firma dei Trattati di Roma, 25 marzo 1957.
[6] J. Bech, Discorso pronunciato in occasione della firma dei Trattati di Roma, 25 marzo 1957.
[7] K. Adenauer, Discorso pronunciato in occasione della firma dei Trattati di Roma, 25 marzo 1957.
[8] C. Pineau, Discorso pronunciato in occasione della firma dei Trattati di Roma, 25 marzo 1957.
[9] P.H. Spaak, Discorso, cit.
[10] Discorso ai membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 9 gennaio 2017: L’Osservatore Romano, 9-10 gennaio 2017, p. 4.
[11] Cfr P.H. Spaak, Discorso, cit.
[12] A. De Gasperi, La nostra patria Europa, cit.
[13] Attoeuropeistico, Santiago de Compostela, 9 novembre 1982: AAS 75/I (1983), 329.
[14] Cfr Discorso al Parlamento Europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014: AAS 106 (2014), 1000.
[15] Esort. ap. Evangelii gaudium, 235.
[17] Discorso in occasione del conferimento del Premio Carlo Magno, 6 maggio 2016: L’Osservatore Romano, 6-7 maggio 2016, p. 4.
[18] Esort. ap. Evangelii gaudium, 239.
[19] Paolo VI, Lett.enc. Populorum progressio, 26 marzo 1967, 87: AAS 59 (1967), 299.
[20] Discorso in occasione del conferimento del Premio Carlo Magno, 6 maggio 2016: L’Osservatore Romano, 6-7 maggio 2016, p. 5.
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